Pubblichiamo integralmente l’omelia dell’arcivescovo metropolita di Reggio Calabria – Bova, monsignor Fortunato Morrone.
Carissimi tutti nel Signore, fratelli e sorelle, popolo santo di Dio qui convocato, in occasione della solennità della B.V. Maria, Madre della consolazione, salute a pace a voi da Dio, il Padre di ogni benedizione e gioia.
Saluto e ringrazio il nunzio apostolico, sua eccellenza reverendissima Monsignor Paul Emil Tscherrig, i vescovi emeriti monsignor Morosini e monsignor Mondello, un caro saluto e un augurio di ripresa a monsignor Nunnari; saluto e ringrazio per la loro presenza monsignor Oliva e monsignor Milito, inoltre l’ordinario militare monsignor Marcianò; un saluto caro e riconoscente a tutti i presbiteri, ai diaconi, alle religiose e ai religiosi qui convenuti, in particolare al vicario episcopale don Catanese e al moderatore di Curia monsignor Casile, al padre provinciale dei frati minori capuccini, al prevosto della cattedrale monsignor Sarica e in monsignor Denisi saluto il capitolo della Cattedrale. Saluto affettuosamente i seminaristi con il rettore don Pangallo. Ringrazio i portatori e i volontari e tutti coloro che hanno dato il loro significativo contributo alla nostra festa.
Un cordiale e deferente saluto rivolgo a tutte le autorità civili, politiche e militari qui presenti, al Prefetto Mariani e al sindaco Falcomatà, che ringrazio per l’offerta del cero votivo e per l’indirizzo di saluto rivolto a tutta la comunità. Così esprimo gratitudine a tutte le autorità per la disponibilità, la collaborazione e il lavoro compiuto per la buona riuscita della festa a vantaggio della nostra città.
Abbiamo ascoltato dal Vangelo secondo Matteo l’annuncio delle beatitudini, il programma di vita beata, felice, umanissima vissuta e proposta da Gesù, ma per noi credenti del XXI sec, un po’ ben pensanti e smaliziati, diciamolo sommessamente, è un programma inaudito, per alcuni versi incredibile, semplicemente assurdo non perché non è stato mai udito, ma perché non l’abbiamo seriamente ascoltato e accolto, o semplicemente l’abbiamo neutralizzato, spiritualizzando le intemperanze profetiche del Maestro di Galilea. Si perché in fondo il programma di vita proposto da Gesù anche nella nostra predicazione ecclesiale l’abbiamo incapsulato in una speranza spostata nell’aldilà: tanto qui le cose, in questo mondo, nel nostro territorio, rimarranno sempre le stesse e noi non possiamo farci niente, al massimo possiamo fare i bravi.
Da qui, tra l’altro, la tentazione di consolarci con riti e devozioni, affogando nelle varie feste religiose la rabbia delle ingiustizie subite o cercando di lavarci la coscienza da tante omissioni e ingiustizie, implorando dalla Vergine Maria di occultare sotto il suo manto materno i nostri peccati, le nostre reiterate trasgressioni.
Con le beatitudini Gesù annuncia che Dio ha progetti di pace e di felicità per tutti, nessuno escluso. Ma di fronte ai mali del mondo di cui siamo parte, dichiarare fortunati i poveri, i senza tetto, i senza terra e i senza lavoro, i profughi è un po’ da matti. Dichiarare beato chi piange per congiunti bruciati negli incendi pianificati e provocati da criminali in Aspromonte è da folli schizzati; congratularsi con coloro che si impegnano con il sudore della propria fronte per mettere su onesto lavoro per sé e per gli altri, ma sistematicamente sono costretti a pagare il maledetto pizzo, è quantomeno offensivo.
E, tuttavia, se crediamo nel Signore Gesù, fidandoci che Dio è gioiosamente capace di rendere felice già qui la vita di tutti, allora anche oggi siamo come sfidati a scommettere che il Vangelo poc’anzi ascoltato non è una poetica chimera, una sniffata religiosa per frustrati, ma è praticabile, è a misura del nostro cuore ed è l’unica via che ci umanizza radicalmente. Il Padre di Gesù, si fida di noi, crede in noi, scommette sempre su di noi, ci ritiene all’altezza dei suoi desideri di felicità per tutti.
