Giustizia minorile: torni la cultura della rieducazione dei giovani detenuti

di MICHELE CONIA – Torni la cultura educativa è l’appello – che sottoscrivo continuamente – lanciato da Antigone Defence Children International Italia e Libera”, sottoscritto da decine di associazioni e personalità,  auspicando che sia rivisto l’approccio punitivo della giustizia minorile e siano promossi maggiori  percorsi educativi e riabilitativi. Ho firmato anche la petizione “Inumane e degradanti” lanciata da Antigone e rivolta a Governo e Parlamento per denunciare le condizioni di sovraffollamento e altre situazioni di fragilità nelle carceri italiane. Coerentemente con i principi e le norme della “Convenzione Onu sui diritti dell›Infanzia e dell›adolescenza” e le “Linee guida del Consiglio d›Europa per una giustizia a misura di minorenne”, mi unisco all’appello dell’abolizione del Decreto Caivano e alle altre richieste: dall’assunzione di educatori, mediatori culturali e assistenti sociali, alla  formazione adeguata della polizia penitenziaria basata sui principi e le norme relative ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; dalla chiusura immediata della sezione IPM (istituti Penitenziari per Minorenni) nel carcere per adulti di Bologna alla costituzione di sezioni a custodia attenuata, come previsto dal D. Lgs. n. 121/2018 fino al monitoraggio della salute psico fisica e all’adeguata presa in carico per garantire sempre il superiore interesse delle persone minorenni.

L›approccio punitivo  a cui si fa sempre più ricorso è sbagliato in generale, ma lo è ancora di più quando parliamo di minori detenuti: serve, invece, più scuola, più lavoro, più supporto. Il Decreto Caivano (D.L. 123/2023)  approvato nel settembre 2023 ha trasformato la giustizia minorile in senso repressivo, si fa sempre più ricorso alla custodia cautelare, ha ridotto le misure alternative e i numeri parlano chiaro. Incrociando i dati di un recente report dei Radicali e di Nessuno Tocchi Caino si apprende che 9 IPM (Istituti Penali per Minorenni) su 17 sono in sovraffollamento, circa l’80% dei giovani è in custodia cautelare, quindi in attesa di giudizio, e la maggior parte dei reati contestati riguarda furti e rapine, non delitti gravi contro la persona; sono spesso trasferiti più volte, da un istituto all’altro, interrompendo relazioni educative e percorsi di formazione.

I numeri sono eloquenti  e inducono ad una riflessione: con l’introduzione del decreto Caivano si è passati da 392 ragazzi reclusi nell’ottobre 2022 a 586 nel giugno 2025, una cifra simile non si raggiungeva da oltre dieci anni; nel mese di gennaio 2024 i giovani detenuti in misura cautelare erano 340 contro i 243 dell’anno precedente. Ma, oltre all’aumento delle pene e la possibilità di disporre la custodia cautelare, in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti, secondo le nuove disposizioni, i direttori degli IPM possono ora decidere di trasferirli nelle carceri per la popolazione adulta, con conseguenze significative sulla recidività in un contesto molto più grande  e duro, che è quello del circuito detentivo per adulti. Questa disposizione, sempre esistita, aveva prima bisogno di diversi passaggi per venire realizzata. Infatti, il sistema della giustizia minorile, prevedeva che chi avesse commesso un reato da minorenne, potesse rimanere in un carcere minorile fino ai 25 anni di età.

Da giurista riconosco che la giustizia penale minorile italiana costituisce da 35 anni un modello virtuoso per l’intera Europa  e per questo ritengo sia dirimente rimettere al centro il bene supremo dei ragazzi e delle ragazze che commettono un reato in una fase così cruciale del proprio percorso di crescita.  L’analisi del contesto sociale ci pone di fronte a nuove sfide, emergenze come il disagio giovanile, l’aumento delle fragilità psicologiche, l’isolamento sociale, la povertà educativa e i fenomeni legati alla devianza minorile  richiedono un impegno ancora più strutturato, attento e tempestivo. Le disuguaglianze economiche, educative e sociali fotografate dal report “Senza filtri” della  XVI edizione dell’Atlante dell’Infanzia, che si fanno più pesanti in questa fase cruciale della crescita, rischiando di compromettere il loro futuro, ci inducono ad un’attenta riflessione e in prima persona, anche  come amministratore, avverto la necessità di  colmare questi divari e garantire a tutte le adolescenti e a tutti gli adolescenti l’opportunità di studiare, fare sport, frequentare luoghi di svago e di cultura. Contro la povertà educativa, l’isolamento e forme di marginalità sociale, per abbattere la dispersione occorrono ascolto, tutela e promozione dei diritti dei più piccoli e dei più giovani nelle nostre comunità. I giovani  e le giovani non sono solo il nostro futuro ma soprattutto  il nostro presente. Alla volontà punitiva invito a  rispondere  con il fondamentale principio dell’interesse superiore del fanciullo, fatto proprio dall’art. 3 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989 e quindi con una giustizia che crede nei ragazzi e nelle ragazze, nelle loro possibilità, nel loro futuro. Loro non sono quello che hanno commesso. (mc)

(Avvocato, sindaco di Cinquefrondi (RC) e consigliere metropolitano della città metropolitana di Reggio Calabria, delegato ai Beni Confiscati, Periferie, Politiche giovanili e Immigrazione e Politiche di pace)

Permane il caso Nord-Sud. È l’in-cultura all’italiana

di ENZO SIVIERO – Il tema del rapporto Nord Sud non riguarda la sola Italia. Si tratta di un atteggiamento culturale (o meglio in-culturale…) che attraversa le genti e i luoghi perdendosi nella notte dei tempi.

Ma il “caso Italia” merita una particolare attenzione, sia per l’avvenuta globalizzazione sia per il fiume di denaro che l’Europa ha stanziato per il nostro Paese, proprio a partire dalle acclarate diseguaglianze che ci connotano. Tanto palesi da orientare l’Europa come ben noto, a riservare una quota del 40% proprio al Sud. Ormai manca poco alla conclusione dei lavori, ma molto resta ancora da fare. Si sa che in Italia tutto è difficile e farraginoso con ostacoli latenti gestiti dai No a prescindere… tanto che ci si aspetta uno slittamento con ulteriori rimodulazioni. E perché non pensare in grande? In fondo, l’ingegneria visionaria ha fatto la storia dell’umanità! E, negli ultimi anni, in tutto il mondo si è visto un vistoso incremento di realizzazioni infrastrutturali, quali mai si sarebbero potute immaginare solo pochi decenni fa. E l’Italia? Molto è stato fatto e molto è in itinere, o comunque già programmato, soprattutto al Sud, ancor oggi bisognoso di investimenti volti al decollo futuro.

Con questa premessa si intende fare chiarezza sui diversi punti di vista tra Nord e Sud, con un occhio non miope verso, o meglio oltre, il Mediterraneo. Se è vero come nessuno può negare che l’Italia è il molo naturale verso il Mediterraneo, ad una visione strategica che interessa già l’oggi (e siamo già notevolmente in ritardo) ma soprattutto le prossime generazioni, non può negarsi che sia l’Africa il vero futuro dell’Europa! Ed è ovvio che, da questo come da molti altri punti di vista, in questa prospettiva geopolitica è l’Italia a giocare il ruolo principale, utilizzando quel “ponte liquido” che è il Mediterraneo, come è stato nel passato più o meno recente e com’è oggi ancor più pregnante, visto anche il raddoppio del Canale di Suez. Non a caso Turchia (e lo stesso Egitto…) unitamente a Russia e Cina stanno pressoché spadroneggiando nel Mare (non più) Nostrum approfittando di un’Europa intrinsecamente debole, incapace di una politica unitaria visti gli interessi contrastanti di taluni, non pochi, suoi membri. Ebbene, il Sud è indiscutibilmente il vero trampolino di lancio verso l’Africa, così come l’Africa si proietterà verso l’Europa tramite il Mezzogiorno. In una prospettiva geostrategica, gli investimenti al Sud sono vieppiù necessari certamente per lo stesso Sud, ma anche e soprattutto per il Nord che avrebbe tutto da guadagnare per la propria vocazione oggi mutata dovendo guardare a Sud per le proprie  esportazioni verso il nuovo immenso mercato africano sia per ricevere e far transitare le merci verso il Centro e il Nord Europa, anziché come avviene oggi riceverle dai porti tedeschi e olandesi ben attrezzati per accogliere le navi in transito nel Mediterraneo.

Ma vi è di più in una prospetto ancora più ampia, guardando a Est con le vie della seta (One belt one road) la Cina approda al Pireo con la prospettiva di raggiungere tramite i Balcani, e nuove infrastrutture ferroviarie ormai in esecuzione, il centro Europa. E, così, l’Italia (non solo il Sud) resterà tagliar fuori. Altro che Marco Polo o Matteo Ricci!

Immaginando anche collegamenti stabili Tunisia-Sicilia (TUNeIT) e Puglia-Albania GRALBeIT) che, da oltre un decennio, vengono proposti da chi scrive senza alcun riscontro in Italia da parte di chi ci governa, (ma molto bene accolta dalle due parti Tunisia a sud e Albania a est), l’ingegneria visionaria (ma non troppo…) che, come detto ha fatto la storia del progresso, il Sud e l’Italia stessa sarebbero la cerniera tra tre continenti: Africa, Europa, Asia. Ovvero una eccezionale piattaforma logistica ben più importante a livello globale, andando oltre il Mediterraneo. Capace di collegare idealmente Città del Capo attraverso i corridoi infrastrutturali pan africani e Pechino tramite le vie della seta.

