La scommessa sul 2026: la Calabria ci crede

di SANTO STRATI – «Credete che sarà felice quest’anno nuovo?» Nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere di Giacomo Leopardi (1827) si coglie l’ottimismo del domani: il venditore lo disegna, ovviamente, bellissimo, deve vendere i suoi almanacchi! Ma il passeggere regala una perla che i nostri politici calabresi dovrebbero fare propria: la vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.

Ovvero, far tesoro degli errori del passato e non ripeterli. È un proposito che si rinnova ogni ultimo dell’anno, con i risultati più che scontati: quante incompiute, quante promesse svanite, quanti sogni nel cassetto dei calabresi?

Forse è venuto il momento di dire basta alle intemerarie promesse del Governo sul Mezzogiorno e cominciare a battere i pugni sugli scranni del Parlamento: non si tratta di rispolverare la Questione meridionale che il tentativo dell’autonomia differenziata voleva mettere sotto il tappeto come la polvere della casalinga fannullona, ma di inquadrare una volta per tutte il problema del Sud in un ambito più ampio. Sarebbe il caso di parlare di questione mediterranea, visto il ruolo dominante che il vecchio Mare Nostrum (oggi diventato monstrum per le migliaia di migranti inghiottiti nelle sue acque) giocherà nei prossimi anni.

E analoga presa di coscienza dovranno, auspicabilmente, fare i nostri politici regionali, provinciali, comunali, a cominciare dal Presidente Roberto Occhiuto.

Il 2026 è davvero l’anno della svolta? Potrebbe esserlo se soltanto, escludendo le chiacchiere e le vane e risibili promesse, si comincia a fare un’agenda reale e concreta dei bisogni della popolazione. Basta andare sul territorio e toccare con mano esigenze e bisogni, osservare le incompiute, capire cosa serve davvero per migliorare la qualità della vita, non per risalire la china di discutibili classifiche di alcuni quotidiani, ma per sanare mancanze e distrazioni che complicano il vivere quotidiano di tantissima gente, a cominciare dal problema salute.

Se davvero finisce a breve il commissariamento, servirà un Assessore alla Sanità: Presidente Occhiuto applichi quella trasversalità che potrebbe cambiare la politica calabrese. Non scelga un tecnico per il quale i malati sono un numero e ha come unico obiettivo quello di tagliare i costi, ma prenda un medico che conosce i problemi della salute (perché li vive tutti i giorni) che abbia anche competenze di amministrazione, perché, alla fine, i soldi vanno spesi bene e gestiti adeguatamente secondo reali necessità ed esigenze. Questa figura di medico e manager in Calabria c’è, ma ha il “difetto” di essere “uno di sinistra”: Rubens Curia sarebbe un ottimo assessore alla Sanità e si farebbe notare non per la fede politica, bensì per la capacità di capire cosa va fatto e cosa va eliminato nella gestione della sanità, sia pubblica che privata. La sua associazione, Comunità Competente, ha prodotto diversi documenti che possono costituire una base straordinaria per il riordino della sanità in Calabria. Presidente non scelga la compiacenza, scelga la competenza.

Certo ci vuole coraggio a proporre “uno di sinistra” in Giunta, con i tanti sodali che scalpitano e pretendono il rispetto di qualche cambialetta elettorale, ma una scelta trasversale aggiungerebbe punti pesanti alla sfida che Occhiuto ha lanciato: cambiare la Calabria si può, ma non seguendo regole gattopardesche (cambiare tutto perché tutto resti come prima) ma con il coraggio di osare soluzioni che possono non piacere a qualcuno, ma diventano risorsa essenziale per tanti.

Occhiuto ha mostrato di essere un combattente che crede seriamente di poter cambiare questa terra. Intanto, è riuscito a imporre una narrazione diversa: si parla di Calabria dovunque, nei media, tra la gente del centro e del Nord, senza più pensare a una terra “maledetta” dove regnano ‘ndrangheta e  malaffare. C’è un tentativo di recupero della reputazione perduta,  che sta dando risultati insperati. Lo “sdoganamento” di un territorio si fa lavorando sull’immagine e questo Occhiuto lo ha capito da tempo. Riempire (anche se a pagamento) spazi televisivi non è uno sciocco esercizio di spreco di denaro, ma un’intelligente trovata per mostrare quell’ “altra” Calabria che la gente non conosce.

Prendiamo il caso della serie televisiva Sandokan: tutti ne hanno parlato male (senza aver visto nemmeno un minuti dell’ottimo film realizzato) e contestato che di Calabria si vede “poco”. Ma è una fiction ambientata nel Borneo che ci azzecca la Calabria nel contesto narrativo? Invece ci sta tutta nella macchina della produzione: già solo il fatto che si dica che gran parte della serie tv è stata girata in Calabria vale tutti i soldi spesi in sponsorizzazioni (a parte la ricaduta occupazionale e l’indotto generato dalla produzione, che non sono bricioline…). In questo modo si fa incuriosire sulla Calabria, si fa scoprire che è tutta quanta un set naturale per girarci film e fiction, ma soprattutto che è una terra infinitamente meravigliosa, che merita di essere valorizzata e apprezzata.

Sanità e marketing territoriale, due nodi importanti: il primo riguarda il benessere dei cittadini e la necessità di limitare il “turismo ospedaliero” al Nord che impoverisce soprattutto le famiglie e dissangua le casse regionali. Il secondo fa parte del piano di crescita e sviluppo dell’intero territorio.

Turismo, nelle sue varie accezioni (vacanziero, religioso, congressuale, etc) significa soprattutto lavoro e occupazione, altra spina di una terra che vede ogni giorno partire i suoi giovani con un biglietto di sola andata. Il lavoro che non c’è e va inventato proprio nel terziario, dove le competenze vanno utilizzate 365 giorni l’anno e non soltanto nei mesi estivi.Quanti laureati sarebbero felici di poter mettere a frutto idee e capacità nella propria terra? Non basta mobilità e logistica per attrarre visitatori, servono servizi e guide culturali che permettano di apprezzare luoghi e territori: un bando per offrire occupazione stabile e seria ai nostri ragazzi che hanno studiato e conoscono il territorio sarebbe un buon inizio per il 2026.

Un anno che – sia chiaro – deve contare anche e soprattutto sull’impegno del territorio: ci sono imprenditori illuminati che già fanno tanto, ma bisogna pensare non soltanto a donne e giovani in cerca di prima occupazione, ma anche a ricollocare chi ha perso il lavoro ed è troppo vecchio per ricominciare e troppo giovane per andare in pensione.

Il lavoro è la sfida di tutto il Mezzogiorno, i nostri governanti centrali se lo mettano bene in testa: lo sviluppo del Paese dipende dalla crescita del Sud. Se cresce il Sud (che peraltro consuma) riparte tutta la filiera produttiva  che il Covid ha contribuito a ridurre ai minimi termini.

L’anno che verrà è l’anno del Ponte: checché ne dicano gli oppositori, ci sono tutte le condizioni perché l’Opera finalmente possa vedere la luce. Val la pena di ricordare che quando si pensò di realizzare l’Autostrada del Sole non mancarono i no-ponte d’antan: se avesse prevalso la loro logica staremmo ancora a sognare. La mobilità è un segno di progresso e il Ponte rappresenta la sfida tecnologica dell’Italia al mondo: dovremmo finirla con le fake-news e le terrificanti profezie di geologi della domenica, lasciando parlare solo gli esperti. Se chi ha la competenza per dirlo afferma che il Ponte si può fare bisogna credergli e tenere alla larga i venditori di fumo.

Il Ponte piaceva a Prodi, piaceva alla sinistra. Poi, poiché era nei programmi di Berlusconi è diventato il “mostro” da contrastare e combattere con ogni mezzo. E la stessa sorte sta seguendo il progetto più straordinario del mondo perché è voluto dalla destra, quindi l’ideologia prevale sulle opportunità per il territorio e le sue genti. Non è il Ponte di Salvini, né della Meloni, è il Ponte del Mediterraneo, anzi dell’Europa che il mondo ci invidierà. Il guaio è che, come al solito, gli altri ci guardano e ci copiano e le buone idee, in Italia, restano al guado. Un esempio per tutti il ponte sui Dardanelli: costruito sul modello che ormai i tecnici chiamano Messina-type, ovvero quello del Ponte sullo Stretto. Lo hanno realizzato i turchi a tempo di record: se nel 2011 la sciagurata scelta di Monti non avesse bloccato il progetto, da diversi anni avremmo già avuto operativo il Ponte. Che non inquina (al contrario delle navi traghetto sullo Stretto) e, per la sua realizzazione, porterà occupazione e indotto da record. Qualcuno parla di 100mila addetti, ma anche se fossero solo 20mila, in terre affamate di lavoro come Sicilia e Calabria, li vogliamo buttare via?

