di RAFFAELE MALITO – È sorprendente il concerto di opinioni, analisi, suggerimenti che si stanno sovrapponendo, dopo l’esito elettorale del 25 settembre, sul Pd, la sua grave crisi e le responsabilità del suo fallimento, sulle scelte da fare per evitare la sua definitiva estinzione. Ed è singolare che provengano pressoché tutti da dirigenti che, non hanno mai espresso riserve e critiche e, comunque, da osservatori, intellettuali che si sono sempre riconosciuti appartenenti a un’area politico-culturale che aveva, ed ha, il Pd come punto di riferimento.
L’ultimo, spietato giudizio è arrivato da Filippo Andreatta, figlio dell’ideatore dell’Ulivo, fratello politico di Enrico Letta, direttore al dipartimento di Scienze politiche di Bologna: «il Pd è in crisi perché non ha mai risolto il vizio delle origini che era l’ambiguità tra la continuità con la Ditta comunista e un nuovo sentiero riformista attento ai bisogni sociali delle persone. Sin dall’inizio i posti venivano spartiti tra ex Margherita e ex Ds senza dare spazio a chi non era ex qualcosa. E’ per questo che si è parlato di fusione a freddo o amalgama mal riuscito».”
Le conclusioni di Andreatta non ammettono dubbi: «o si taglia con il passato, rottamando tutti, ma proprio tutti, i dirigenti che hanno avuto un legame con i partiti fondatori o si prende atto del fallimento, rompendo con l’antica ossessione comunista di non avere concorrenti a sinistra, e ci si scinde in due partiti, uno riformista e l’altro massimalista, rimanendo alleati alle elezioni».
Di fronte al partito massimalista di Giuseppe Conte, Andreatta rivela di preferire un Pd più vicino all’esperienza del governo Draghi, una scelta riformista, gradualista in grado di interpretare i bisogni sociali ed economici anche dei lavoratori delle periferie e dei piccoli centri. Non c’è altra scelta se si vuole costruire dalle macerie un progetto politico e un partito con una sua anima. Se Andreatta ha compiuto un deciso salto in avanti, dentro il Pd, dopo il trauma delle elezioni, si assiste a un autentico caravanserraglio di analisi e di candidature alla segreteria, nell’illusione di risolvere tutto con un nuovo segretario che dovrebbe arrivare, nientedimeno che tra almeno sei mesi, dopo una lunga faida fratricida.
Il confronto sul destino del Pd incrocia le sedimentazioni politico-culturali della Ditta, rappresentata dai vari Orlando, Provenzano, Bettini e dai prossimi al rientro, Speranza e Bersani, tutti suggestionati dai descamisados con pochette di Conte, impegnati a fondare un nuovo partito statalista, populista, assistenzialista.
Si spiegano così le critiche nette alla scelta del Pd di Letta di sostenere, se non identificarsi, nel metodo di governo di Draghi che si è espresso con il coraggio delle scelte, senza incertezze, europeiste e atlantiste e con la capacità di gestire le grandi questioni economiche e sociali, derivate dalla pandemia e dalla crisi energetica, con i progetti di attuazione e utilizzazione dei fondi del PNRR.
Il metodo di governo di Draghi significa fare scelte definitive sul progetto di una forza politica, un partito,quindi, riformista, gradualista che sappia cogliere l’opportunità offerta dalla crisi del neoliberismo per un’alleanza tra coloro che producono e coloro che creano, basata sui principi dell’equità sociale, della sostenibilità ambientale, della non discriminazione, di un patto tra le democrazie liberali per ricostruire la fiducia delle classi popolari e rompere ogni suggestione populista, illiberale o, peggio, autoritaria.
Una linea, questa, di solidarietà con i paesi europei e dell’occidente apparsi uniti , senza riserve, nella difesa della democrazia e sovranità nell’Ucraina, invasa dal nuovo zar Putin.
Il Pd non è venuto meno su questi principi e valori, fondanti di libertà e democrazia: è nato 14 anni fa con il progetto di guidare il destino dell’Italia verso il riequilibrio economico e sociale del Paese superando il divario Nord-Sud, ammodernando, per renderlo più efficiente, il sistema istituzionale e costituzionale, amministrativo, riformando il sistema giudiziario bloccato dalle caste. Questo ambizioso progetto politico, da realizzare con una vocazione maggioritaria, senza alleanze con altri partiti, aveva suscitato anche l’emozione di una storia nuova tutta da costruire guardando al passato delle componenti culturali e politiche che vi davano vita, senza rimpianti e, soprattutto, senza, mai più, lasciarsene condizionare nei comportamenti e nelle scelte politiche. L’emozione di cui si era fatto interprete il primo segretario Walter Veltroni si trasmise anche negli elettori del 2008 con un 34% di consensi. Un inizio di buoni auspici per il futuro. Ma un successo che fece scattare le antiche pratiche delle congiure di scuola comunista contro il leader emergente, per appiattirlo alla gestione ordinaria e impedirgli di proseguire nell’ascesa. Capofila dell’azione demolitoria, come era accaduto già con la caduta del segretario del Pds, Occhetto, Massimo D’Alema: la sconfitta alle elezioni regionali in Sardegna del 2009, un risultato circoscritto ma una grande occasione da non perdere per dar vita all’opera di accerchiamento e annientamento di Veltroni che, di lì a poco, si dimise.