È chiaro, quindi, che con questi presupposti il Ponte sullo Stretto di Messina e la conseguente Metropoli dello Stretto evocata con grande enfasi dallo stesso Piero Salini, AD di WEBUILD (che io ho battezzato metropoli del Mediterraneo possibilmente estesa a nord fino a Gioia Tauro e a sud fino a Milazzo e le Eolie, e ancora verso Taormina le gole dell’Alcantara e l’Etna, ma inglobando anche i Nebrodi e i Peloritani in un unico grande scenario che affonda le radici nei miti e nella storia ) sarebbe un tassello fondamentale di un disegno più complesso da sviluppare nei prossimi decenni, capace di dare prospettive concrete per i nostri giovani (soprattutto del Sud) perché restino a costruire il proprio futuro a partire dai loro luoghi di origine. Senza contare che il crescente indebitamento che ricadrà sulle generazioni future, potrebbe non essere sufficiente a ridare al Sud e all’intera Italia quella lucentezza che merita. Non limitiamoci al sole, al mare, alla cultura e al turismo. Il Sud È il nostro futuro. Da questo punto di vista (e non solo…) il ponte di Messina va visto come asset strategico per l’Italia che guarda al Mediterraneo. Ormai tutti (o quasi…) si  sono convinti che il futuro dell’Italia passi dal Mediterraneo per proiettarsi verso l’Africa. È del tutto evidente che, in questo quadro geostrategico, il ruolo della Sicilia e dell’intero Meridione è cruciale e con esso il Ponte sullo Stretto di Messina diventa fondamentale e improcrastinabile. Del resto, il collegamento stabile tra Calabria e Sicilia è da decenni sancito dall’Unione Europea come parte del corridoio Berlino-Palermo, più di recente ridenominato Helsinki La Valletta. Ne consegue che i tentennamenti dell’Italia verso quest’opera, con ricorrenti “stop and go” puramente politici, sono del tutto incomprensibili a livello europeo. Ora finalmente è giunta la conferma della necessità di un collegamento stabile. E le attività connesse al riavvio dei cantieri sono ormai una certezza. Del resto, giusto per tornare su cose note ma su cui i “No Ponte”insistono ricorrentemente senza pudore, il ponte a campata unica ha avuto da tempo il placet tecnico, ma uno stop politico da parte del governo Monti ha generato un pesante contenzioso da parte del contraente generale Eurolink, fortunatamente annullato con la ripresa del contratto iniziale. Ebbene, voglio qui richiamare a futura memoria ciò che scrivevo un paio di anni fa in merito alla discussione allora in atto in Parlamento prima delle elezioni. “Ma ecco spuntare l’ennesimo ostacolo. Archiviata la proposta “assurda” di un tunnel , “non volendo” incomprensibilmente accettare la soluzione più logica di aggiornare il progetto definitivo già approvato (tempo pochi mesi) e spingendo per indire una nuova gara, si da credito ad una soluzione già bocciata da decenni come esito degli studi di fattibilità propedeutici all’indizione della gara internazionale (vinta da  Eurolink ). Ovvero un Ponte con piloni a mare così giustificato “presumibilmente costa meno”. Affermazione priva di riscontro oggettivo. Certamente censurabile in un documento ufficiale. Tanto più che, per valutarne la realizzabilità, sono necessari studi e indagini molto estesi e costosi! Ma tant’è! Se non vi è consenso politico, c’è sempre qualche “tecnico” pronto ad avallare i voleri del ministro di turno! Ma quel che più indigna è il fatto che non viene spiegato in linea tecnica il perché si sarebbe dovuto spendere altri 50 mln per studi di fattibilità già sviluppati nel passato (con non marginali profili di danno erariale), studi che semmai andrebbero aggiornati. E come giustificare gli oltre 350 mln spesi dallo Stato per il progetto definitivo a campata unica? Va ricordato che il progettista è la danese Cowi e la verifica parallela indipendente  sviluppata dalla statunitense Parson, società con decine di migliaia di dipendenti e con acclarata esperienza su ponti di grande luce, a livello mondiale. Ma vi è di più: abbandonando il progetto iniziale, l’ulteriore ritardo nell’inizio dei lavori per la realizzazione dell’opera è valutabile in almeno 5 anni. Orbene procrastinare nel tempo una infrastruttura strategica come questa (del valore di 5 mld per il solo Ponte), significa penalizzare ulteriormente il Mezzogiorno. Mentre il costo dell’insularità è stimato in oltre 6 mld (ovvero un Ponte all’anno). I livelli occupazionali sono valutati in decine di migliaia. E il solo indotto fiscale conseguente agli investimenti sulla “metropoli della Stretto” consentirebbe un rientro in pochi anni dei costi che lo Stato dovrebbe sostenere. Va da se (ma non sembra così chiaro a taluni contrari all’opera) che sarebbe ridotto drasticamente l’inquinamento dello Stretto senza contare gli attuali rischi per la sicurezza conseguenti alle possibili collisioni dei traghetti. L’amara conclusione è che si sarebbero “buttati” centinaia di milioni per ripartire da capo, ignorando le conseguenze di un ulteriore ritardo. Perché queste decisioni “masochistiche”? La quasi totalità dei tecnici “qualificati” e non asserviti alla politica la pensano allo stesso modo. “Ma ora il vento è cambiato! Il Governo in carica ha riavviato l’iter  procedurale e realizzativo. E nonostante qualche ulteriore stop della magistratura contabile (cui si sta dando puntuale risposta), possiamo  concludere con un perentorio finalmente ci siamo! (es)

(Sintesi dell’intervento alla tavola rotonda del 29/11 nell’ambito del convegno CONNESSIONI MEDITERRANEE a Reggio Calabria)

Qualità della vita: Reggio di nuovo ultima nella classifica del Sole 24 ore

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Reggio è ultima, per il secondo anno consecutivo, per la qualità della vita. È quanto emerso dalla 36esima edizione del Rapporto Qualità della Vita 2025 de Il Sole24Ore, dove si registra per la Città dello Stretto (in 107esima posizione) un peggioramento anche degli indicatori: nel 2024 la provincia era oltre la 100ª posizione in 16 indicatori su 90, nel 2025 è oltre la posizione 100 in 27 dei 90 indicatori.

Un dato desolante, considerando che, recentemente, Reggio si collocava all’ultimo posto (105) nel dossier di Legambiente realizzato in collaborazione con Ambiente Italia e Il Sole 24 Ore, per performance ambientali e qualità dei servizi, con trasporto pubblico, piste ciclabili, uso efficiente del suolo e gestione dei rifiuti tra i dati peggiori d’Italia.

E i dati del quotidiano fotografano una Reggio “ultima degli ultimi”, in cui la posizione  107 della graduatoria generale è la somma del 107° posto per «Affari e lavoro», del 107° per «Ambiente e servizi» e del 101° per «Ricchezza e consumi».

«Un territorio a basso reddito – spiega il quotidiano economico – in cui le famiglie con Isee sotto i settemila euro sono il 40,6% del totale, il reddito medio pro capite è poco più alto di 15mila euro, più basso della pensione di vecchiaia (21mila euro), ma l’inflazione (2%) è il doppio di quella nazionale. Ancora: Reggio Calabria è nelle ultime 15 posizioni in quasi tutti gli indicatori di «Affari e lavoro». È trentesima per start up innovative e 22ª per pensioni di vecchiaia che sul territorio rappresentano una misura di welfare non convenzionale per molte famiglie. Infatti, anche se per quoziente di natalità Reggio Calabria è 7ª in classifica, i giovani, e non solo, scappano. Il saldo migratorio totale è meno 2,5 (Reggio è 106ª, penultima in classifica) frutto anche di un fenomeno segnalato dall’Istat nel 2025 e qui ben presente: emigrano anche i pensionati che vanno al Nord a raggiungere i figli, precedentemente emigrati, per fare da baby sitter ai nipoti e cercare una sanità più efficiente di quella reggina (la provincia è 102ª nell’emigrazione ospedaliera)».

Una Città di forti contrasti, dove alla bellezza dello Stretto «fanno da contraltare periferie in cui il degrado è visibile a occhio nudo: strade dissestate, incuria diffusa, auto vecchie e rumorose. Una situazione simile a quella della provincia, dei tre territori che la compongono: la Locride sullo Jonio, la Piana di Gioia Tauro sul Tirreno, l’Aspromonte che li divide appoggiandosi su Reggio Calabria».

Ma non è solo Reggio ad aver registrato delle criticità: Vibo Valentia (102esima posizione) è ultima per retribuzione dei lavoratori dipendenti (13.300 euro contro i 34.300 di Milano, 21mila euro di differenza) e per durata media dei procedimenti civili (121 giorni a Gorizia contro più di mille; la media in Italia è 345).

Malissimo Crotone (105esima posizione) per l’offerta culturale (a Pescara 103 spettacoli ogni mille abitanti, nel capoluogo pitagorico soltanto 5) e Cosenza per quota di export sul Pil (ultima a distanza siderale da Arezzo che guida la classifica) e valore aggiunto pro capite.

Crotone è ultima in classifica per qualità della vita delle donne, altro parametro per il quale Vibo è messa molto male. La qualità della vita degli anziani è pessima ancora a Vibo Valentia e Reggio Calabria (105esima). Crotone è terz’ultima in Italia per qualità della vita dei bambini, mentre è ultima per mortalità evitabile. Riguardo all’emigrazione ospedaliera, invece, la peggiore tra le calabresi è Cosenza (103esimo posto). Cosenza si posiziona 100esima, mentre Catanzaro, tra le cinque province, è quella più in alto: è al 92esimo posto.

I dati emersi da Il Sole24Ore devono far riflettere, soprattutto se, nelle prime 30 posizioni, ci sono solo regioni settentrionali. Bisogna arrivare alla 39esima posizione per trovare una regione del Sud, ovvero Cagliari.

«Il dato conferma – scrive il quotidiano – una spaccatura che, in 36 edizioni della Qualità della vita, non ha accennato a sanarsi, nonostante i punti di forza del Sud nella demografia, nel clima, nel costo della vita decisamente più accessibile e i fondi (inclusi quelli del Pnrr) che, negli anni, hanno contribuito a dare una spinta alle imprese e al Pil del territorio in questione: le ultime 22 classificate, infatti, continuano a essere province meridionali».