E, soprattutto, ci sono le opere complementari senza le quali il Ponte non avrebbe senso: l’Alta Velocità (alta capacità), la SS 106 e le strade dei territori coinvolti. Il 2026 ci dovrà portare non suggestioni, ma progetti pronti per essere realizzati: sarà l’anno in cui si conclude il PNRR e molte risorse, in Calabria, con buona probabilità resteranno inutilizzate: mancano sei mesi, chi crede nei miracoli, non demorda…

Infine, nell’agenda 2026 per la Calabria un ruolo principe va al Porto di Gioia Tauro. Cresce a doppia cifra ogni anno, ha un potenziale incredibile e un retroporto pressoché inutilizzato dove si potrebbero allestire i semilavorati che giungono da ogni parte del mondo. Ma restano capannoni vuoti e le tante perplessità di chi vuole investire. La Zes unica è un formidabile attrattore di investimenti ma richiede un’attenzione aggiuntiva e accorta da parte degli enti locali.

La Regione – abbiamo questa sensazione – al di là del progetto del rigassificatore, non mostra grande entusiasmo per la costante crescita di quello che sta diventando il primo porto del Mediterraneo per traffico di containers. Il Porto non significa traffico di cocaina: chissà perché ogni volta che sequestrano droga in Calabria c’è un’enfasi mediatica spaventosa, quando poi si scopre che il traffico di stupefacenti in altri porti è addirittura superiore. Il Porto significa lavoro, occupazione e sviluppo e il Presidente Occhiuto dovrebbe occuparsene di più, mettendo risorse e maggiore impegno. La crescita di Gioia Tauro e del suo Porto è un piccolo-grande tassello di una visione di sviluppo che farà vincere alla Calabria la scommessa sul 2026.

Ultima annotazione: si vota a Reggio in primavera per scegliere il nuovo sindaco. A quattro/cinque mesi dalle elezioni non ci sono ancora candidature ufficiali. Il gioco della politica pensa di poter continuare a prendere in giro i cittadini che, in tutta risposta, non vanno a votare. Invece, l’aria sta cambiando e anche per Reggio potrebbe esserci un 2026 di rinascita e rilancio. Auguri. (s)

Il Ponte sospeso e il degrado del Sud

di GIACOMO SACCOMANNO – Intervengo come semplice cittadino, tra il disorientamento totale che l’informazione attua, senza il dovuto rispetto delle regole esistenti. Grande diffusione sul “no” della Corte dei conti al parere sulla delibera Cipess per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Enfasi incontrollata sulla posizione dei No Ponte e su quella della Sinistra che sta commettendo uno dei più grandi errori politici degli ultimi anni. Vorrei chiedere ai tanti che si sono posti in contrasto con la realizzazione del ponte se conoscono le vere competenze della Corte dei conti. Penso, molto pochi o nessuno!

Invero, questo organo ha solo competenze di controllo (preventivo di legittimità sugli atti del Governo, successivo sulla gestione delle finanze pubbliche, economico-finanziario) e giurisdizionali (sulla contabilità pubblica, pensioni, responsabilità di funzionari e agenti pubblici per danni all’erario), oltre a funzioni consultive (pareri al Governo e agli enti locali), garantendo la corretta gestione della spesa pubblica e la responsabilità amministrativa, come previsto dagli articoli 100 e 103 della Costituzione.

Ebbene, nel caso che ci interessa, è andata sicuramente oltre, in quanto il parere non vuol dire negazione assoluta e, comunque, è mancata quella collaborazione fondamentale tra gli organi di controllo e le Istituzioni. Cosa mai vista: la Corte ha impedito sia una dovuta cooperazione che la partecipazione all’udienza di chi aveva le maggiori conoscenze degli atti e del progetto! Ed allora ci chiediamo: come ha fatto la relatrice a leggere migliaia di pagine in pochi mesi? E quale può essere il valore giuridico delle affermazioni contenute nel parere negativo? Certo è che, sotto questo aspetto, nascono non poche perplessità sul corretto operato dell’organo di controllo. Ma, indipendentemente da ciò e senza entrare nel merito e nel rispetto dei ruoli e delle posizioni, come semplice cittadino, mi chiedo: si rendono conto, la sinistra e chi contrasta l’intervento, che si sta rischiando di buttare a mare un’opera che in 7/8 anni garantisce oltre 100 mila occupati? Si rendono conto che si rischia di perdere circa 70/80 miliardi di opere infrastrutturali tra la Calabria e la Sicilia legati alla realizzazione del ponte?

Si rendono conto del danno che stanno provocando all’Italia e, comunque e maggiormente, al Mezzogiorno e al Sud? Si rendono conto che, se l’opera non si dovesse realizzare, cosa impossibile per la certa volontà dei Governi nazionale regionali, il Sud rimarrebbe arretrato e mai si potrebbe pensare ad una normalizzazione del divario esistente con le regioni del Nord? Si rendono conto che dovranno rispondere dinnanzi al Popolo italiano di questo disastro e di questi danni causati, anche personalmente? Domande che un cittadino dovrebbe farsi e dovrebbe assumere una posizione netta contro un evidente tentativo di lasciare il Sud nell’arretratezza per cercare un controllo sul consenso difficilmente attuabile su un Popolo avanzato culturalmente ed economicamente. Su questo, e su tante altre problematiche, la classe dirigente dovrebbe riflettere e comprendere che la vera politica è quella che consente la crescita delle comunità e non certamente continuare a mantenere un territorio nel degrado sempre crescente e lasciare andare via, ogni anno, circa 170.000 tra giovani e laureati. Specialmente dinnanzi a un Popolo che è colpito, sempre più, da una povertà devastante e che deve ogni giorno fare i conti con il proprio sostentamento e con le esigenze dei propri figli. Ecco, oggi si sta assistendo alla distruzione di un momento di probabile restituzione al Sud della possibilità di superare il divario esistente e che nasce da lontano e, comunque, da una evidente volontà di lasciare i meridionali nelle sempre maggiori difficoltà, per poterli, ripeto, controllare maggiormente al momento della manifestazione delle proprie scelte. Ed allora, è il momento che il Sud prenda coscienza di ciò, reagisca e chieda a questi signori le vere ragioni di impedire, appunto, una possibile crescita, che altrimenti non ci sarebbe. Quando si legge che le risorse per la costruzione del ponte potrebbero essere dirottate per la costruzione di strade, alta velocità, infrastrutture ed altro, chiedo a questi signori se, nei cento anni passati, ciò è mai avvenuto, pur parlandosi di ponte da oltre un secolo. Nulla è accaduto e, quindi, perché dovrebbe avvenire oggi?

Su questo, naturalmente, il silenzio più assoluto. La verità è una sola: senza la costruzione del ponte le opere infrastrutturali previste per Sicilia e Calabria, per circa 35/40 miliardi per regione, non verranno realizzate e, quindi, un danno doppio per il Sud. Se è questo che la sinistra vuole continui nella sua azione disastrosa, ma il Sud deve prendere coscienza di quanto sta accadendo e utilizzare quel che la Costituzione gli riconosce: il voto libero per spazzare via coloro che sono i nemici del mezzogiorno. Questa dovrebbe essere la riflessione di cittadini liberi, ma forse i meridionali non sono ancora pronti a questa ulteriore sfida. (gs)

(Presidente del Centro Studi “Giustizia&Giusta”) 

Infrastrutture e mobilità: in Calabria serve una rivoluzione

di SANDRO FULLONE E DOMENICO MAZZANei prossimi mesi la Calabria sarà interessata da una serie di upgrading infrastrutturali che, entro i prossimi anni, cambieranno, almeno in parte, la narrazione del territorio. I nuovi interventi lungo la Statale 106, la velocizzazione del tronco ferroviario jonico, la nuova Santomarco, la Trasversale delle Serre, la rettifica del tratto A2 Cosenza-Altilia e i previsti investimenti del Ponte sullo Stretto e dell’AV-AC, porteranno una boccata d’ossigeno alla Regione e, certamente, miglioreranno la condizione dei trasporti e della mobilità. Tuttavia, per quanto le elencate opere, alcune già in fase esecutiva altre con cantieri in dirittura d’arrivo, rappresentino un toccasana, difficilmente inquadreranno la Calabria come territorio connesso in ogni sua parte. Le richiamate, infatti, si presentano come azioni d’intervento a macchia di leopardo e non rispondono pienamente a una visione di crescita, inclusiva ed equilibrata, di ogni singolo contesto territoriale. Serve, pertanto, una rivoluzione di pensiero; un paradigma differente che declini la punta dello stivale in maniera diversa e che non lasci indietro nessun territorio.