Non siamo degli illusi: tanti uomini e donne, anche qui nella nostra arcidiocesi, ci hanno testimoniato al vivo la possibilità e la gioia di vivere il Vangelo beneficando coloro che hanno incontrato nel loro pellegrinaggio terreno. Questi nostri fratelli e sorelle maggiori hanno compreso che la paternità di Dio non si risolve in neutralità di fronte alle condizioni storiche degli uomini. In Gesù Dio si rivela il Padre appassionato che prende “parte” direttamente alle vicende umane ponendosi esplicitamente dalla parte degli ultimi, degli inermi, dei poveri per rovesciare i potenti dai troni e innalzare gli umili. Così Maria, evocando le promesse messianiche, nel suo Magnificat (cfr. Lc 1,46-55) loda il Signore della storia per aver dato inizio ad un capovolgimento di sorti nelle vicende umane.
In realtà, in Gesù le beatitudini sono come i lineamenti divini del suo profilo umano. È lui il povero e l’oppresso, è lui che piange per la città santa che non riconosce la visita di Dio, è Lui il mite e il misericordioso, è lui il perseguitato per aver posto sopra ogni legge e al di sopra di ogni sacra tradizione religiosa la persona umana, è lui lo scartato che nasce e muore fuori dalla città degli uomini.
Sì, nella persona di Gesù le beatitudini sono entrate nel nostro mondo, ma richiedono il nostro consenso perché prendano corpo: nell’annuncio viene messa in gioco la nostra libertà a cui Dio è legato per sempre nell’alleanza consumata dal suo Figlio nel culmine pasquale della sua vicenda storica: “quando sarò innalzato attirerò tutti a me”. (oggi esaltazione della croce gloriosa il crocifisso riscatta la croce, somma delle ingiustizie).
Cari fratelli e sorelle, le tante povertà, miserie e ingiustizie che investono globalmente milioni di esseri umani e che sconvolgono l’ecosistema planetario, non sono frutto di un destino atroce o di un Dio che ciecamente manda croci ai suoi figli. Sono in realtà chiarissime conseguenze di tante scelte o omissioni peccaminose quotidiane di cui ciascuno di noi è responsabile (questione ecologica, ecc.), oltre che di complesse cause storico-sociali-culturali-economiche-religiose (strutture di peccato) che singolarmente ci superano.
E, tuttavia, la reale promessa delle beatitudini inizia a farsi storia anche nella nostra vita quando entriamo nella consapevolezza di non bastare a noi stessi, di non avere in noi la radice della vita, insomma di non essere Dio, cioè di essere dei poveri, creature bisognose del Suo sostegno e perdono: qui inizia il senso della beatitudine che mette a nudo l’inconsistenza di ogni arrogante superbia della vita, causa del male. I verbi che ritmano al futuro l’andamento delle beatitudini ci dicono chiaramente che Dio non viene a toglierci le castagne dal fuoco, trattandoci come appendice subalterna dei suoi desideri, obliterando la nostra libertà e sollevandoci da ogni responsabilità. Come ci ricorda sant’Agostino, “il Dio che ci ha creati senza il nostro consenso, non ci salva, non ci rende felici senza il nostro si”. Gesù non ci illude: «I poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12,8).
Tuttavia, crediamo che la promessa si è già realizzata in Gesù. Il nostro presente è già fecondato e segnato dalla presenza del Signore risorto, è Lui il nostro futuro personale: chi segue me avrà la luce della vita (cfr Gv 8,12). Il domani non è posto dunque sotto il segno del fato, che noi calabresi decliniamo nell’espressione “era destino… non possiamo farci niente”, mentalità foraggiata da chi vuole l’immobilismo delle nostre coscienze ancorate e anchilosate nel nostro stesso dialetto al passato: il nostro idioma calabrese non declina i verbi al futuro.
Questa rassegnazione, presente nel linguaggio religioso popolare, è disistima di sé e del Signore: la sfiducia nella vita è un atto di incredulità nel Padre di Gesù che ci vuole protagonisti concreativi di questo mondo che già salvato in Gesù è posto nelle nostre mani: la cura del creato, intesa nell’accezione di un’ecologia integrale da papa Francesco, ci spinge a un cambiamento di paradigma che investa il modo di intendere il nostro vissuto credente chiamato tra l’altro sempre a custodire, promuovere e salvaguardare l’intangibilità della vita umana in tutte le sue fasi e nella sue dimensioni affettive, sociali ed economiche.