Dati, quelli del quotidiano economico, che andrebbero presi con le pinze, in quanto – come scritto proprio sulle sue pagine – il costo della vita al Sud è decisamente più accessibile nel Mezzogiorno che al Nord. Ovviamente, questo non significa che le criticità non ci siano anzi, quanto emerso dalla classifica de Il Sole24Ore dovrebbe essere la bussola per la Regione per individuare le criticità e cercare di porvi rimedio attraverso veri interventi e piani capaci di migliorare la qualità della vita non solo a Reggio, ma in tutta la Calabria. Leggere di Crotone, per esempio, che “fallisce” per quanto riguarda l’offerta culturale è desolante, considerando che la città di Pitagora era un centro di riferimento politico, religioso e culturale per l’intero territorio della Magna Grecia. E stesso discorso vale anche per il fallimento per quanto riguarda la qualità del lavoro delle donne, della qualità della vita per i bambini. Dati, questi, che dovrebbero suggerire alla politica di prestare più attenzione alla città pitagorica. Anzi, l’attenzione e l’impegno dovrebbe essere equo e uguale per tutte le province, per per aree interne e qualsiasi angolo della Calabria.

Tornando alla classifica del quotidiano, in prima posizione troviamo la provincia di Trento, già incoronata regina dell’Indice di Sportività 2025 e di Ecosistema Urbano, Trento svetta in un podio tutto alpino di teste di serie dell’indagine: Bolzano è al secondo posto e Udine al terzo.

La top 10 della classifica quest’anno è popolata da territori del Nord Italia, in un mix tra grandi città come Bologna,4 ª, e Milano, 8 ª, e province di piccola taglia come Bergamo (5 ª, vincitrice nel 2024), Treviso (6 ª, con il record di posizioni risalite: +18), Verona (7 ª), Padova (9 ª, che ritorna tra le prime 10 dopo 30 anni di assenza: era nona nel 1994) e Parma (10 ª). A trionfare, come già in passato, è in particolare il versante Nord-Orientale della penisola.

Le città metropolitane registrano un miglioramento diffuso rispetto all’edizione 2024: solo due su 14, Bari e Catania, calano di posizione rispetto all’indagine dell’anno scorso, mentre altre due (Firenze, 36ª, e Messina, 91ª) risultano stabili. La competitività di questi territori sul piano degli affari e del lavoro, ma anche l’attrattività su quello degli studi e dell’offerta culturale, contribuiscono dunque a mitigare la presenza di disuguaglianze accentuate che rende queste aree più esposte alla polarizzazione interna. A guidare la risalita con un avanzamento di 13 posizioni è Roma, che si piazza 46ª, mentre Genova sale di 11 gradini arrivando al 43° posto. In miglioramento anche le già citate Bologna, che rimane tra le prime dieci ma a +5 sul 2024, e Milano (+4), che torna in top 10 piazzandosi all’8° posto. Torino sale di una posizione (57ª).  La prima area metropolitana del Mezzogiorno, inteso nella sua accezione più ampia che comprende anche le isole, è Cagliari, che sale di cinque posizioni e si piazza 39ª, seguita da Bari (67ª, ma in calo di due posizioni), Messina (91ª), Catania (96ª, in calo però di 13 posizioni), Palermo (97ª) e Napoli (104ª). (ams)

Non nuovi Enti intermedi ma rimodulazione degli ambiti vasti

di SANDRO FULLONE E DOMENICO MAZZA Le posizioni esternate alla stampa da alcuni Amministratori delle Serre vibonesi, relativamente alla possibilità di traghettare le proprie Comunità dalla Provincia di Vibo a quella di Catanzaro, hanno aperto a una serie di interventi della Politica e della società civile sulla tematica. L’argomento, senza dubbio, rappresenta un nervo scoperto e non certo riconducibile alla sola area dell’Istmo e delle Serre. In tutta onestà – ci sia consentito – quella dell’autonomia territoriale, fino a un lustro fa, era diventata lettera morta. Poi, l’intuizione del Comitato Magna Graecia: non già pensare a nuovi Enti intermedi, ma una rimodulazione, equa e coerente, degli attuali assetti amministrativi regionali. Una lettura geopolitica degli ambienti calabresi, fondata su aree a interesse comune e omogeneità territoriali. I requisiti fondamentali, altresì, che dovrebbero stare alla base della costituzione degli ambiti vasti e che il deviato regionalismo calabrese ha sistematicamente ignorato. Invero, le posizioni del Comitato non sono state dettate dell’estemporaneità. Al contrario, hanno sviscerato risultati frutto di studi scientifici e di ricerca sociale. Vieppiù, hanno analizzato, ponderato e descritto un metodo che darebbe lustro e dignità a ogni contesto intermedio della Regione. Non è un caso, infatti, che oggi molti si ispirino, nel tentativo di risolvere annose questioni di carattere territoriale, all’idea Magna Graecia. D’altronde, non rappresenta un mistero che le banali e impalpabili ripartizioni provinciali degli ultimi decenni abbiano lasciato le richiamate questioni del tutto insolute, se non addirittura peggiorate.

La tripartizione storica: un sistema che ha generato processi di centralizzazione a scapito delle aree periferiche

Il vecchio inquadramento calabrese della tre Province storiche (CZ-RC-CS) aveva dimostrato tutti i suoi limiti già all’indomani dell’avvento della Regione. Il riparto dei fondi destinati alla nascita del regionalismo, come apparato dello Stato, aveva generato la proliferazione di aree di figli e aree di figliastri. Il vecchio Pacchetto Colombo rappresentò lo specchietto di tornasole di una Regione sostanzialmente divisa a tre teste. E, mentre Catanzaro e Reggio litigavano per il mantenimento dello status di Capoluogo regionale, Cosenza si inseriva nel dibattito facendo man bassa di tutto. In quel marasma istituzionale le aree che fino ad allora avevano interpretato il vero motore economico della Regione (prima fra tutte il polo industriale Crotonese) iniziarono un lento declino, diventando sempre più marginali rispetto ai consolidati sistemi centralisti. Crotone, il Vibonese, la piana di Gioia e la Sibaritide furono relegate a periferie di Catanzaro, Reggio e Cosenza. Lamezia, Castrovillari, Paola, invece, si inquadrarono in un rapporto succursale con i relativi Capoluoghi. Risultato? Ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti: mugugni, lamenti, spoliazioni diffuse di servizi e status amministrativi presenti solo nelle nomenclature, ma a siderali distanze dalla percezione reale dei relativi ambiti.

Inutile pensare a nuove Province. Serve un ridimensionamento degli ambiti vasti, rispettando le omogeneità territoriali

In un contesto come quello calabrese, già eccessivamente provato dalla risicata condizione demografica della Regione, pensare all’istituzione di nuove Province sarebbe un’idea folle ancor prima che inattuabile. Tuttavia, le spinte autonomiste provenienti dal contesto sibarita e dagli ambienti centrali della Regione meritano di essere prese in debita considerazione. Certamente, pensare di poter risolvere un problema come quello delle autonomie – che non è sentito solo nella piana di Sibari, ma impatta un po’ tutto il tessuto regionale –, con l’istituzione di nuovi Enti, rappresenterebbe soltanto un binario morto. Piuttosto, è la politica regionale che dovrebbe farsi carico di trovare una soluzione che guardi a una rinnovata mappatura della Regione. Non si può lasciare un tema del genere al chiacchiericcio social e a ragionamenti campanilistici e di pancia che, a oggi, hanno generato solo arretratezza, miseria e involuzione culturale. Il riassetto delle Province e più in generale degli Enti immediatamente sottoposti alle Regioni, dovrebbe essere lo zenit dell’agenda politica di Classi Dirigenti che aspirino a considerarsi coerentemente europee. Va da sé che l’attuale condizione calabrese imponga, per una ottimizzazione della gestione territoriale, una ripartizione organica finalizzata a inquadrare la Regione come area da settorializzare in quattro ambiti: Nord Ovest, Nord Est, Centro e Sud. Ognuno dei richiamati ambienti geografici godrebbe di un’estensione territoriale e demografica che consentirebbe una declinazione coerente e strutturata dell’intero Sistema Calabria. Intanto, i quattro contesti territoriali sarebbero molto simili fra loro. Quanto detto, inoltre, consentirebbe di equiparare ogni ambito con criteri di pari diritti e pari dignità istituzionale. Chiaramente, l’impianto immaginato, dovrebbe fondarsi sulla esistenza di uno o più sistemi urbani a riferimento geopolitico dell’intero contesto. L’asse Cosenza-Rende da un lato e quello di Corigliano-Rossano e Crotone dall’altro, consentirebbero una organizzazione ottimale dei due ambienti nord. Le città di Catanzaro, Lamezia e Vibo, potrebbero inquadrarsi come chiave di svolta per immaginare la nascita di un contesto metropolitano, diffuso e policentrico, tra l’area dell’Istmo e quella delle Serre. Reggio-Villa, Gioia e Locri-Siderno, completerebbero coerentemente le polarità di riferimento nel quadrante geografico dello Stretto. Le descritte Aree Vaste godrebbero di una demografia compresa tra i 400 e 500mila abitanti ciascuna. Ognuno dei contesti avrebbe competenza diretta sulle due Aree Interne comprese nei rispettivi ambiti. Savuto e Alto Tirreno-Pollino per quanto riguarda Cosenza; Jonio Federiciano e Sila Graeca-Marchesato per l’Arco Jonico; la Presila Piccola e le Serre per l’area centrale; l’area Grecanica e quella Aspromontana per l’ambiente Sud. Un inquadramento fedele, quindi, a quelle che sono le raccomandazioni e le disposizioni europee in termini di gestione degli ambiti vasti. Quattro ambienti intermedi che rilancerebbero l’apparato burocratico calabrese. Vieppiù, riformando la Regione nel suo impianto e superando una visione centralista che l’ha, storicamente e innaturalmente, suddivisa a tre teste; anche, successivamente la istituzione delle due impalpabili Province costituite nel ‘92.