La statale jonica: la lingua d’asfalto inghiottita dalle dinamiche centraliste

Vi sono pochi dubbi sul fatto che la SS106 rappresenti la vertenza principale della mobilità calabrese. Una strada che si estende per oltre 400 km. Un percorso che coinvolge le tre Regioni che si affacciano sullo Jonio. Un tracciato già ammodernato, secondo i dettami europei, nella porzione pugliese e lucana. Una lingua d’asfalto, però, stretta e insidiosa, per oltre il 70% dell’itinerario calabrese. Svincoli e accessi abusivi, tutor, rotonde, percorsi urbani connotano quella che, a giusta ragione, viene definita come “La strada della morte”. Gli interventi eseguiti nel tempo, e quelli previsti per i prossimi anni, confermano la linea di demarcazione di una mancata visione unitaria del tracciato. Non si è mai ragionato in termini di rendere funzionale tutto il percorso da TA a RC, ma si è preferito operare per lotti saltuari. Spesso non rispondenti, quest’ultimi, a una visione più ampia e inclusiva, ma fedeli alle dinamiche politiche del centralismo più becero. Occorrerà, anche per rendere efficienti i prossimi interventi previsti (KR-CZ e Co-Ro-Sibari), lavorare al finanziamento dell’itinerario compreso tra Crotone e Rossano. L’illustrata soluzione fornirebbe un senso al flusso automobilistico nord-sud, chiudendo l’anello che da Lamezia Terme-CZ si ricongiunge a Sibari passando per KR e Corigliano-Rossano.

La ferrovia jonica: il binario che rischia di essere obsoleto già prima di essere consegnato all’utenza

I lavori di elevazione a Rango C e l’elettrificazione sono partiti nel lontano 2018. Da allora sono stati compiuti pochi passi in avanti. Oggi, la linea si presenta ancora non adeguata ai sistemi moderni e, spesso, viene chiusa al traffico ferroviario per operazioni di upgrading tecnologico. Tuttavia, qualora i tempi di consegna venissero rispettati (fine ‘26?), si rischia di presentare all’utenza un’opera oltremodo superata per i tempi. Sono spariti, infatti, dall’agenda d’ammodernamento, i deviatoi previsti nella piana di Sibari e nell’altopiano di Capo Rizzuto. Nel primo caso, l’idea della Bretella di Thurio è stata sostituita da una modesta Lunetta di Sibari. Nel secondo caso, si sono perse le tracce del commutatore di percorso che avrebbe dovuto lambire lo scalo Pitagora a KR. Senza una visione d’insieme, che rimetta al centro degli interventi la posa di indifferibili nuovi tronchi ferroviari, gli investimenti effettuati rischiamo di palesarsi come operazioni di facciata e poco funzionali alle moderne esigenze di traffico. Bisognerà lavorare affinché i richiamati progetti infrastrutturali ritornino prepotentemente nell’agenda dei lavori fondamentali e indifferibili al fine di fornire a tutta l’area jonica un sistema ottimizzato e congruentemente connesso con la dorsale tirrenica.

Le trasversali est-ovest: il sistema imprescindibile per togliere dall’isolamento le aree interne

Il prossimo completamento della Trasversale delle Serre migliorerà notevolmente i collegamenti lungo l’area centrale della Regione. Tuttavia, pensare che la citata infrastruttura possa risolvere i problemi dell’intera Calabria sarebbe banale utopia. Se il Governo regionale non deciderà di risolvere annose vertenze come la Bovalino-Bagnara, la strada del Medio-Savuto, la Pedemontana della Piana, la Sila-Mare, la Sibari-Sila e la Cosenza-Sibari, in Calabria, la mobilità trasversale resterà un miraggio. Utile, forse, a colmare vuoti narrativi durante le campagne elettorali, ma sicuramente non bastevole a inquadrare questa Regione come connessa e ottimizzata. È vero, altresì, che sarebbe altrettanto inutile agire in maniera rabberciata. I tracciati, in verità, nel corso degli anni, sono stati rimaneggiati al ribasso. Si è passati da idee-progetto di vere e proprie diagonali a modeste traverse di arrampicamento verso l’interno. Pertanto, occorrerà procedere con le dovute rettifiche affinché i percorsi delle richiamate opere riprendano le idee originarie per cui erano stati pensati.

Dovrà essere un imperativo intendere le Trasversali in predicato come opere di riconnessione intermodale tra i tronchi longitudinali della SS106, della A2 e, almeno nell’area centro settentrionale della Regione, della SS18.

Tracciato AV: rilanciare il percorso interno

Gli eventi che hanno caratterizzato la travagliata vicenda della futuribile AV in Calabria meritano riflessioni accurate.

Dopo aver speso oltre 30 milioni di euro per avviare lo studio di fattibilità sul percorso interno, inclusivo e rispettoso di tutte le aree della Regione, sembrerebbe che il Governo abbia abdicato a favore di un tracciato tirrenico a sud di Praia. Tale sciagurata opzione non solo appare inopportuna, ma finanche non perseguibile per una serie di limiti orografici che rendono la dorsale ovest della Regione un luogo non adatto a ospitare un percorso ferroviario veloce. La saturazione urbana, diffusa sulla stretta lingua di costa tirrenica, con aree a falesia e ambienti accidentati, precludono alla possibilità di realizzare una linea ex novo lungo il richiamato ambiente.

Vieppiù, la mancanza di adeguate trasversali ferroviarie latitudinali, renderebbero l’opera infruttuosa per tutto il versante est calabrese. Particolarmente per l’area più orientale della stessa: quella che si estende dal Marchesato fino alla Sibaritide e che rappresenta oltre 1/4 dell’intera popolazione calabrese. Bisognerà, piuttosto, riprendere gli elaborati relativi alla prima bozza dell’idea progettuale. Le schede in questione indicavano chiaramente che, giunti all’altezza di Lagonegro, la ferrovia avrebbe seguito un percorso fedele al tracciato autostradale, ma a un livello di quota molto più basso. Tale opzione non solo consentirebbe un recupero in termini di km e tempo, ma permetterebbe un percorso molto più fluido, lineare e non viziato dalle problematiche relative alle falde acquifere presenti lungo i monti dell’Orsomarso.

Il tracciato indicato, altresì, consentirebbe a entrambe le dorsali calabresi di essere collegate all’asse portante della mobilità; inverando, realmente, l’assioma di una Regione coerentemente connessa.

(Comitato Magna Graecia)

Per lo sviluppo del Mezzogiorno si punti a un welfare generativo

di FRANCESCO RAONel dibattito pubblico nazionale sul futuro del Mezzogiorno continua a mancare una parola chiave, capace di tenere insieme sviluppo economico, coesione sociale e qualità della vita: welfare generativo. Non si tratta di una formula evocativa né di un’ulteriore etichetta da aggiungere al lessico delle politiche pubbliche, ma di un metodo di intervento che, se assunto con coerenza, può incidere in profondità sulle dinamiche di marginalità e frammentazione che attraversano ampie porzioni del Paese. Per decenni il welfare è stato concepito prevalentemente come strumento di compensazione ex post: un insieme di misure necessarie per contenere le conseguenze sociali della disoccupazione, della povertà e dell’esclusione.

Oggi questo approccio mostra tutti i suoi limiti. Le diseguaglianze territoriali si sono cronicizzate, la partecipazione al mercato del lavoro resta bassa e la coesione sociale appare sempre più fragile, soprattutto nei contesti segnati da spopolamento e rarefazione dei servizi.