Pertanto: com’è possibile che la secolare fede cristiana, annuncio del mondo nuovo in Gesù, qui in Calabria in genere non abbia assunto e declinato nella vita il linguaggio della speranza che sostanzia la responsabilità civica e civile e corrobora il protagonismo creativo nella sfera socio-culturale e politica della civitas, mentre si è ben espressa nel linguaggio rituale ripetitivo di una religiosità consolatoria e non poche volte alienante? È una domanda complessa (antropologia, sociologia, storia, ecc) più volte affrontata nei nostri studi o convegni pastorali ma che non possiamo eludere nel cammino sinodale che ci attende.
In tal senso le beatitudini, somma del Vangelo, sono come l’antidoto di una cultura religiosa presente nel nostro cattolicesimo che, nel passato e ancora oggi, tende a relegare nel privato personale e in quello famigliare la forza dirompente e innovatrice della fede cristiana, la fede della Chiesa segno sacramentale dell’agire misericordioso e liberante di Dio, fortemente intenzionato a ristabilire il diritto, la giustizia e la pace, stelle polari per tutti i cristiani, specialmente per chi ha deciso di esercitare la carità nel servire la città degli uomini nell’agone socio-politico-amministrativo[1], qui nel comprensorio reggino.
Le beatitudini tuttavia, come ci ha ammonito Gesù, sono “una porta stretta” da attraversare (Lc 13,24), un passaggio faticoso da una mentalità vecchia e mortifera a quella nuova e vivente della promessa di Dio. Questo richiede una lotta anzitutto contro il proprio egocentrismo e narcisismo, un’ascesi, una salita in alto che da soli è impossibile conseguire: inevitabilmente si perde il respiro. Le beatitudini richiedono il passaggio dall’io al noi, dal mito illusorio e soffocante del self made man, al respiro originario delle relazioni umane comunitarie. Ci insegnerà pur qualcosa in tal senso l’esperienza drammatica causata dal Covid?
Certamente nella pandemia le più belle energie umane nei volti dei sanitari, degli educatori, degli amministratori e politici, delle forze dell’ordine, di singoli o associati cittadini, dei nostri preti e dei volontari della caritas diocesana per la prossimità capillare profusa, questi e tanti altri hanno espresso la vera natura solidale del nostro essere umani. Siamo fatti per il bene e il bene ha sempre il volto della socialità.
Pertanto, come è già stato affermato più volte dai vescovi calabresi: o ci lasciamo salvare dal Signore insieme, o non ci si salva affatto. Questo non destruttura la personale responsabilità ma la rilancia consapevolmente: non siamo numeri, oggetti, ma soggetti in quanto persone, cioè volti: il nostro dna profondo è predisposto per la relazione, negarla è la nostra tomba. Pertanto i cristiani, in forza della loro fede nel Dio di Gesù che ama da morire tutta l’umanità, condividono il loro impegno con tutti coloro che lavorano per la crescita della convivenza umana, dalle istituzioni alle tante forme di volontariato.
In tal senso, è antica e consolidata tradizione che questa nostra festa religiosa coinvolga anche le istituzioni civili qui presenti. In qualche modo è anche la vostra festa, o in altri termini: la vostra presenza qui ci dice chiaramente che siete ben disposti a mettere insieme le vostre energie e competenze con le nostre, per il bene di tutte le persone che abitano questa splendida città e il suo comprensorio.
Allora, camminiamo insieme come istituzioni, ma fattivamente, dialogicamente e nel pieno rispetto dei propri ambiti di competenza e di responsabilità, avendo a cuore in modo particolare le nostre giovani e i nostri giovani per i quali mi pare siano carenti l’interesse e le proposte politiche di ampio respiro per onorare quel patto intergenerazionale educativo, fortemente penalizzato dalla pandemia, che dà orizzonte di senso e futuro alla società civile nel suo insieme.
A voi giovani chiedo di preparavi seriamente per essere attori e protagonisti nei processi decisionali che investiranno la vostra vita presente e futura e, dunque, dell’intera società che spero abiterete molto meglio di quanto siamo riusciti noi adulti. Protestate contro chi vi blandisce con proposte di basso profilo per omologarvi e non vendete la vostra intelligenza ai mercanti di fumo che annebbiano la vostra coscienza, libera solo se compie il bene. Siate cittadini attivi uscendo però dalla logica familistica ambientale che, unita a quella del comparaggio negli ambiti della vita sociale, impedisce alle più belle e sincere energie, intelligenze, competenze professionali e imprenditoriali umane di promuovere nella nostra terra una nuova stagione culturale e politica.