Avviare campagne di sensibilizzazione per favorire i processi di Unione e Fusione dei Comuni

Chiaramente, non basterà la sola riorganizzazione degli ambiti vasti a individuare questa Regione come contesto efficiente e sistematico. Una popolazione di circa 1.8 milioni d’abitanti e una parcellizzazione municipale di 404 Comuni impongono una riflessione attenta e accurata. Da questo punto di vista, il grido d’allarme proveniente da alcuni Amministratori della Locride non è da sottovalutare. Anzi, una Politica attenta dovrebbe suffragare e sostenere un dibattito volto a ottimizzare il numero delle Municipalità regionali portando l’attuale media abitativa – di poco superiore ai 4000 ab. circa – ad, almeno, un inquadramento urbano composto dal doppio degli abitanti. Non già, tuttavia, calando dall’alto progetti come si è malamente fatto nel recente tentativo di sintesi amministrativa in val di Crati. Piuttosto, accompagnando le popolazioni calabresi verso un processo di consapevolezza e crescita sociale non più procrastinabile. In questo alveo, superando sterili e inutili difese campanilistiche, bisognerà riprendere l’argomento della fusione a Cosenza. A ruota, dovrebbero seguire le sintesi amministrative della Sibaritide (grande Sybaris), del Crotonese (grande Kroton), della Locride (la nuova Epizefiri), di Vibo (la nuova Valentia) e della Piana di Gioia. Senza dimenticare le fusioni tra piccoli Comuni in ognuna delle Aree Interne comprese nella mappatura regionale. Laddove i processi di fusione risultassero inattuabili, un Establishment responsabile dovrebbe invogliare processi di unione finalizzati alla ottimizzazione e controllo unitario dei servizi di base tra Comunità. Solo così la Calabria potrà risalire la china e avviare un processo di revisionismo storico che la inquadrerebbe come fulcro indiscusso del nuovo ambiente geopolitico euromediterraneo.

Vieppiù, la consacrerebbe come porzione integrante del nuovo ecosistema geografico nella Macroregione Mediterranea di prossima costituzione.

Ogni altro minuto passato a cincischiare, proponendo progetti e visioni superate dal tempo e dai fatti, contribuirà ad affievolire il peso politico di questa Regione rispetto ai macrocontesti europei.

Avviarci a narrare una Calabria che rappresenti realmente il paradigma di una terra straordinaria, rimettendo al centro i cittadini e suffragando le loro istanze di cambiamento ed emancipazione, dovrebbe essere un imperativo. Il momento delle agognate riforme strutturali, è adesso.

È necessario osare! Non c’è più tempo da perdere. (sf e dm)

(Comitato Magna Grecia)

Svimez, il Sud cresce ma perde i suoi giovani

di ANTONIETTA MARIA STRATI – È una stagione ricca di contrasti, quella che sta vivendo il Sud. Se da una parte cresce come non mai l’occupazione, dall’altra è inesorabile l’esodo dei giovani che svuota il Mezzogiorno di competenze e futuro. È questo il quadro emerso dal Rapporto Svimez, presentato a Roma dal direttore Luca Bianchi.

Tra il 2021 e il 2024, quasi mezzo milione di posti di lavoro è stato creato nel Mezzogiorno, spinto da PNRR e investimenti pubblici. Ma negli stessi anni 175 mila giovani lasciano il Sud in cerca di opportunità. La “trappola del capitale umano” si rinnova: la metà di chi parte è laureato; le migrazioni dei laureati comportano per il Mezzogiorno una perdita secca di quasi 8 miliardi di euro l’anno. I giovani che restano, troppo spesso, trovano lavori poco qualificati e mal retribuiti. Con i salari reali che calano aumentano i lavoratori poveri: un milione e duecentomila lavoratori meridionali, la metà dei lavoratori poveri italiani, è sotto la soglia della dignità. Si evidenzia, inoltre, una emergenza sociale nel diritto alla casa.

Il PNRR sostiene la crescita e spinge fino al 2026 il Pil del Sud oltre quello del Nord. Il percorso di sviluppo avviato dal PNRR non può interrompersi nel 2026. Il Mezzogiorno sta dimostrando di poter essere protagonista della transizione industriale ed energetica del Paese, ma servono scelte politiche forti per consolidare i risultati raggiunti e dare continuità agli investimenti. Tra i segnali positivi nel Mezzogiorno sui quali costruire il futuro post PNRR: la crescita dei servizi ICT, la crescita dell’industria, il miglioramento dell’attrattività delle università meridionali. Ma la legacy del PNRR riguarda anche cambiamenti sociali e istituzionali che devono orientare il complesso delle politiche pubbliche: il miglioramento della capacità amministrativa dei Comuni; i primi segnali di convergenza Sud-Nord nell’offerta pubblica di asili nido e del servizio mensa nelle scuole; la standardizzazione e semplificazione degli iter amministrativi. 

Per la Svimez, dunque, la vera sfida «è consolidare questi segnali positivi in un percorso di sviluppo duraturo, che renda il diritto a restare pienamente esercitabile e la decisione di partire una scelta, non una necessità. Occorre agire su quattro leve: potenziare le infrastrutture sociali e garantire i servizi oltre il Pnrr; rafforzare i settori a domanda di lavoro qualificata; puntare sulla partecipazione femminile nel mercato del lavoro, nel sistema della ricerca e nella sfera politica e decisionale, dove rivestono un peso ancora marginale; investire sul sistema universitario come infrastruttura di innovazione».

È lo stesso Bianchi a ribadire come «il Mezzogiorno sta crescendo in questi ultimi anni grazie al PNRR. Ora la sfida è dare continuità a questo ciclo d’investimenti».

A fargli eco il presidente Adriano Giannola, evidenziando come «grazie al Pnrr persistenti segnali di ripresa dell’economia e del lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno che, tuttavia, non riescono a incidere e prevalere sulle dinamiche migratorie e sulle prospettive di vita delle giovani generazioni. Si conferma infatti che tanti giovani scelgono le Università del Nord soprattutto perché offrono qualificate prospettive di opportunità di lavoro anche, e sempre più, fuori Italia».

I dati del Rapporto, infatti, ci dicono come tra 2021 e 2024 il Pil del Mezzogiorno aumenta dell’8,5%, contro +5,8% del Centro-Nord. A determinare questo scarto contribuiscono diversi fattori: la minore esposizione dell’industria meridionale agli shock globali; un ciclo dell’edilizia particolarmente favorevole legato prima al maggiore impatto espansivo degli incentivi edilizi, poi allo stimolo fornito dal Pnrr la chiusura del ciclo 2014-2020 della politica di coesione. A ciò si è aggiunta la ripresa del turismo e dei servizi, che ha rafforzato la domanda interna. E ancora: le costruzioni sono il motore principale: +32% nel Sud contro +24% nel Centro-Nord. Per il peso che riveste nella formazione del valore aggiunto dell’area, il contributo più rilevante alla crescita del Pil 2021-2024 del Mezzogiorno è venuto dal terziario: +7,4% l’aumento medio in Italia dei servizi, che raggiunge il +7,8% nel Mezzogiorno (+7,3% nel Centro-Nord). La crescita non si è limitata ai servizi tradizionali. Crescono le attività finanziarie, immobiliari, professionali e scientifiche che hanno goduto degli effetti di domanda di nuova progettualità pubblica e privata attivata dal Pnrr.

Nel biennio 2023-2024 l’effetto espansivo del Pnrr che è valutabile in circa 0,9 punti di Pil nel Centro-Nord e 1,1 punti nel Mezzogiorno. Gli investimenti attivati dal Piano hanno di fatto scongiurato il rischio di una stagnazione della crescita italiana.

Secondo le stime Svimez, l’Italia crescerà poco ma in miglioramento: +0,5% nel 2025, +0,7% nel 2026, +0,8% nel 2027. Grazie al completamento dei cantieri PNRR, il Sud dovrebbe continuare a superare il Centro-Nord nel biennio 2025-2026: +0,7% e +0,9%, contro +0,5% e +0,6% del Centro-Nord. Complessivamente, sulla crescita cumulata del biennio 2025-2026, la domanda di investimenti pubblici dovrebbe valere 1,7 punti di Pil nel Mezzogiorno e  0,7 punti nel Centro-Nord. Nel 2027 rallenta ciclo investimenti pubblici, riparte la domanda internazionale e il Centro-Nord torna a crescere più del Sud (+0,9% contro +0,6%).

Per il direttore Bianchi  «ora la sfida è dare continuità a questo ciclo d’investimenti. Bisogna migliorare la spesa delle politiche di coesione e ricostruire un quadro di politica industriale che valorizzi la grande impresa del Mezzogiorno e i tanti settori che stanno vincendo la sfida della competitività», mentre il presidente Giannola punta l’attenzione sui giovani, evidenziando «come l’emorragia di giovani italiani altamente formati investe anche il Centro-Nord che, pur perdendo capitale umano a vantaggio di poli stranieri, lo recupera ancora grazie alle migrazioni interne dal Sud. Al Mezzogiorno, quest’emigrazione qualificata infligge una perdita secca e impone una drastica segregazione ai giovani meno “ricchi e formati” che rimangono e alimentano il boom dell’occupazione soprattutto nel terziario dei servizi a basso valore aggiunto e precario; al contempo l’industria manifatturiera ristagna o perde colpi. Per trattenere le competenze nelle regioni meridionali e uscire dalla trappola dei bassi salari e del lavoro povero la priorità è garantire la qualità dell’occupazione e delle retribuzioni. Se è vero che nel periodo 2021-2024 il Sud cresce più del Centro-Nord, è altrettanto vero che in quegli anni contiamo ben 100mila poveri in più nel Mezzogiorno».

Dal Rapporto Svimez, infatti, emerge come «tra il 2021 e il 2024 il Mezzogiorno ha registrato un incremento dell’occupazione pari all’8%, contribuendo per oltre un terzo al milione e quattrocentomila nuovi occupati a livello nazionale. Il Centro-Nord ha aggiunto circa 900mila posti, il Sud quasi 500mila. Le politiche pubbliche hanno svolto un ruolo determinante: prima l’espansione degli incentivi edilizi, poi l’avvio dei cantieri Pnrr e l’aumento degli organici nella pubblica amministrazione hanno sostenuto occupazione in edilizia, servizi professionali e filiere manifatturiere legate agli investimenti pubblici».