Continuare su questa strada significa accettare un modello di sviluppo incompiuto. Il welfare generativo propone un cambio di paradigma: non intervenire solo sul bisogno, ma sulle condizioni che lo producono, trasformando l’investimento sociale in un fattore di sviluppo. In questa prospettiva, il welfare diventa una vera e propria infrastruttura immateriale, capace di attivare risorse, generare lavoro e rafforzare i legami comunitari. È qui che risiede la sua funzione strategica per la coesione sociale dal basso. Il primo ambito in cui il metodo del welfare generativo mostra la propria efficacia è quello del lavoro. Nei territori del Mezzogiorno, e in particolare nelle aree interne, la carenza di servizi di prossimità rappresenta uno dei principali ostacoli alla partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto per le donne. Servizi di cura, assistenza educativa e supporto alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro non sono un corollario delle politiche occupazionali: ne sono una condizione strutturale. Investire in questi ambiti significa creare occupazione locale, stabilizzare redditi, sostenere l’autonomia delle famiglie e, al tempo stesso, rafforzare il tessuto sociale delle comunità. Ma il welfare generativo non produce solo lavoro. Produce relazioni, fiducia, senso di appartenenza. Attraverso servizi costruiti a partire dai bisogni reali delle persone e organizzati su base territoriale, si attivano dinamiche di responsabilità condivisa che contrastano l’isolamento sociale e ricompongono fratture profonde. La coesione non è il risultato automatico della crescita economica: è il frutto di processi intenzionali che mettono in relazione individui, istituzioni e comunità.

Un secondo fronte decisivo è quello della povertà educativa. Nel Mezzogiorno, la dispersione scolastica non è solo un problema del sistema dell’istruzione, ma un indicatore di fragilità sociale più ampia. Giovani che abbandonano precocemente i percorsi formativi, o che li attraversano senza acquisire competenze significative, alimentano un circolo vizioso fatto di sottoccupazione, precarietà e dipendenza dal welfare tradizionale. Il welfare generativo, integrato con politiche educative territoriali, consente di spezzare questo ciclo, costruendo ambienti di apprendimento diffusi e inclusivi, capaci di accompagnare le persone lungo tutto l’arco della vita. Le esperienze che emergono dalle aree interne della Calabria mostrano come questo metodo possa essere tradotto in pratiche concrete. Servizi di prossimità comunitari, percorsi di inserimento lavorativo per soggetti fragili o scarsamente scolarizzati, modelli di co-progettazione tra enti pubblici e terzo settore, formazione continua integrata al lavoro: non interventi episodici, ma processi. Processi che generano valore economico e sociale, rafforzano il capitale umano e relazionale, restituiscono dignità e centralità alle persone. La forza del welfare generativo sta proprio nella sua capacità di attivare coesione sociale dal basso. Non impone soluzioni dall’alto, ma costruisce risposte condivise, valorizzando le competenze presenti nei territori e responsabilizzando i soggetti coinvolti. È un metodo che richiede tempo, visione e capacità di governance, ma che produce effetti duraturi, perché radicati nei contesti di vita delle comunità. Il welfare generativo, dunque, non è una politica tra le altre. È una scelta strategica che riguarda il modello di sviluppo del Paese. Per il Mezzogiorno, e per l’Italia nel suo insieme e per la Calabria in particolare, significa riconoscere che la crescita non può essere disgiunta dalla coesione sociale e che senza investimenti mirati nel capitale umano, educativo e relazionale non esiste sviluppo sostenibile. La sfida che si pone oggi al cospetto dei decisori politici è chiara: continuare a gestire le fragilità o assumere il welfare generativo come metodo ordinario di intervento. Solo in questo secondo caso sarà possibile avviare processi reali di rigenerazione sociale e territoriale, capaci di partire dal basso e di restituire futuro a quelle comunità che, troppo a lungo, sono rimaste ai margini delle traiettorie di sviluppo. (fr)

(Sociologo e docente a contratto Università “Tor Vergata” – Roma)

Un esodo silenzioso: il Sud che l’Italia continua ad abbandonare

di MASSIMO MASTRUZZO  – Che si tratti delle festività natalizie, di quelle pasquali o delle ferie estive, puntualmente il dibattito pubblico torna a concentrarsi sul caro-biglietti. Un problema reale, certo, ma raccontato quasi sempre in modo parziale.

Non si parla infatti di chi sceglie una vacanza o un weekend fuori porta, bensì di milioni di cittadini costretti a spostarsi per lavoro, studio o cure sanitarie: emigrati dal Sud Italia verso il Centro-Nord e oggi definiti con eufemismi rassicuranti come fuorisede, mobilità o rientro dei cervelli.

Ma il prezzo dei biglietti non è la causa, è solo uno degli effetti. La vera domanda, che sistematicamente nessun grande media sembra voler porre, è un’altra: è normale che una parte consistente della popolazione italiana sia costretta a lasciare la propria terra per poter vivere dignitosamente?

Ed è ancora più normale che la politica nazionale accetti questo fenomeno come inevitabile?

I dati ufficiali dell’Istat raccontano una realtà inequivocabile. Nel biennio 2023-2024, i trasferimenti di residenza dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord sono stati 241.000, a fronte di 125.000 movimenti nella direzione opposta, con un saldo migratorio interno negativo di 116.000 residenti per il Sud in soli due anni (Istat, “Migrazioni interne e internazionali della popolazione residente”).

Il fenomeno non è episodico ma strutturale.

Sempre secondo l’Istat, il saldo migratorio interno del Mezzogiorno è pari a –3,2 per mille abitanti, con punte ancora più drammatiche in alcune regioni: Basilicata (–5,6%) e Calabria (–5,0%. In alcune province il dato assume contorni da emergenza sociale, come nel caso di Vibo Valentia (–12,7%) (fonte: Istat, indicatori demografici regionali).

Nel solo 2024, dai Comuni del Mezzogiorno sono partite oltre 401.000 persone, mentre gli arrivi si sono fermati a circa 349.000, confermando un saldo negativo persistente e generalizzato

(Istat, “Indicatori demografici – anno 2024”).

Se si amplia lo sguardo storico, il quadro è ancora più allarmante: tra il 2001 e il 2024 il Mezzogiorno ha perso oltre 2,7 milioni di residenti, in gran parte giovani e persone in età lavorativa. Un’emorragia demografica paragonabile, per dimensioni e impatto, a quella del secondo dopoguerra.

Eppure, a fronte di questi numeri, continuiamo ad assistere a proclami governativi sull’aumento dell’occupazione nazionale, come se le medie statistiche potessero cancellare il fatto che una parte del Paese continua a svuotarsi. Crescita per chi? E soprattutto, a quale prezzo territoriale?

La narrazione mediatica si ferma troppo spesso all’aneddoto: il passeggero intervistato in stazione, all’aeroporto o alla fermata dei bus a lunga percorrenza.

“Torno a casa per le feste”, “Rientro al mio paese”, “Vado dalla mia famiglia”.

Quasi mai, però, la stessa domanda viene rivolta ai decisori politici: perché nel 2025 dal Mezzogiorno si continua a emigrare come settant’anni fa?

Perché lo Stato accetta che una parte della Nazione funzioni stabilmente da serbatoio umano per l’altra? Finché il dibattito resterà confinato al prezzo di un biglietto aereo o ferroviario, il problema continuerà a essere raccontato come un disagio stagionale. Ma i numeri parlano chiaro: non è un’emergenza temporanea, è una questione strutturale, politica e nazionale.

In questo silenzio istituzionale, una delle poche realtà politiche che ha portato il tema dell’emigrazione interna al centro del dibattito è il Movimento Equità Territoriale, che da anni denuncia, dati alla mano, l’abbandono sistematico del Mezzogiorno e l’assenza di politiche capaci di garantire pari diritti territoriali, a partire dal lavoro, dai servizi e dalle infrastrutture.

Continuare a ignorare l’esodo dal Sud significa accettare l’idea di un’Italia divisa, diseguale, destinata a perdere una parte fondamentale della propria identità e del proprio futuro.

E questa, più del costo di qualsiasi biglietto, è la vera emergenza nazionale. (mma)

(Direttivo nazionale Met – Movimento Equità Territoriale)

Il Natale invisibile in Calabria: la solitudine degli anziani

di RAFFAELE FLORIO – C’è un Natale che non fa rumore, che non si vede nelle vetrine illuminate né nei pranzi di famiglia raccontati sui social.

È il Natale degli anziani soli, una realtà silenziosa ma diffusa in tutta la Calabria, soprattutto nei piccoli comuni dell’entroterra, dove lo spopolamento ha cambiato per sempre il volto delle comunità.

Le case sono ancora lì, spesso ben tenute, con le luci accese la sera. Ma dentro c’è una sola persona. Figli e nipoti vivono lontano, emigrati per lavoro o studio, e il Natale diventa un giorno da attraversare più che da celebrare. Per molti anziani il 25 dicembre è scandito dagli stessi gesti di sempre: alzarsi presto, preparare un pasto semplice, accendere la televisione per avere una voce in sottofondo. Non c’è festa, ma neppure protesta. Solo una dignità composta che maschera la solitudine.