Le beatitudini ci offrono la via da percorre per uscire da questa mentalità, ma sarà possibile se vivremo quest’avventura insieme per guardare avanti con serena fiducia.
In tal senso, in questi anni di cammino sinodale, intendiamo immettere il nostro comune percorso ecclesiale, nell’orizzonte programmatico enunciato da EG: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia».
Il nostro cammino ecclesiale deve partire da questa interiore certezza, altrimenti rischia di risolversi in una sorta di struscio religioso che non innerva la vita affettiva, famigliare, sociale, amministrativa, politica e culturale del nostro territorio. La credibilità della nostra fede declinata nei nostri programmi pastorali, nelle assemblee liturgiche, nelle varie iniziative parrocchiali e sociali è strettamente legata alla gioia evangelica, frutto dell’incontro personale con Cristo «che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (DCE 1), così Benedetto XVI.
Alla luce delle beatitudini, che dilatano gli orizzonti del cammino dell’umanità e offrono una visione profetica e anticipatrice degli esiti della storia, saremo chiamati a immaginare corresponsabilmente e insieme il nostro essere chiesa in questo mondo reggino e, pertanto, sollecitati a osare nuovi percorsi pastorali, senza aver paura di rischiare di fronte ai nuovi processi culturali e sociali, alle nuove istanze etiche e ai nuovi paradigmi economici, politici e giuridici, che in modo sempre più veloce il mondo, di cui siamo un piccola parte, ci riserva.
Il coraggio di rischiare, come atto della libertà della fede, genera novità e sviluppi di esistenza liberata dal male. Perciò con papa Francesco sogniamo anche noi una chiesa in uscita (EG 20ss), come scelta missionaria radicale (EG 27) che impedisce alle nostre comunità di cadere nella trappola dell’introversione, della chiusura, della rigidità, anticamera della sterilità pastorale. La fede infatti si rafforza donandola (GP II, RM 1) così come «comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa» (EG 9) nel cuore di ogni persona.
Come chiesa, siamo chiamati in forza dell’insuperabile Novum evangelico a stare dentro i processi globali e locali sempre più complessi ma ricchi di nuove opportunità per l’annuncio di Cristo. Tirarsi fuori o arroccarsi su strutture, linguaggi, consuetudini ecclesiastiche e pastorali consolidate perché offrono sicurezza, ma sono contenitori vecchi usurati dal tempo e perciò non in grado di contenere il vino sempre fresco e frizzante del Vangelo, significa negare la dinamica rivelativa del principio cardine del cristianesimo: il farsi carne-uomo-storia (εγηνετο) del Verbo eterno.
Ci disponiamo in questo comune cammino a lasciarci guidare dalla luce della Parola riflessa nella prima e originaria esperienza ecclesiale custodita negli Atti degli apostoli per comprendere come vivere il «processo ecclesiale partecipativo ed inclusivo che offra a ciascuno l’opportunità di esprimersi di essere ascoltato per contribuire alla costruzione del Popolo di Dio» (Doc. preparatorio della XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, 9 settembre 2021).
Il come, i tempi, i modi le scelte del cammino sinodale le comprenderemo strada facendo, disponendoci anzitutto ad ascoltare il Signore che ci ha parlato in questo tempo di crisi pandemica, nell’esercizio non scontato di saperci reciprocamente ascoltare coinvolgendo e facendoci carico del vissuto delle nostre comunità parrocchiali, dei cittadini e ospiti che vivono in questo nostro territorio.
A te beata Maria, che hai creduto alla parola fedele e affidabile del Signore, affidiamo la nostra Chiesa diocesana e la nostra città, in modo particolare le donne che in essa vi abitano, perché nell’ascolto sincero della loro esperienza, contraddistinto dal fiuto della vita buona e dall’appassionata audacia profetica mostrato in tutti gli ambiti dell’esistenza, ci aiutino, nella lettura dei segni dei tempi e nei processi decisionali ecclesiali, a osare di più verso una fraternità evangelicamente solidale, semplicemente e gioiosamente umana.
Prega per noi, santa madre della consolazione, perché crescendo in santità e giustizia nello spirito delle beatitudini di tuo Figlio Gesù, possiamo gustare la gioia di camminare insieme in questo breve pellegrinaggio terreno, nell’attesa di godere la felicità senza fine del Regno che Dio Padre ha preparato per tutti. (rrc)