Cresce l’occupazione giovanile, soprattutto nel Mezzogiorno. Nel triennio 2021-2024 gli under 35 occupati sono aumentati di 461mila unità a livello nazionale, di cui 100mila nel Sud. Il tasso di occupazione giovanile cresce più al Sud (+6,4 punti), ma resta molto più basso rispetto al Centro-Nord (51,3% contro 77,7%).

Nonostante il boom occupazionale, il Mezzogiorno non trattiene i giovani. Tra i due trienni 2017-2019 e 2022-2024 le migrazioni dei 25-34enni italiani sono aumentate del 10%: nell’ultimo triennio 135mila giovani hanno lasciato l’Italia e 175mila hanno lasciato il Sud per il Nord e l’estero. Un paradosso evidente: più lavoro ma non migliori condizioni di vita, né opportunità professionali adeguate alle competenze.

La conseguenza è che il Sud forma competenze che alimentano la crescita e l’innovazione altrove. I dati dicono che sono oltre 40mila i giovani meridionali che si trasferiscono ogni anno al Centro-Nord, mentre 37mila laureati italiani emigrano all’estero. Con l’emigrazione di questi laureati, una parte del rendimento potenziale dell’investimento pubblico sostenuto per la loro formazione viene dispersa. Il bilancio economico di questo movimento è pesante: dal 2000 al 2024 il Mezzogiorno perde di investimenti 132 miliardi di euro di capitale umano, contro un saldo positivo di 80 miliardi per il Centro-Nord. Poli esteri che attraggono giovani italiani altamente formati, il Centro-Nord che perde verso l’estero ma recupera grazie alle migrazioni interne di laureati da Sud, il Mezzogiorno che li forma e continua a perderli.

Nel Mezzogiorno, nel 2021-2024, sei nuovi occupati under35 su dieci sono laureati, contro meno di cinque nel resto del Paese. Tuttavia, la prima porta d’ingresso al lavoro rimane il turismo: oltre un terzo dei nuovi addetti giovani si colloca nella ristorazione e nell’accoglienza, settori a bassa specializzazione e bassa remunerazione. Al tempo stesso, crescono i giovani laureati nei servizi ICT e nella pubblica amministrazione, grazie al PNRR e alla riforma degli organici pubblici. La qualità delle opportunità resta però insufficiente: il mercato del lavoro meridionale continua a offrire sbocchi concentrati nei comparti tradizionali, con scarsa domanda di competenze avanzate.

Per trattenere i giovani, il Sud deve attivare filiere produttive ad alta intensità di conoscenza, rafforzare la base industriale innovativa e integrare formazione superiore, ricerca e politiche industriali. Senza un salto di qualità nella domanda di competenze, la mobilità giovanile continuerà a essere una scelta obbligata.

Un altro dato rilevato dalla Svimez sono i salari, che sono in calo, soprattutto nel Mezzogiorno: Dal 2021 al 2025 i salari reali italiani hanno perso potere d’acquisto, con una caduta più forte nel Sud: -10,2% contro -8,2% nel Centro-Nord. Inflazione più intensa e retribuzioni nominali più stagnanti accentuano il divario.

In Italia i lavoratori poveri sono 2,4 milioni, di cui 1,2 milioni al Sud. Tra il 2023 e il 2024 aumenta il numero dei lavoratori poveri: +120mila in Italia, +60mila al Sud. Non basta avere un’occupazione per uscire dalla povertà: bassi salari, contratti temporanei, part-time involontario e famiglie con pochi percettori ampliano la vulnerabilità.

Nel 2024 le famiglie povere crescono nel Mezzogiorno dal 10,2% al 10,5%. Centomila persone in più scivolano nella povertà assoluta, per effetto di un aumento delle famiglie che risultano in povertà assoluta anche se con persona di riferimento occupata.

Sono i Comuni ad aver dato lo stimolo più forte agli investimenti pubblici: raddoppiati nel Mezzogiorno tra il 2022 e il 2025 da 4,2 a 8 miliardi di euro. Oltre che alla maggiore flessibilità introdotta con la modifica del Patto di stabilità, tale dinamica va ascritta principalmente alla soddisfacente capacità dei Comuni nell’attuare le misure del Pnrr.

Il Pnrr destina 27 miliardi di opere pubbliche al Sud. Tre cantieri su quattro sono in fase esecutiva al Sud, in linea con il dato del Centro-Nord. Il 25% dei progetti al Centro-Nord è già alla fase del collaudo; il 16,2% al Mezzogiorno.

La Svimez, in collaborazione con l’Ance, ha realizzato un monitoraggio aggiornato a fine ottobre 2025 sullo stato di avanzamento dei cantieri delle infrastrutture sociali finanziate dal PNRR: interventi per un valore complessivo di circa 17 miliardi di euro affidati in larga parte a Comuni e Regioni per la realizzazione di opere nei servizi per la prima infanzia, nell’edilizia scolastica e nella sanità territoriale. Nel Mezzogiorno i cantieri PNRR per infrastrutture sociali dei Comuni sono in fase avanzata progetti per il 51,5% del valore complessivo delle risorse contro solo il 33% di quelli delle Regioni.

Le attività di assistenza tecnica offerta dai centri di competenza nazionale alle amministrazioni locali responsabili degli interventi ha consentito l’accelerazione e standardizzazione degli iter amministrativi. Con il Pnrr si sono ridotti i tempi medi di progettazione delle opere rispetto al pre Pnrr con una sostanziale convergenza Sud/Nord: nel Mezzogiorno da 20,4 a 7,1 mesi; nel Centro-Nord da 16,8 a 7,4.

«Grazie agli investimenti del Pnrr – scrive la Svimez – i Comuni del Mezzogiorno stanno realizzando un miglioramento nei servizi educativi per l’infanzia e per la scuola. I primi risultati sono già visibili: crescono i posti negli asili nido pubblici e aumenta la quota di alunni che frequentano scuole dotate di mensa, due indicatori fondamentali del diritto di cittadinanza all’istruzione».

Per Giannola «a conti fatti, il contributo decisivo alla crescita meridionale è venuto dall’edilizia, sostenuta in una prima fase dagli incentivi del vituperato – malgovernato Superbonus, poi dagli investimenti pubblici legati al PNRR, al quale hanno dato una spinta importante tra il 2022 e il 2025 gli investimenti dei Comuni, che sono raddoppiati. Come suggeriscono le nostre previsioni, il Sud continuerà a crescere più del Nord finché c’è il PNRR: alla fine di questo vero e proprio “intervento straordinario dell’Europa” che accadrà?».

S«e non è errato dire che le risorse del Pnrr – ha proseguito il presidente della Svimez – hanno prevalentemente mirato alla revisione e manutenzione di un sistema che non cresce da troppi anni, si conferma l’aspettativa che riprenda il deludente tratto delle Politiche di Coesione».

«Ma fare sviluppo – ha evidenziato – vuol dire cambiare, non limitarsi a “tenere assieme i pezzi”. Una valutazione che non riguarda solo il Sud, ma anche per molti versi il Centro-Nord, quindi l’intero Paese. Non a caso la Commissione Europea diagnostica l’Italia prigioniera nella “trappola dello sviluppo”. Eppure, avremmo potenzialità che non sfruttiamo adeguatamente, sintetizzabili in primis nella posizione privilegiata nel Mediterraneo, che offre vantaggi comparati per realizzare la “doppia transizione” programmata dalla UE».

«Mettere in campo sistematicamente e non per caso – ha concluso – tra le celebrate energie rinnovabili, la risorsa geotermica contribuirebbe e non poco alla nostra autonomia nella transizione energetica. Per le aree meridionali, che ne hanno in abbondanza, sarebbe un potenziale complemento alle mai avviate Autostrade del Mare, essenziali per realizzare la “Logistica a valore”, articolata in porti e retroporti attrezzati e favoriti dai privilegi fiscali delle Zone Doganali Intercluse».

Per la Svimez, poi, l’avvio delle pre-intese sull’autonomia differenziata può compromettere l’efficacia degli interventi del Pnrr: se da una parte c’è il Piano nato per ridurre i divari territoriali migliorare i servizi essenziali e rafforzare la capacità amministrativa delle aree più fragili, soprattutto nel Mezzogiorno, dall’altra c’è una riforma che rischia di aumentare le diseguaglianze, sottraendo risorse e competenze condivise e frammentando i diritti di cittadinanza.

Il risultato è una riforma nata per ricucire il Paese si sovrappone a un’altra che può accentuarne le fratture. Senza un quadro unitario, gli effetti positivi del PNRR rischiano di indebolirsi proprio ora che stanno emergendo. La contraddizione è ancora più evidente perché il Pnrr include tra le sue riforme la revisione organica del federalismo fiscale, pensata per garantire livelli essenziali delle prestazioni uniformi e ridurre i divari. L’autonomia differenziata va nella direzione opposta e rischia di compromettere l’efficacia stessa del Piano.

Il Mezzogiorno continua a presentare un marcato divario infrastrutturale rispetto al Centro-Nord. Ed anche gli indici di accessibilità alle infrastrutture esistenti mostrano come, a fronte di valori medi superiori nelle regioni settentrionali per strade e ferrovie, le regioni meridionali si fermano spesso intorno o al di sotto, con punte molto basse nelle città minori, con ritardi più profondi al Sud nel caso delle infrastrutture ferroviarie ad alta velocità, dei servizi sanitari e della rete impiantistica per la gestione dei rifiuti. Posto uguale a 100 l’indice medio di accessibilità Italia per le infrastrutture ospedaliere, il Mezzogiorno registra un valore pari ad appena 68 contro il 132 del Nord e il 118 del Centro.

La Svimez, poi, ha ribadito come il rilancio del Mezzogiorno passa dalle grande aziende. Nonostante il loro peso sia ancora limitato, è significativo: quasi 600mila addetti e 46 miliardi di valore aggiunto, concentrati in pochi poli industriali. Nei comparti a più elevata tecnologia l’incidenza occupazionale dei grandi impianti al Sud supera il 50% (30% nelle altre aree).