Le festività, paradossalmente, rendono tutto più evidente. Mentre il racconto pubblico insiste sulla famiglia riunita e sulla convivialità, chi è solo avverte con maggiore forza l’assenza.

È una solitudine che non nasce all’improvviso, ma che si è sedimentata negli anni, insieme alle partenze, alle promesse di ritorno mai mantenute, ai paesi che si svuotano lentamente.

In molti casi il Natale coincide con l’unico contatto umano significativo dell’intero periodo: la visita di un volontario, un pacco alimentare consegnato da un’associazione, una breve conversazione dopo la messa. Piccoli gesti che non risolvono il problema, ma lo rendono almeno visibile. Le parrocchie e il volontariato suppliscono spesso alle carenze di un welfare locale fragile, soprattutto nei comuni più piccoli, dove i servizi sociali sono ridotti all’osso.

C’è poi la solitudine sanitaria, che durante le feste pesa ancora di più. La paura di stare male, di non avere nessuno da chiamare, di affrontare un’emergenza da soli. Un timore che molti anziani non confessano, ma che accompagna le loro giornate, soprattutto d’inverno.

Il Natale degli anziani soli non è un’emergenza improvvisa, ma il risultato di un processo lungo: l’emigrazione continua, l’invecchiamento della popolazione, la perdita di legami di vicinato che un tempo supplivano all’assenza delle famiglie. Raccontarlo significa guardare in faccia una delle fragilità più profonde del territorio. 

Accorgersi di loro a Natale è importante, ma non basta. Perché quando finiscono le feste e le luci si spengono, il silenzio torna. E pesa ancora di più. (rf)

[Courtesy LaCNews24]

Spopolamento borghi calabresi: il modello grecanico punta sul turismo esperienziale

di NICOLA A. PRIOLO – Vale la pensa salvare i borghi che si spopolano?

Consapevoli che le risorse pubbliche sono limitate, e che quelle private son difficili da reperire, vien da chiedersi, liberi da ideologie e utopie, se e come dobbiamo salvare i borghi che si spopolano.

È una questione che divide amministratori, studiosi, cittadini. Da un lato c’è chi vede nei borghi un patrimonio da tutelare a ogni costo; dall’altro, chi ritiene che non tutto si possa o si debba salvare, e che la storia, a volte, imponga di lasciar andare.

Secondo i dati Istat, oltre 6.000 borghi italiani oggi sono a rischio spopolamento. Alcuni sono già quasi del tutto abbandonati. Le cause sono note: mancanza di lavoro, servizi essenziali assenti, isolamento geografico, invecchiamento della popolazione. Eppure, come sottolinea un recente focus pubblicato da Interris, questi luoghi rappresentano “tessere di un mosaico millenario” che unisce frammenti di identità, storia, paesaggio e cultura.

Salvare i borghi, quindi, non è solo una questione urbanistica o demografica: è una scelta culturale, quasi etica. Ma è davvero possibile farlo? E soprattutto: è giusto?

Alcuni studiosi, come Luca Bonomelli, mettono in guardia da un eccesso di idealizzazione. In un’analisi sul futuro dei borghi montani, Bonomelli osserva che molte di queste realtà sono nate in un contesto economico e sociale che non esiste più. Erano comunità autosufficienti, fondate su agricoltura, pastorizia, artigianato. Oggi, senza servizi, senza infrastrutture, senza opportunità, rischiano di diventare scenografie vuote, luoghi da cartolina abitati solo d’estate o nei weekend. Vale la pena investire risorse per tenere questi borghi artificialmente in vita?

Ci sono esperienze che dimostrano che una rinascita è possibile, ma solo se accompagnata da visioni nuove. In Oltrepò Pavese, ad esempio, giovani agricoltori, artisti e nomadi digitali stanno riscoprendo i borghi come luoghi di lentezza, autenticità e sperimentazione. Non si tratta di tornare indietro, ma di immaginare un futuro diverso: agricoltura biologica, turismo sostenibile, coworking rurale, cultura diffusa. È una forma di “ripopolamento lento”, che non fa rumore ma cambia le traiettorie.

Anche le istituzioni si stanno muovendo. Il Pnrr ha stanziato fondi per la valorizzazione dei borghi, e molte regioni — come il Trentino, il Molise, la Sardegna — offrono incentivi per chi si trasferisce in piccoli comuni. Ma i risultati sono ancora incerti. Come ha ammesso il presidente della Provincia di Trento, “l’interesse informativo è stato enorme, ma quello reale sarà tutto da verificare”. Perché vivere in un borgo non è solo una scelta estetica: è una sfida quotidiana.

E allora torniamo alla domanda iniziale.

Dobbiamo salvare i borghi?

Forse si, forse no. Forse va fatta una selezione, non possiamo salvare tutto, e non possiamo farlo ovunque. Ma possiamo scegliere. Possiamo salvare i borghi che hanno ancora una comunità viva, un’identità forte, un progetto credibile. Possiamo investire dove c’è desiderio, non solo bisogno. Possiamo accompagnare chi vuole restare o tornare.

Salvare un borgo non significa congelarlo. Significa renderlo abitabile oggi, non ieri. Significa portare internet, scuole, medici, trasporti. Significa accettare che la tradizione non basta, se non si trasforma. E che la bellezza, da sola, non fa comunità.

Forse non dobbiamo salvare tutti i borghi, ma dobbiamo salvare il diritto di scegliere. Di restare, di tornare, di reinventare.

Per quanto riguarda la fattispecie grecanica, viste anche le difficoltà logistiche che rendono complicatissimo pensare ad attività industriali di un certo spessore economico, credo che l’unica soluzione per sopravvivere sia di avere come obbiettivo quello di diventare meta di un turismo selezionato, esperienziale, con buona capacità economica, con sensibilità ambientale e interesse per esperienze autentiche. Questo è l’identikit del turista nordico, scandinavo, islandese, olandese, belga, danese, in parte anche tedesco.

Ovviamente allo stato attuale, nonostante tante magnifiche realtà, ancora troppo poche e mal collegate le une alla altre, siamo a livello di sogni, di progetti, di idee, perché le infrastrutture non sono certamente all’altezza, son necessari investimenti mirati, formazione e una visione chiara di cosa si vuole offrire e a chi.

Luglio 2025, numeri record per l’aeroporto di Reggio Calabria, gli arrivi aumentano significativamente, purtroppo si tratta in parte di una notizia positiva, perché in realtà proprio il rilancio dello scalo reggino mette in evidenza l’incapacità di trattenere i turisti.

La disamina è nuda e cruda.

Non è sufficiente avere dei voli che atterrano a Reggio per pretendere di avere turismo. Diciamo la verità, a Reggio c’è il Museo Archeologico Nazionale da visitare, puoi fare una bella passeggiata sul lungomare, puoi mangiare i migliori gelati del mondo, per le granite si può fare meglio, puoi andare al ristorante. Turisticamente Reggio Calabria è tutta qua. Altro discorso se consideriamo la città metropolitana in modo esteso. E qui vengono al pettine una marea di nodi, trasporto pubblico e alberghi insufficienti, con difficoltà logistiche nella parte grecanica. In poche ore non riesci a vedere Bova, Gallicianò, e altri meravigliosi borghi, hai bisogno di più giorni o di collegamenti migliori.

Ed ecco spiegato perché i numeri del turismo non corrispondono agli arrivi. Ci vuole offerta integrata, servizi, pacchetti turistici, acqua che non venga razionata proprio quando arrivano gli ospiti, gestione dei rifiuti completamente diversa da quella degli ultimi decenni.

Secondo i dati emersi dal Nordic Workshop 2025, il turismo italiano verso i paesi nordici è in forte crescita, come lo è quello dei  viaggiatori nordici verso l’Italia, soprattutto per le destinazioni meno battute e più autentiche.

Occasione da cogliere al volo, la Calabria grecanica, con i suoi borghi, la sua lingua minoritaria, la sua cucina e i suoi paesaggi incontaminati, ha un potenziale enorme, ma solo se sa come accogliere questo tipo di viaggiatore.

Secondo gli esperti del settore e i programmi di investimento come il Fondo Turismo gestito da Equiter con risorse del Pnrr, l’accoglienza di qualità richiede investimenti strutturali e culturali. Ahinoi in tanti sanno di cosa c’è bisogno, gli studi ce ne danno una conferma. La lista degli interventi da fare è più o meno sempre la stessa. Strutture ricettive adeguate, non necessariamente lussuose; formazione degli operatori turistici; organizzazione di esperienze autentiche ma organizzate; comunicazione digitale efficace.