E cominciò la girandola dei segretari: Franceschini, Bersani, Epifani e, poi, Renzi, per due volte, Orfini, Martina, Zingaretti e Letta.
Renzi, eletto con il 67%, quasi due milioni di voti, nelle primarie del 2014, il 69%, nel 2017 un milione trecentomila preferenze, subìto, non è stato mai accettato dalla Ditta fino al punto di essere indicato come un vero e proprio usurpatore. Il quasi 41% dei voti, un dato mai ottenuto se non dalla Dc negli anni ’50, fece scattare l’opera di rigetto, prima cospirativo, poi apertamente, fino alla scissione capeggiata da Bersani e Speranza, sostenuta da D’Alema. Un Renzi troppo forte per non far paura alla vecchia dirigenza di origine comunista. Un’ostilità che ha avuto il culmine nel boicottaggio del referendum sulla riforma costituzionale che puntava a dare più forza decisionale al governo, ridefinire i poteri e la sfera di competenze tra Stato e Regioni, riequilibrare i rapporti di forza fra potere rappresentativo e potere giudiziario, eliminazione, di fatto, del bicameralismo perfetto di Camera e Senato. Una riforma contestata e non accettata dai conservatorismi, di destra e di sinistra, temuta per un malinteso rafforzamento della posizione politica di Matteo Renzi.
Il no al referendum ha decretato la sconfitta politica di Renzi che, di lì a poco, nel 2018, dopo la sconfitta elettorale, si dimise da segretario. Insomma, la grande occasione di un radicale cambiamento del sistema-paese, quasi un recupero del sogno delle grandi riforme vagheggiato, negli anni Ottanta, da Bettino Craxi era definitivamente perduta. Si concludeva anche una fase che identificava nel Pd il partito delle innovazioni politiche in grado di influire sugli assetti politico-istituzionali, economici e sociali dell’Italia.
Chiusa questa finestra storica si è ripiombati nella vecchia politica con la miopia di una classe dirigente preoccupata solo di gestire il potere, mentre, nel frattempo prendevano corpo i populismi, antitutto, dei Cinque Stelle che si aggiungevano alle smargiassate di Salvini e alle sue voglie di “pieni poteri”. Il Pd, in questo tempo di incertezze sulle scelte politiche, rinchiudendosi nel cerchio di impotenza e di rinuncia alla sua primigenia vocazione maggioritaria, subiva il fascino delle Cinque Stelle e si lanciava sul miraggio della costruzione del campo largo che, escludendo tutti gli altri protagonisti dell’area progressista, Renzi, Calenda, si restringeva a un campetto senza respiro.
La prova definitiva dell’inconcludenza del progetto da realizzare con il sognato ”punto di riferimento del campo progressista”, rappresentato da Conte, cadeva fragorosamente con la crisi del governo Draghi. Una responsabilità, gravissima, dei Cinque Stelle che poneva fine a qualsiasi idea di alleanza e il Pd chiudeva, così, al progetto del campo largo.
E, oggi, la crisi con una sarabanda di gridi di dolore che provengono dal cuore a dalla testa di personaggi che appartengono alla cultura politica della Ditta, rimasti, finora, rigorosamente silenziosi: con proposte e suggerimenti che vanno dallo scioglimento alla rifondazione del partito, temi di una sorta di cupio dissolvi, che impatta con le lungaggini di un congresso che dovrebbe trascinarsi per mesi fino all’elezione del nuovo segretario, prevista, in un primo momento, a marzo prossimo.
A entrare a piè pari nel fuoco di questo doloroso confronto la novella “girotondina” Rosy Bindi che ha invocato lo scioglimento del partito per dar vita a un non meglio definito fronte progressista. A riportare, invece, i piedi a terra, un accreditato aspirante alla segreteria come Bonaccini: il problema – ha detto – non sta nel nome o nel simbolo ma nella capacità di rappresentare le persone e costruire un progetto coerente e credibile, con una nuova classe dirigente attinta dai territori, segnatamente gli amministratori, che hanno dimostrato di saper vincere. Fine, dunque, della nomenclatura e dei potentati dei capicorrente.
Che cosa accadrà è difficile prevederlo: di sicuro, ignorare la sfida aperta da Calenda e Renzi non è un segnale di lungimiranza e di strategia di lungo respiro. Una sfida che, in poco più di un mese, ha avuto un risultato elettorale di tutto rispetto, e che, soprattutto, ha lanciato un progetto centrato sul senso di responsabilità, su programmi credibili che fanno i conti con i dati, non felici, della situazione economica e finanziaria, italiana e internazionale, che ha come orizzonte il consolidamento dell’unità e solidarietà europea, taglia il rapporto con ogni forma di populismo e pone fine alle suggestioni massimalistiche, assistenzialiste e stataliste che ha, infine, come bussola il metodo e l’agenda di governo di Draghi.
C’è una parte cospicua di dirigenti del Pd che su questi non parla perché sogna, nonostante tutto, la grande alleanza con i nuovi descamisados di Giuseppe Conte. (rma)