Tra i tanti dati, emerge, infine, come la partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Italia resta tra le più basse d’Europa, nonostante i segnali positivi registrati tra il 2021 e il 2024. Il tasso di occupazione femminile, pur in crescita, è ancora lontano dagli standard europei e presenta forti divari tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Persistono inoltre fenomeni strutturali di segregazione e precarietà: nel Sud le donne lavorano soprattutto in settori a bassa remunerazione e produttività, con contratti spesso temporanei o part-time involontari. A pesare sono anche le limitate opportunità di carriera, frenate da barriere culturali e dalla mancanza di adeguate politiche di conciliazione. Ne derivano ampi divari retributivi e una partecipazione femminile molto diseguale, soprattutto nelle aree più deboli per struttura produttiva e servizi di welfare. (ams)

Il valore ambientale ed economico del bello naturale e del paesaggio culturale in Calabria

di EMILIO ERRIGO  – La bellezza nel mondo antico valeva veramente molto. Il valore della bellezza lo ha sintetizzato molto bene, (Kahlil Gibran), il quale scrisse: «vorrei costruire una città presso un porto, su un’isola, e in quel porto erigere una statua non alla Libertà, ma alla Bellezza. Poiché la Libertà è quella ai cui i piedi gli uomini hanno sempre combattuto le loro battaglie, mentre la Bellezza è quella al cui cospetto tutti gli uomini alzano le mani verso tutti gli uomini, come fratelli».

La sete di bellezza e cultura sono bisogni interiori condivise da ogni popolo, in ragione di verità universali, riconosciute in ogni luogo e in ogni tempo, quali  inalienabili diritti dell’Uomo. 

Quanto vale il bello naturale e il paesaggio culturale della Regione Calabria?

Oggi come ieri, il naturale risulta sempre bello, agli occhi e ai sensi percepibili dall’essere umano. 

Il bello che madre natura ha donato alla Calabria, espresso in tutte le sue variabili forme ambientali, umane, urbanistiche, estetiche, storiche, archeologiche, artistiche e culturali, ha un immenso valore economico crescente.

Il bene del bello naturale ambientale si identifica in tutto ciò che può soddisfare un bisogno, per dirla secondo la dottrina economica più aggiornata dello Jering. 

Mentre il bene culturale vivendo e interagendo nell’ambiente è strettamente connesso con il contesto ambientale in cui è inserito sotto il duplice aspetto paesaggistico e panoramico. Quindi possiamo senz’altro affermare che il bene ambientale e il bene culturale si integrano e si rafforzano della bellezza rappresentativa del paesaggio culturale che è l’insieme di paesaggio fisico e di paesaggio umano.

Quantificare il valore economico complessivo del bello naturale e del paesaggio culturale, il vero Prodotto Interno Economico Vero (PIEV) della Calabria, consente di redigere e presentare un Bilancio di Previsione Pluriennale e, successivamente, il Rendiconto annuale dell’attività svolta a ogni livello amministrativo regionale, provinciale e comunale, attraverso i redigendi atti di pianificazione e gestione dei beni esistenti: il “bello naturale” e “paesaggio ambientale”.

Il bello naturale affonda le radici nel mondo antico, in tutte le civiltà che in tutte le epoche ci hanno precedute, mentre la sua evoluzione e valorizzazione si è manifestata più intensamente attraverso il paesaggio culturale, espressione più evidente dell’essere umana e modellatore della naturale bellezza e l’antropizzazione del bello naturale ambientale. La perfezione delle forme geometriche rendono il valore estetico ed artistico delle opere ingegneristiche e architettoniche  delle urbanizzazioni millenarie,  realizzate dall’uomo e modellate dalla natura antropizzata con i necessari interventi di completamento geologico ambientale.

Il bello naturale, in generale, e il paesaggio culturale in particolare, sono stati riconosciuti nella loro importanza, esaltati e valorizzati giuridicamente, già a partire da fine ‘800 e inizio ‘900, le leggi del  1939, la numero 1089 e 1497. L’articolo 734 del codice penale del 1930, già proteggeva in linea generale le bellezze naturali, il bene ambientale e culturale. Attraverso la costruzione dell’impianto normativo dedicato dalla legge c.d. Galasso, n. 431/1985, alla protezione, tutela, valorizzazione e salvaguardia del beni paesaggistici-ambientali pregiati, fasce costiere marittime, lacuali e fluviali, furono rese inedificabili molti ambiti territoriali vulnerabili alla cementificazione selvaggia. 

Con successivi decreti ministeriali venivano protetti e salvaguardati, il panorama quale quadro naturale dell’esistente ambientale, il paesaggio culturale, inteso quale elemento più espressivo dell’azione umana, valorizzante degli spazi della naturale bellezza riservati agli esseri viventi umani e animali. Inoltre, il verde naturale dell’ambiente forestale e boschivo, agricolo, le risorse idriche sorgive e sotterranee, le acque del mare, i fiumi e i laghi, in una espressione comprensibile per il lettore, “il creato divino”, attraverso il quale si rende visibile al mondo l’ambiente naturale.  

Gli esseri umani e gli altri esseri animali, comprese le risorse ittiche e biologiche marine,  hanno trovato vita e riparo dagli eventi dannosi e pericolosi  per la loro esistenza, hanno ricevuto dall”essere umano prima, la naturale e consuetudinaria protezione, poi dal legislatore la adeguata protezione e valorizzazione giuridica, attraverso regimi vincolistici di inedificabilità assoluta o relativa, di usi agricoli, forestali e boschivi regolamentati da piani di riserva integrali, l’istituzione di parchi nazionali e regionali, giardini storici, ville storiche, paesaggi urbani, aree marine protette, riserve naturali e tanto altro ancora che dir si voglia. Il bello naturale e il paesaggio culturale della Regione Calabria, ha un valore economico immenso, quantificabile in valore economico e finanziario, in ragione degli innumerevoli  usi consentiti dalla legge e regolamenti in vigore.

Leggete gli articoli 3, 9, 32, 41, 116 e 117 della Costituzione della Repubblica Italiana, se volete conoscere e comprendere quanto siano importanti  i valori ambiente, biodiversità, e gli ecostistemi a difesa delle generazioni presenti e future. Agli animali in Calabria viene riservata una forma di protezione speciale e cura particolare, che riflette culture millenarie.

Appare evidente che esistono in natura beni ambientali denominati pubblici, demaniali e patrimoniali, in ragione delle caratteristiche  e della loro prevista destinazione d’uso, estesa in generale alla fruibilità a titolo gratuito e libero a tutti i cittadini residenti e a titolo oneroso, a richiesta di quei consociati che intendono valorizzare e rendere riservata la presenza di persone  nelle aree e spazi dei beni pubblici. Basti pensare la fruibilità gratuita delle spiagge e altri beni appartenenti al pubblico demanio marittimo, mentre l’uso eccezionale in regime di Concessione demaniale marittima (stabilimenti balneari, strutture ricettive, esercizi commerciali aperti al pubblico, impianti sportivi, piscine e altri usi consentì) sono assoggettati a un pagamento di un previsto canone, c.d. demaniale marittimo, variabile negli importi a seconda della loro estensione in metri quadrati che si intende occupare, delle diverse utilizzazioni e destinazioni d’uso autorizzate attraverso gli atti amministrativi necessari.

Una svolta decisiva è arrivata con la legge 8 luglio 1986, n. 349, istituzione del Ministero dell’Ambiente e norme in materia di danno ambientale, l’art. 18 prevede e disciplina della risarcibilità del danno ambientale quale danno all’erario, inteso come danno pubblico. Danneggiare l’ambiente e le bellezze naturali in uno con il valore intrinseco del paesaggio culturale, equivale a danneggiare un bene dello Stato. Quindi, qualunque fatto dannoso che arrechi un affievolimento del valore economico del bene ambiente, obbliga l’autore del fatto al risarcimento economico-finanziario del danno causato.

Il territorio, i fiumi, i laghi, le fiumare, il mare, le coste, le spiagge, le foreste, i boschi, i parchi e giardini storici, i borghi, i monumenti i musei, le migliaia e migliaia di chiese cattoliche ed altri edifici religiosi e di culto, il patrimonio agricolo unico al mondo rappresentato dalla coltura del Bergamotto di Reggio Calabria, vero oro e profumo millenario della Calabria, insieme al cedro, mandarini e arance  e delle uve pregiate della nostra amata terra di Calabria, sono riserve auree, equiparabili alle miniere di oro, argento e diamanti. Quanto pensate possa valere il bello, la gioia e la felicità, nel camminare liberi tra le bellezze naturali incontaminate e respirare aria purissima delle foreste e boschi presenti nei tre Parchi Nazionali del Pollino, della Sila e dell’Aspromonte, e Regionale delle Serre ammirando le acque a cascata che dalle alture precipitano a valle  in continui strapiombi creando armonie incantevoli?  

Chi non conosce il bello naturale e il paesaggio culturale della nostra amatissima e bellissima  terra e mare di Calabria, non riesce a immaginare quanta sia grande il valore economico e ambientale di una Regione unica al mondo chiamata Calabria e ancora prima nell’antichità  “Italia”. Lo sapevate? (ee)

(Emilio Errigo è nato a Reggio di Calabria, studioso di diritto internazionale dell’ambiente e docente universitario di Diritto Internazionale e del Mare, e di Management delle Attività Portuali presso l’Università  degli Studi della Tuscia (VT) 

Il commissariamento (in atto da 15 anni) ha peggiorato la Sanità in Calabria: la regione non può più aspettare

di MARIAELENA SENESE e WALTER BLOISE – Il Governo nazionale deve accelerare la fine del commissariamento della sanità Calabrese. Dopo oltre 15 anni la nostra regione non può più aspettare. Bisogna fare presto, perché Piano di rientro e commissariamento hanno determinato un peggioramento dei servizi e un aumento delle diseguaglianze.