Esperienze vere, ben curate.

E questo richiede una visione imprenditoriale, non solo affettiva.

I paesi nordici, a casa loro stanno investendo moltissimo nel turismo esperienziale, culturale e gastronomico. L’Italia, sicuramente anche la Calabria grecanica, può rispondere con un’offerta altrettanto mirata.

Puntare su un turismo nordico selezionato non è solo possibile, è anche strategico. Ma richiede investimenti, formazione, visione e coerenza. Non si tratta di “salvare i borghi” con il turismo, ma di trasformarli in luoghi capaci di accogliere il mondo senza snaturarsi. E il turista nordico, con la sua curiosità rispettosa e la sua disponibilità economica, può essere il partner ideale — se lo si sa ricevere.

Le ricchezze green, idriche e forestali della Calabria valgono oro

di EMILIO ERRIGOIl territorio e le acque della Calabria, valgono molto di più delle miniere di diamanti e oro.

Lo sapevate?

Non tutti i cittadini residenti o meno in Calabria e in altre regioni d’Italia, sono a conoscenza dell’esistenza nelle profondità del sottosuolo del territorio degli Appennini Calabresi di falde acquifere di eccellenti qualità e caratteristiche chimiche e microbiologiche.

Il petrolio bianco della Calabria è rappresentato dall’enorme quantità di riserve acquifere non tutte ancora adeguatamente monitorate e valorizzate.

Si tratta di acque minerali potabili purissime, alcune delle quali imbottigliate in Calabria e distribuite al pubblico nel territorio nazionale ed estero, tanto da essere consigliate dai medici specialisti e pediatri per i neonati e le loro mamme.

Inoltre, il patrimonio acquifero delle acque termali di buona qualità risulta ancora non completamente esplorato e valorizzato per tutti i suoi noti molteplici effetti benefici sulla salute derivanti dalla pratica delle cure termali con conseguente benessere psicofisico.

In Calabria sono presenti oltre 20.000 sorgive di acque purissime, che vengono in parte incanalate, tali e quali, senza alcuna necessità di ricorrere per la depurazione all’igienizzante cloro, notoriamente fonte di produzione dei trialometani molto nocivi per reni e fegato. Queste acque purissime sono distribuite nelle case dei cittadini per fini e usi domestici, negli esercizi di attività commerciali aperti al pubblico e usi industriali , mentre molti milioni di metri cubi di acqua potabile sono irregimentati in numerose dighe e invasi di contenimento a scopi irrigui in agricoltura, e usi diversi, compresi la produzione di energia idroelettrica.

Relativamente all’oro bianco della Calabria, così viene denominata e considerata a giusta ragione e vanto, la risorsa acquea, la vera ricchezza naturale della Regione Calabria, che sgorga limpida e pura dalle sorgenti presenti nei suoi 15.222 Kmq, di territorio delle cinque province di Reggio Calabria, Vibo Valentia, Catanzaro, Crotone e Cosenza. Cinque province con 404 Comuni, costieri, collinari e montani, da visitare e conoscere assieme ai propri famigliari e amici, così da godersi gli ambienti salubri e le singole realtà umane solidali, ospitali e accoglienti, verità queste non rientranti nei parametri degli istituti di ricerca, poi giudicare liberamente a prescindere dalle statistiche non sempre in linea con la realtà complessiva dei luoghi e qualità della buona vita delle persone che hanno già deciso e decideranno di vivere in Calabria.

Per chi intendesse vivere e far vivere ai propri figli, una lunga vita salubre e di altissima qualità ambientale e sociale, nella Regione Calabria, sarà utile sapere che sono presenti ben tre Pachi Nazionali e uno Regionale, con un immenso patrimonio forestale ad alto fusto sempre verde, risorse boschive diversi a basso fusto, alberi di agrumi succosi, altre piante da frutto dai mille sapori unici al mondo e produzioni agroalimentari di pregio.

Non mancano i vitigni storici adattati alla domanda dei consumatori più esigenti, dai quali si producono sia la gustosa uva da tavola, ed altre uve pregiate dalle quali si ricavano una varietà di vini rossi, bianchi e rosé, di alte ed altissime qualità organolettiche molto richiesti dai mercati nazionale ed esteri. Complessivamente il patrimonio forestale e boschivo della Regione Calabria dai dati dell’ultimo censimento supera i 670.698 ettari, patrimonio forestale e risorse lignee boschive in continua crescita naturale e piani annuali di rimboschimento controllato ai fini di previsione e prevenzione del rischio di dissesto idrogeologico.

Che dire della macchia mediterranea esistente nella fascia costiera che si affaccia con i suoi variopinti colori sulle acque marine dello Jonio e del Tirreno?

Percorrere la linea jonica in trenino, con molta calma e senza alcuna fretta guardando il mare azzurro, partendo dalla città dei Bronzi di Riace e del Bergamotto di Reggio Calabria, con inizio dalla Stazione Centrale di Reggio Calabria, direzione Capo Sud, si possono visitare i Borghi degli antichi Comuni grecanici, percepire i profumi delle essenze estratte dal gelsomino e dal Bergamotto di Reggio Calabria, (l’Oro Verde delle più note Profumerie Internazionali), proseguire con almeno tre ore di sosta per visitare l’unicità storica e architettonica di Pentidattilo, Gallicianó, Roccaforte del Greco, Roghudi, Bova, Palizzi, Brancaleone, Bruzzano Zeffirio, Ardore, Locri, la Cattedrale e il Borgo millenario di Gerace, poi fermarsi mezza giornata per giungere a Mammola, per assaporare il gustoso merluzzo essiccato e ravvivato nelle acque ricche di calcio e cucinato con ricette antichissime nei locali dedicati a questo pesce da sapienti Chef, visitare il Museo di Nik Spatari, terminate le visite viaggiare verso “La Cattolica e il Borgo di Stilo” per gustare i prodotti i dolci tipici di Stilo, Pazzano e Bivongi, luoghi questi di antichissima memoria, che furono di Tommaso Campanella, Padre dell’Utopia, non ancora contaminati dalla modernità del vivere e ricercare la perfezione della vita di tutti i giorni. Riace, Monesterace e Badolato Marina e Borgo Antico, sono le tappe da percorrere e soffermarsi a piacimento. Soverato e Comuni dintorni completano il tour costiero marittimo e montano, fino a giungere a Catanzaro Lido e Superiore città Capoluogo di Regione con i suoi 90 Comuni da visitare tutti nessuno escluso per le loro storie e bellezze paesaggistiche, che si affacciano sui due Golfi e due Mari il Tirreno e lo Ionio, e poi che dire di Lamezia Terme già Nicastro, Gizzeria, Nocera Terinese, Davoli, Squillace, Cortale, Sersale ,Botricello, Cutro, Isola Capo Rizzuto, arrivare stanchi e con soddisfazione a Crotone. Fermarsi almeno un giorno e una notte, nella Antica Kroton, città ricca di un inestimabile patrimonio storico, architettonico e archeologico, che fu di Pitagora, bagnata dal Fiume Esaro, di Capo Colonna, Comunità provata da mille problematiche umane e ambientali, del buon vivere nella complessità del territorio ex industriale e ora in corso di bonifica e riqualificazione ambientale.

Ciró la città con due Comuni, dette le Città dei famosissimi vini di Ciró, dei formaggi ancora prodotti seguendo protocolli alimentari antichissimi. La visita al Castello e Basilica di Santa Severina, e al Borgo Storico, appaga il viaggiatore e il turista più esigente di messaggi culturali ricchi di fede e umanità. Storia, cultura, un Popolo dignitoso, nobile e ospitale, una cucina tradizionale ed evoluta, e ottimi vini rendono salutare, green e armoniosa la visita della realtà ultra millenaria delle altre Province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Cosenza, tutte da scoprire della Regione Calabria. (ee)

Voglia di centro: Occhiuto da Roma lancia una scossa liberal a Forza Italia

di SANTO STRATI – Non è stata una semplice operazione nostalgia – come qualcuno,  superficialmente, è stato portato a pensare – bensì un atto politico di spessore, pur con tutta la prudenza che la materia impone.