La Calabria e il Molise sono le uniche regioni italiane la cui sanità è ancora commissariata. Gli stretti vincoli imposti dalla misura, uniti al piano di rientro, continuano ad ostacolare la ricostruzione della sanità territoriale.

Il commissariamento ha da una parte contribuito a migliorare il riequilibrio dei conti, ma in questi anni sono stati chiusi 18 ospedali, sono stati effettuati tagli lineari ed è stato bloccato i turnover del personale. Una visione “ragionieristica” che non ha tenuto conto delle esigenze di cura dei pazienti, trattati come numeri e ai quali è stato spesso negato il diritto alla cura. Con poco personale i reparti sono in affanno, i pronto soccorso sotto pressione e si allungano le liste d’attesa. Una situazione che ha spinto oltre 180 mila calabresi a rinunciare, nel 2024, alle cure  oppure a rivolgersi a strutture sanitarie situate fuori dai confini regionali. Una mobilità passiva che ha raggiunto la cifra monstre di 308 milioni nel 2025.

Un dato cresciuto rispetto al 2024 quando le spese sostenute dalla Regione per curare i propri cittadini in strutture fuori dal territorio calabrese, ammontavano a 304 milioni. I saldi di mobilità sanitaria confermano la capacità attrattiva delle Regioni del Centro Nord, mentre sono sempre più elevati gli indici di fuga dalle regioni del Centro Sud. E la Calabria è tra le Regioni dove il saldo negativo è superiore ad un miliardo (-3,27 miliardi).

Per normare la migrazione sanitaria la Regione Calabria si appresta a siglare  un accordo con l’Emilia Romagna con l’obiettivo di  regolare i flussi economici  della mobilità sanitaria. A tal proposito: lasciano perplessi le dichiarazioni   del governatore dell’Emilia Romagna il quale ha detto che il sistema sanitario emiliano romagnolo non riesce più a curare i pazienti che provengono da fuori regione e che sono molti i calabresi che scelgono le strutture sanitarie dell’Emilia Romagna. Una polemica che riteniamo  sterile. Tutti i cittadini hanno il diritto  di ricevere assistenza sanitaria anche in  strutture situate  in Regioni diverse da quella di residenza. Vogliamo inoltre sottolineare che il diritto alla cura non può essere rapportato ai numeri di bilancio.

La Uil e la UilFpl Calabria chiedono con forza di uscire dalla gestione commissariale  per poter procedere ad un piano straordinario di assunzioni. 

È necessario, inoltre, rendere maggiormente attrattiva la professione sanitaria, prevedendo indennità straordinarie per i medici e per il personale che decide di restare in Calabria e incentivare il rientro dei professionisti che operano fuori regione.

Proponiamo misure di welfare aziendale e l’Housing sociale: i concorsi per medici e infermieri possono essere più attrattivi se è previsto oltre al welfare un alloggio  con contratti di affitto a prezzi calmierati o protetti. Una misura che potrebbe favorire la presenza di personale sanitario anche e soprattutto nelle aree interne.

Progetti e proposte che possono essere realizzate se terminerà la lunga fase  commissariale e se il Governo darà alla Regione la possibilità di gestire la sanità  superando  anche il piano di rientro il cui prezzo viene pagato dai cittadini, in termini economici e in termini di salute. Bisogna  invertire la rotta per migliorare i servizi, garantire il diritto alla cura dei cittadini e ridurre le criticità strutturali e operative che si sono accumulate nel tempo. (mae/wb)

(Segretario Generale Uil Calabria e Segretario Generale UIL Fps Calabria)

Alta Velocità ferroviaria: il tracciato per Tarsia-Cosenza è antieconomico e poco funzionale

di GIUSEPPE ANDREA MAIOLO – Il completamento della linea ferroviaria Alta Velocità/Alta Capacità Salerno–Reggio Calabria rappresenta un obiettivo strategico nazionale per la modernizzazione del trasporto ferroviario nel Mezzogiorno. Allo stato attuale, il tratto calabrese compreso tra Praja a Mare e Reggio Calabria Centrale necessita ancora di una copertura finanziaria adeguata e di un cronoprogramma di realizzazione coerente con gli standard scientifici delle principali dorsali AV.

Si segnala che, nel portale documentale SILOS della Camera dei deputati, risulta ancora presente una “ipotesi di tracciato interno via Tarsia-Montalto”, originariamente valutata come possibile alternativa al corridoio tirrenico.
Tale versione del tracciato non rispecchia più le evoluzioni progettuali maturate a seguito degli studi tecnici condotti da RFI e MIT.

L’ipotesi via Tarsia prevedeva: l’attraversamento del massiccio del Pollino attraverso gallerie di lunghezza eccezionale, con elevata complessità realizzativa e criticità geologiche significative; un allungamento complessivo del tracciato e conseguente incremento dei tempi di percorrenza (445 km); una minor coerenza con i criteri infrastrutturali delle dorsali AV, orientati a linearità, velocità di progetto e contenimento dei costi operativi.

Dal punto di vista dell’ingegneria dei trasporti, tale soluzione non garantirebbe il rispetto del parametro di equità dei tempi di percorrenza oltre che non rispetterebbe parametri ormai presenti nella letteratura scientifica sulla cosiddetta “vertical alignment”; è stato stabilito a livello internazionale, infatti, che nella progettazione di nuove linee AV/AC si rispetti un’ipotesi di tracciato che si avvicini il più possibile ad una linea d’aria ipotetica. Solo questa teoria assicurerebbe un recupero sufficiente per l’area metropolitana di Reggio Calabria e per il bacino tirrenico meridionale, risultando meno efficiente rispetto alla direttrice pseudo costiera oggi ritenuta preferibile.

È importante ribadire, in modo chiaro e tecnico, che la città di Cosenza non risulterebbe in alcun modo penalizzata dal superamento dell’ipotesi interna via Tarsia. La connessione AV/AC del capoluogo bruzio, infatti, sarebbe garantita dalla costruenda galleria Santo Marco, attualmente in fase di avanzata progettazione/realizzazione con 1,6 miliardi di euro già stanziati dal Governo nazionale, che consentirà un collegamento AV diretto e competitivo con il corridoio tirrenico, una riduzione significativa dei tempi di percorrenza ma soprattutto un miglioramento della continuità di esercizio e dell’accessibilità ferroviaria dell’area urbana di Cosenza-Rende-Unical. Pertanto, la dismissione dell’ipotesi interna non rappresenta una scelta localistica, ma una valutazione tecnico-ingegneristica in favore di una soluzione più efficiente e già programmata per servire anche Cosenza.

La permanenza in SILOS dell’ipotesi via Tarsia-Montalto può generare disallineamenti nella lettura dello stato di avanzamento progettuale, soprattutto in una fase cruciale quale l’approvazione della Legge di Bilancio. Un aggiornamento del sistema documentale contribuirebbe invece a migliorare la chiarezza programmatoria, ad allineare le informazioni alla reale direzione progettuale e a semplificare il processo di pianificazione finanziaria.

A tal proposito, in parallelo, per monitorare le attività progettuali e costruttive del tratto Praja a Mare–Reggio Calabria, sarebbe utile introdurre in Legge di Bilancio di un emendamento mirato a istituire chiarezza sul fondo pluriennale (Contratto di Programma MIT – RFI) dedicato alla progettazione definitiva, all’esecutiva dei lotti che vanno dal 3 al 6. La disponibilità di risorse certe (circa 15 miliardi di euro) in unione ad una diversa fonte di finanziamento come detto dal Governatore Occhiuto che ha brillantemente espresso e citiamo di “rimodulare alcuni fondi destinati alla sicurezza”, è considerata un presupposto indispensabile per garantire continuità operativa, evitare frammentazioni e assicurare standard uniformi lungo l’intero itinerario.

La realizzazione del tratto AV/AC Praja a Mare–Reggio Calabria è indispensabile per garantire uniformità infrastrutturale all’intero asse Salerno–Reggio Calabria, assicurare competitività nei tempi di viaggio e rafforzare l’accessibilità di tutte le aree servite.
L’aggiornamento dei documenti ufficiali e l’inserimento del relativo emendamento nella Legge di Bilancio rappresentano passi fondamentali per procedere in modo chiaro, coordinato e pienamente conforme ai criteri tecnici che guidano lo sviluppo della rete Alta Velocità in Italia. (gam)

(Preside Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani – Sezione di Reggio Calabria)

Stop alla violenza sulle donne: serve una rivoluzione culturale

di ANNA COMI – Il 25 novembre, come ben sappiamo è la giornata contro la violenza maschile sulle donne e già questa denominazione è un invito alla riflessione. Se parliamo di violenza maschile e non semplicemente di violenza, è perché le parole contano: non sono mai neutre, dicono chi agisce e chi subisce, e ci obbligano a guardare in faccia la realtà.

Che la violenza sulle donne sia soprattutto una questione maschile ce lo ricorda l’indagine dell’Istat  pubblicata qualche giorno fa. L’indagine,  denominata “Sicurezza delle donne”, è uno strumento di rilevazione che, attraverso interviste rivolte a un campione rappresentativo di donne, permette di conoscere l’ammontare delle vittime della violenza maschile, includendo anche le esperienze subite e mai denunciate alle autorità (“sommerso della violenza”).

Secondo il report sono circa 6 milioni e 400mila (il 31,9%) le donne italiane dai 16 ai 75 anni di età che hanno subito almeno una violenza fisica o sessuale nel corso della vita (a partire dai 16 anni di età). Il 18,8 ha subìto violenze fisiche e il 23,4% violenze sessuali; tra queste ultime, a subire stupri o tentati stupri sono il 5,7% delle donne.

La violenza contro le donne quindi non è – e non è mai stata – un “problema femminile”.

È una questione maschile, di potere, di linguaggi, di modelli educativi, di cultura profonda che attraversa le relazioni e il modo in cui la nostra società continua a rappresentare il ruolo di uomini e donne.

Proprio per questo, il cambiamento non può essere delegato esclusivamente alle donne, né può essere raccontato come un percorso individuale. È un cambiamento che riguarda soprattutto gli uomini di tutte le età: il loro modo di guardare alle relazioni, la capacità di riconoscere la violenza nelle sue forme più sottili, la responsabilità di costruire modelli diversi da quelli ereditati.

In questo senso tornano alla mente le parole pronunciate dal ministro Carlo Nordio: “La parità non è nel DNA dei maschi.”

Una frase che, oltre a essere scientificamente infondata, è politicamente pericolosa: come se la disuguaglianza fosse una caratteristica naturale e non il prodotto di secoli di cultura patriarcale.

Per noi è una lettura fuorviante, quasi una resa: la parità non appartiene al DNA, appartiene all’educazione, alle scelte collettive, alla responsabilità sociale.

Attribuire alla biologia ciò che nasce dalla cultura significa togliere agli uomini – e alla società – la possibilità e il dovere di cambiare.

La parità di genere continua ad essere una costruzione quotidiana, difficilissima, che richiede consapevolezza e responsabilità soprattutto da parte degli uomini.

La nostra storia italiana ce lo ricorda con forza.

Franca Viola, nel 1965, rifiutò il matrimonio riparatore dopo essere stata vittima di uno stupro. Quel rifiuto fu un gesto rivoluzionario, uno degli atti fondativi dell’Italia moderna. Ma pochi ricordano che Franca non fu lasciata sola: al suo fianco c’era suo padre, che si oppose alla famiglia del violentatore, alle pressioni sociali, scegliendo la dignità della figlia.

In un’Italia in cui lo stupro era considerato un delitto “contro la morale” e non contro la persona, la scelta di Franca Viola aprì la strada all’abolizione del matrimonio riparatore e – anni dopo – a una nuova consapevolezza sociale.

Quella vicenda ci dice una cosa fondamentale: per cambiare la cultura servono uomini che abbiano il coraggio di schierarsi.

Uomini che si assumano il peso del proprio ruolo nella trasformazione sociale.

Uomini che sappiano intervenire nelle relazioni, nei linguaggi, nei silenzi.

Uomini che riconoscano i privilegi che la cultura assegna loro e scelgano di usarli per smontare la violenza, non per perpetuarla.

Ogni 25 novembre ci ricordiamo che non basta indignarsi dopo un femminicidio.

Serve un lavoro quotidiano: nelle scuole, nelle famiglie, nelle istituzioni, nei luoghi di lavoro, nelle comunità.

Serve una rivoluzione culturale che sappia includere gli uomini come parte attiva, responsabile e consapevole.

Crediamo sia fondamentale educare all’affettività: per questo sosteniamo l’introduzione dell’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, come strumento di consapevolezza, rispetto e prevenzione della violenza di genere.

Come Quote Rosa, crediamo che questa rivoluzione sia possibile e che debba cominciare da un cambiamento dello sguardo, delle parole e dei modelli che lasciamo alle future generazioni. (ac)

(Presidente Associazione

culturale Quote rosa)

Gratteri contro tutti: «Abituato a stare nel centro della tempesta e sul Referendum promuovo il no»

di SANTO STRATI – Politica e magistratura, argomento rovente in queste ultime settimane e in vista del referendum sulla giustizia. Quale voce più autorevole di quella di Nicola Gratteri, Procuratore Capo di Napoli, calabrese di Gerace e voce sempre senza bavaglio su giustizia e legalità? Gratteri ha parlato a ruota libera, com’è solito fare, durante la trasmissione Perfidia de LaCNews24, condotta – come sempre – con estrema maestria e sottile ironia (e qualche volta ovviamente anche un pizzico di perfidia) dall’abilissima Antonella Grippo.

È venuta fuori un’intervista a tutto campo sul rapporto diventato incandescente tra i magistrati e i politici: attenzione, il plurale è voluto, lo scontro è tra alcuni magistrati e alcuni politici, anche se il tema del confronto (si fa per dire) in realtà riguarda l’articolazione dei tre sistemi, legislativo, esecutivo e giudiziario.

Gratteri non le manda a dire e comincia subito a lodare la rete che lo ospita e parte della stampa calabrese che, contrariamente ad attacchi continui e spesso infondati da parte di «certa stampa» ha sempre mantenuto una posizione di rigore giornalistico e di terzietà individiabili. È la premessa per spiegare la scelta di partecipare alla trasmissione e sottoporsialle a volte pungenti provocazioni di Antonella Grippo. È anche l’attestazione che – volendo – si può fare buona informazione, nel rispetto della verità, contro le facili manipolazioni che ogni giorno sotto soto gli occhi di tutti ma solo gli addetti ai lavori riescono a percepire.

Il direttore de LaC24News, Franco Laratta, ha dedicato ieri un editoriale sull’impegno del network, creato da Domenico Maduli, contro disinformazione e pressioni, dando voce ai cittadini e alle istituzioni. «Accanto alle fake news – ha fatto notare Laratta – però c’è un problema altrettando grave: la cattiva informazione, l’informazione compiacente, suddita, piegata al potere di turno. Non è un fenomeno lontano: accade dovunque, accade anche in Calabria e qui accade spesso».

E Gratteri ha tenuto a sottolineare che in Calabria esiste un luogo dove il confronto è libero, schietto, autorevole: «Nel momento in cui certi poteri erano più forti della giustizia in Calabria, questa rete, laC, e altre reti hanno riportato ciò che vedevano».

E poi ha rincarato la dose, con evidente riferimento all’attacco mediatico in corso contro la sua persona: «Io stimo erispetto le persone che pensano il contrario di quello che penso io. Però devono  avere spina dorsale e coerenza, guardare negli occhi e dire esattamente quello che pensano».

E a proposito dei suoi detrattori, Gratteri ha spiegato: «Se tu vieni e ti raccomandi perché io rilasci un’intervista e io per stanchezza te la rilascio, e poi ti senti grande a scrivere questo (e ha mostrato la pagina de Il Giornale col titolo “Il voltafaccia di Gratteri sul sorteggio al Csm”) pensando di mettermi in difficoltà, ti sbagli, perché molti di questi giornali messi assieme non arrivano a 600 copie».

Gratteri sostiene le ragioni del NO al referendum, dando un importante aiuto all’Associazione Magistrati («anche se non mi è mai stata particolarmente vicina nei momenti più difficili della sua carriera»), al contrario di questa Rete (LaC24News) e altra stampa calabrese  perché «mandava ogni giorno nelle conferenze stampa e nelle udienze un giornalista, riportando anche le ragioni dell’altra parte, giustamente».

Quando la Grippo gli fa l’elenco dei suoi detrattori a mezzo stampa, con specifico riferimento al Foglio che affronta il tema delle ingiuste detenzioni, Gratteri risponde a tono: «In Calabria ci sono dieci procure alle quali corrispondono dieci tribunali dove i giudici emettono le ordinanze di custodia cautelare, dove ilRiesame controlla la legittimità e la fondatezza dell’ordinanza di custodia cautelare. Non c’è solo il pubblico ministero! e ricorda che ci sono tra gradi di giudizio e «in genere si pensa che l’ultimo giudice ha ragione».

E specifica che «la Procura di Catanzaro è sotto la media nazionale per ingiuste detenzioni». Io – ha detto – mi sono fatto mandare gli atti degli ultimi sette anni della gestione Gratteri alla Procura di Catanzaro e il risultato, in base agli arrestati, ai condannati e assolti, pone questa Procura sotto la media del Paese per detenzioni ingiuste.

«Il narrato – dice Gratteri – è che tutte le indagini fatte da Gratteri sono un bluff. Allora spiegatemi perché camminando per la provincia di Vibo andate più veloci perché nelle strade ci sono meno macchine per quanta gente è in galera. SPiegatemi perché in provincia di Vibo ci sono circa 40 persone al 41bis. Ci sono già la sentenze definitive in Cassazione di processi importanti celebrati su Vibo. Questa narrazione del bluff comincia a essere smentita dai fatti».

Antonella Grippo cita il caso dell’ex Presidente della Regione Mario Oliverio che accusa il procureatore di avergli stroncato la carriera e ricorda che la Cassazione ha parlato di “pregiudizio accusatorio”. Gratteri replica: «Io non ce l’ho il pregiudizio accustaorio. Ma noi abbiamo visto anche delle foto, ascoltato intercettazioni di qualcuno che si preoccupava di andare a Roma e che poi scese a Reggio in Consiglio regionale: è bene che si leggano le carte su ciò che accadeva a Catanzaro, a Crotone…».

Quando la Grippo cita di nuovo il Foglio a proposito della “finta intervista di Falcone”, Gratteri specifica che «l’unica cosa non vera è che si trattava di un’intervista. Infattio, io la settimana dopo ho spiegato che il contenuto di quello che ho letto («me l’hanno mandato perosne serie”) è vero. Perché l’8 maggio 1992 all’Istituto di Gonzaga dei gesuiti di Palermo Falcone interviene sul punto [la separazione delle carriere, ndr] e sostiene quello che ho detto io alla trasmissione Di Martedì. Un piccolo “inciampo” servito «a far emergere falsità e attacchi gratuiti dove emerge il livore e l’odio nei mei confronti, dove non c’è serenità nei miei confronti ma odio e paura della mia credibilità e visibilità. Ma non sanno che la mia serietà, la mia credibilità passa da un’intera vita dedicata al lavoro, rinunciando a tutto».

Ma è politicamente schierato il Procuratore Gratteri?, chiede la Grippo.

«La mia storia di uomo e di magistrato  si è sempre distintta per non essere né di destra né di sinistra né di centro. Mi sono costruito una vita per dire esattamente quello che penso, di qualsiasi argomento, di chiunque e guardandolo negli occhi… il mio padrone deve ancora nascere”.

Gratteri puntualizza la sua posizione “politica”: «Se si studia la storia da Tangentopoli ad oggi, per me è anacronistico parlare di destra o di sinistra. Se studi oggi Fratelli d’Italia come fai a dire che è a destra rispetto ad Almirante o a Fini? Come fai a dire oggi che il Pd è sinistra. Io da decenni sento dire dobbiamo tornare alle “periferie”, ma  –anche per sbaglio – una foto della periferia io non l’ho mai vista…». (s)