La convention “In libertà” a Palazzo Grazioli, ideata e condotta da Andrea Ruggeri, ex parlamentare e attivissimo giornalista-comunicatore ha segnato un nuovo battesimo politico di Roberto Occhiuto che, in realtà, mangia pane e politica da quando era ancora all’Università. Un nuovo battesimo perché ha dato una sorta di patente extraregionale a un vero e – spesso – invidiabilmente inimitabile governatore. Occhiuto ha conquistato con l’evento di Palazzo Grazioli la visibilità nazionale, quella notorietà necessaria a staccare tutti gli altri eventuali “pretendenti” alla futura guida del partito (tanto per non fare nomi,  il Presidente del Piemonte Alberto Cirio). In vista di una (più che certa) volata finale verso un nuovo corso (prevedibile, auspicabile, atteso, ma di fatto congelato) del partito fondato da Silvio Berlusconi.

Alla sua scomparsa erano rimasti in 6.000 iscritti e più di una Cassandra “de’ noantri” ne aveva profetizzato una dissoluzione pressoché imminente: oggi gli iscritti sono vicini a raggiungere le 250mila unità, anche se Forza Italia rimane a galleggiare intorno all’8%. Una miseria in termini di consenso elettorale, ma ancor peggio  se rapportata al reale numero di chi ha votato, con la sola eccezione – isola felice della Calabria – dove non solo risulta il primo partito ma continua a macinare numeri a doppia cifra.

In questo frangente, occorre dare atto ad Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri, di aver saputo abilmente aggirare la evidentissima crisi in cui stava per cadere Forza Italia, ma bisogna ugualmente rimproverargli una poca efficace politica di fidelizzazione e rinnovamento.

C’è una fortissima voglia di centro, lo hanno immaginato in tanti, ma solo Roberto Occhiuto ha captato quel sentiment che potrebbe davvero cambiare ruolo e posizione degli azzurri nel panorama politico nazionale. Non è un negromante né un taumaturgo il Governatore della Calabria, è, invece, un homo politicus, nel senso pieno del termine che annusa l’aria, avverte il mutamento di umori, coglie le sfumature di certe reazioni da parte della popolazione attiva (imprenditori, lavoratori) nei confronti delle iniziative del Governo Meloni.

Il “destro-riformismo” o presunto tale che il governo Meloni cerca di far intravvedere non convince le opposte parti sociali: non ci sono convincenti misure per incentivare investimenti e avviare nuove iniziative industriali, né la politica sociale tiene conto della realtà quotidiana con cui si confrontano non soltanto gli operai e la classe intermedia, ma anche gli ex-benestanti della classe media. L’aumento ridicolo delle pensioni minime equivalente al costo di un cappuccino con brioche al mese ha minato la credibilità sociale del Governo, che – sarà bene osservarlo – viaggia a gonfie vele esclusivamente per mancanza di una seria opposizione e con buona probabilità farà, senza affanno, il bis alle prossime elezioni del 2027. Naviga, però, è bene rilevarlo, per rotte tempestose a causa di continue – evitabili – frizioni nella stessa coalizione, ma regge i flutti perché nessuno – sia chiaro – s’azzarderebbe ad abbandonare la nave e provocarne il naufragio.

In questo contesto, la voglia degli italiani di “centro” (che – diciamolo chiaramente – per molti altro non è che il rimpianto della Balena bianca e il sogno di una rinata Democrazia Cristiana) è un richiamo irresistibile per chi vive di politica e sa mettere a frutto capacità e competenze maturate negli anni. Roberto Occhiuto,  prima di diventare Governatore della Calabria, era capogruppo azzurro alla Camera: oggi è vicesegretario di Forza Italia in un ruolo che gli sta decisamente stretto, vista la sua inguariibile e ammirevole “irrequietezza” di politico del fare. Quindi, quale migliore occasione, peraltro sostenuta da un endorsement chiaro di Marina e Piersilvio Berlusconi, di lanciare un sasso nell’acqua cheta e verificare, stando ben saldo a riva, l’effetto che produce?

Non a caso, nel suo intervento Occhiuto ha ribadito che le correnti sono un polveroso ricordo del passato e la sua voleva – vuole – essere una scossa al partito: pronto a mettersi in gioco – ove necessario – ma comunque ritagliandosi subito un ruolo primario.

Il sogno liberale (che aveva motivato Berlusconi) è il miglior viatico per riconquistare le masse che oggi disertano le urne e non si lasciano incantare dalle sirene (si fa per dire…) di destra o di sinistra. Questo spiega anche il successo di un partito pressoché inesistente come AVS (che però raccoglie voti che lo tengono in vita) e la contenuta perdita di consenso da parte del Movimento 5 Stelle pur in costante caduta libera, della cui seria crisi nessuno dei pentastellati sembra evidentemente rendersi conto.

Ecco, allora, un colpo teatrale di pieno valore politico che rivela le capacità di un (non più) “oscuro” Governatore del Sud, ma di un ambizioso (e legittimato) protagonista a tutto campo della politica nazionale.

Di sicuro, l’incontro di Palazzo Grazioli non è stata una rimpatriata di nostalgici del Cav, ma una vera prima conta delle forze in campo. E ha sicuramente richiesto decise dosi di Maalox per i fratelli di Giorgia e i leghisti di Salvini, che comprendono bene che l’iniziativa di Occhiuto non solo andrà a risvegliare la voglia di voto tra gli avviliti e i disamorati della politica, ma inciderà anche tra le loro truppe, raccogliendo i consensi dei delusi e di chi si sente oppresso tra una destra troppo conservatrice e una Lega che deve ancora decidere il suo futuro, nonostante l’attivismo di Salvini.

L’ipotesi – suggestiva, diciamolo – di far resuscitare la vecchia DC non sta in piedi, soprattutto perché i tempi sono radicalmente cambiati e non basta la malinconia a ricaricare animi depressi e spassionati, però l’idea di un centro che si ispiri anche solo formalmente alla Balena bianca suscita parecchi pruriti dalle parti di Montecitorio e Palazzo Madama. Se si guarda alla evoluzione/involuzione che ha investito il partito dello Scudo Crociato si scopre che non è stata solo tangentopoli quanto la pervicace mancanza di visione da parte del gruppo dirigente che ne firmò la scomparsa. Sarebbe bastato captare l’esigenza anche solo di un pizzico di modernità, guardando alle future generazioni, e al futuro del Paese per mantenere in vita – forse – una forza politica che ha segnato in modo indelebile la prima Repubblica.

E Occhiuto, crediamo, senza timore di sbagliare, un po’ democristiano lo è sempre stato, navigando in un centro a lui congeniale e raccogliendo, senza enfasi inutili, consensi a piccole dosi, ma decisamente efficaci per la sua visione politica e per edificare la sua crescita politica.

Ma perché adesso e non dopo la chiusura dei procedimenti giudiziari ancora aperti a suo carico? Dai quali Occhiuto si dice convinto di uscire senza danni, perché “il fatto non sussiste” (che è la formula che abitalmente viene fuori, ahimé dopo anni di giogo giudiziario e di gogne mediatiche).

La risposta Occhiuto non la dà, ma la lascia intuire: i tempi sono maturi non per agire ma per osservare le reazioni. E non gli si può certo dare torto: nell’affollatissima sala della Stampa Estera lo scorso mercoledì, c’erano 17 deputati e cinque senatori di Forza Italia, un terzo della rappresentanza azzurra in Parlamento, oltre a parlamentari di altre forze politiche. Se serviva a misurare l’effetto mediatico dell’incontro il risultato è positivo: anche il feedback su stampa e tv ha giocato a suo favore, financo con le tradizionali stilettate acide del Fatto Quotidiano e del Domani, ma nel complesso l’operazione mediatica ha dato buoni frutti, ovvero lo ha “incoronato” in maniera incontrovertibile come player nazionale efficace e insostituibile dell’attuale agone politico.

Non è una sfida a Tajani, che ha annunciato la sua ricandidatura a segretario al congresso dei primi del 2027, quando si dovranno decidere le strategie elettorali per il voto alle Politiche, quanto piuttosto un “avviso bonario” agli amici della coalizione.

In questo caso, il peso politico che Occhiuto ha mostrato di poter e saper esprimere ha un valore intrinsecamente più serio di qualsiasi dichiarazione d’intenti.

Se Forza Italia vuol diventare la nuova Balena bianca, Occhiuto va considerato un nemico del capitano Achab (o presunto tale), se non piuttosto un irrituale (ma non irriverente) ammaestratore di balene. L’oceano della politica italiana  mostra acque agitate e ogni giorno gli osservatori osservano (non come il compianto e inimitabile Giampaolo Pansa con il cannochiale da ippodromo) da un fittizio congresso permanente dove si tesse e si disfa una tela che solo pochi avranno l’ardire e la capacità di completare.

Le ambizioni politiche di Roberto Occhiuto non sono un elemento da sottovalutare: la Regione Calabria è la sua roccaforte da cui immagina far partire una controffensiva di idee e di contributi che pochi saranno in grado di confutare o controbattere.

È una sfida, mettiamola così. E gli errori (non pochi) commessi fino ad oggi dovrebbero preservare il Presidente dal ripetere gli stessi, magari se solo decidesse di farsi affiancare da gente capace e competente e non solo compiacente: far politica non è da “uomo solo al comando”, ci vuole una squadra!

Ma, alla fine, tutto questo, per la Calabria, è, a conti fatti, un carico di positività di cui i calabresi sentono, decisamente, il bisogno ed è davvero una “scossa” all’apparato per seguire percorsi di crescita e sviluppo, che, certo, non mancano.

Servono non solo idee, però, ma anche fatti. Vedremo.

Reggio, ciao sindaco Giuseppe Falcomatà: 12 anni di incompiute

di PINO FALDUTOAlla città di Reggio non si rende un buon servizio né con il silenzio né con le mezze verità, quando i fatti non possono più essere nascosti, attenuati o raccontati diversamente da ciò che sono. Scrivo questa lettera con il rispetto dovuto a chi ha ricoperto per quasi dodici anni la carica di sindaco di Reggio Calabria, ma anche con il riguardo personale che nasce da un rapporto di conoscenza e di affetto maturato nel tempo, e dal legame che è sempre esistito con la sua famiglia. Caro Giuseppe, dodici anni sono un tempo lungo. Abbastanza lungo per incidere davvero. Abbastanza lungo per cambiare il destino di una città. Abbastanza lungo, soprattutto, per assumersi fino in fondo la responsabilità dei risultati. Oggi quei risultati non sono più una questione di opinioni politiche, di narrazioni o post sui social. Sono numeri ufficiali, utilizzati da banche, imprese, fondi di investimento, organismi nazionali e internazionali. E quei numeri dicono una cosa semplice e durissima: Reggio Calabria è ultima in Italia per la qualità della vita.

Ultima nei servizi. Ultima nel lavoro. Ultima nelle opportunità per i giovani. Ultima nella capacità amministrativa.

Ultima proprio negli indicatori che misurano se un territorio è in grado di attrarre sviluppo o è destinato a perderlo. Questo dato pesa più d una inaugurazione, più di qualsiasi evento, più di qualsiasi slogan.

Dal 2014 a oggi Reggio Calabria ha perso oltre 15.000 residenti, passando da circa 184.000 abitanti a meno di 169.000, con un trend costante di diminuzione. Non si tratta di denatalità: è emigrazione strutturale. Sono andati via i giovani, ma anche famiglie intere e persone in età lavorativa, svuotando la città di capitale umano, competenze, lavoro e futuro. Questa non è una statistica astratta. È la fotografia di una città da cui si parte, non di una città che cresce.

E mentre Reggio Calabria perde popolazione reale, l’azione amministrativa si è spesso concentrata su interventi simbolici, come l’apertura di scuole nido e parchi gioco, privi però di un contesto demografico, sociale ed economico che ne garantisse utilizzo, manutenzione e continuità.

Strutture che, senza famiglie che restano e senza servizi veri, rischiano inevitabilmente il degrado, trasformandosi da annunci politici in spazi vuoti.

Negli stessi anni la città ha perso finanziamenti strategico, come i PinQuA, ha assistito agare deserte, bandi senza partecipanti, immobilismo sul PSC, reti idriche completate ma non attivate, e ha trasformato contenzioni tributari in strumenti di bilancio anziché di giustizia.

Ha messo in vendita beni simbolici e delicatissimi, come il Miramare, snaturando patrimoni nati per finalità sociali.

Nel frattempo la macchina comunale ha vissuto un’instabilità continua, incompatibile non solo con il Pnrr, ma perfino con la gestione ordinaria. A questa instabilità si è sommato il continuo cambio di assessori e vice sindaci, una rotazione costante che ha impedito qualsiasi continuità amministrativa, svuotando di senso le deleghe

e rendendo la Giunta comunale un organismo perennemente provvisorio. In dodici anni non è rimasta una quadra, non è rimasta una linea di governo, non è rimasta una responsabilità riconoscibile.

Il risultato è evidente: di quella prima Giunta, di quel metodo e di quelle scelte, oggi non è rimasto nulla. E una città complessa come Reggio Calabria non può essere governata senza continuità, stabilità e visione. E mentre si accumulavano ritardi e occasioni perse, la città veniva accompagnata verso una politica dell’apparenza: eventi, luminarie, inaugurazioni ripetute, estetica senza visione, comunicazione continua e risultati assenti.

I numeri del Sole24Ore certificano che questa impostazione non ha funzionato.Nemmeno il dato, pure positivo, dei 900.000 passeggeri dell’Aeroporto dello Stretto riesce a cambiare il quadro, perché racconta una città da cui di parte, non una città che cresce.

A rendere tutto ancora più grave è l’ipocrisia istituzionale delle manifestazioni di commiato tuttora in corso.

Cerimonie, parole solenni, narrazioni autocelebrative, come se si stesse chiudendo una stagione di successo. Ma la normalità non si proclama, si misura. E quando i dati ufficiali collocano Reggio Calabria agli ultimi posti in Italia, continuare a raccontare una normalità inesistente significa confondere la rappresentazione con la realtà. Le istituzioni non hanno il compito di consolare, ma di dire la verità. Perché senza verità non c’è fiducia, e senza fiducia non c’è futuro. A tutto questo si aggiunge una scelta politica precisa: non essere protagonista nella richiesta delle opere compensative legate al Ponte sullo Stretto, anzi porsi di traverso, rinunciando a difendere fino in fondo l’interesse di Reggio Calabria in un passaggio storico che poteva rappresentare un’occasione irripetibile di sviluppo. Le grandi opere non si giudicano a parole: si governano. E scegliere di non farlo non è neutralità, è responsabilità politica. Ancora più grave è quanto accaduto con Mediterranean Life. Il Consiglio comunale ti aveva formalmente incaricato di dare seguito all’Accordo di Programma per la sua realizzazione. Quell’atto non ha mai avuto seguito. Nessun accordo.

Nessuna conclusione. Nessuna assunzione di responsabilità.

Così non è stato solo bloccato un progetto strategico per la città, ma sono stati bruciati anni di possibilità, di investimenti, di lavoro, di programmazione e di credibilità. Quando un’Amministrazione non dà seguito a una delibera del Consiglio comunale, non è prudenza è mancanza di serietà istituzionale. Questo non è un giudizio personale. È la fotografia oggettiva dello stato in cui la città viene lasciata.

Ed è qui il punto più difficile, ma anche più onesto da dire: era giusto che questa stagione amministrativa finisse. Non per rivalsa, non per spirito di contrapposizione, ma perché Reggio Calabria ha bisogno di una discontinuità vera, profonda, culturale prima ancora che politica.

La storia recente della città dimostra che Reggio sa rialzarsi quando viene governata con responsabilità, competenza e senso del limite.

Lo ha fatto negli anni della Primavera di Reggio Calabria, l’unico periodo che ancora oggi viene indicato come fase di reale risalita.

Oggi serve tornare a quello spirito: meno narrazione, più decisioni; meno estetica, più infrastrutture; meno eventi, più servizi; meno gestione del consenso, più governo della realtà.

Oggi, dopo dodici anni da sindaco, il tuo ruolo istituzionale è cambiato.

Sei stato eletto a rappresentare Reggio Calabria in Consiglio Regionale, e questo avrebbe richiesto un atteggiamento diverso, più umile, più responsabile, più aderente alla realtà dei numeri. Nel nuovo ruolo che ti è stato affidato dai tuoi elettori resta ancora uno spazio di responsabilità.L’auspicio è che tu possa usarlo con maggiore aderenza alla realtà dei numeri e ai bisogni reali della città, anche come gesto di rispetto verso una comunità che merita verità e serietà.

Questa lettera non nasce da ostilità personale, né cancella i rapporti umani e familiari che hanno sempre accompagnato il nostro confronto.

Nasce dalla convinzione che amare Reggio Calabria vuol dire la verità, anche quando è scomoda.

Reggio Calabria non ha bisogno di apparire. Ha bisogno, finalmente, di essere governata come una cosa seria.

(Imprenditore)