di SANTO STRATI – C’è un desiderio comune che accompagnerà questa mesta fine d’anno, tra la lontananza degli affetti e l’oppressione della “zona rossa”: “che si torni al più presto ala normalità”. Ma quale normalità? Quella pre-covid che, alla luce di un anno disgraziato, non ci appare più come tale e anche lo scambio di una carezza – un gesto tenero e innocuo giusto lo scorso capodanno – appare foriero di malefici e, soprattutto, di possibili contagi. Un San Silvestro spento come quello che passeremo stasera dovrebbe indurci a riflettere sulla caducità dei gesti semplici, quelli che oggi ci mancano di più, ma anche sull’irresponsabile condotta di alcuni che hanno provocato ulteriori danni e non sappiamo se causeranno una nuova, temibile, insidiosa, terza ondata. Nulla sarà più come prima, questo dev’essere chiaro. Ci vorranno anni prima che si possa ritornare a quelli che eravamo e quest’afflizione dovrebbe quantomeno indurci a ripensare ad atteggiamenti, ad arroganze, a stupidi pregiudizi che ci sembrano/ci sembravano “normali”. No, non erano normali, era semplicemente la suggestione dell’immenso senso di libertà che ci accompagnava, prima del maledetto coronavirus, a farci sentire invincibili e indiscutibili. Ed era un errore. Riusciremo a fare tesoro della straordinaria abnegazione e solidarietà espressa da medici, personale sanitario, tecnici, barellieri e quant’altri che non si sono risparmiati un istante pur di salvare qualche vita, che non hanno mai smesso di combattere, anche a mani nude, un nemico terribile e, apparentemente, invincibile. Invece non esistono nemici invincibili, esiste la coesione, il senso di aggregazione, di umanità, di condivisione, che aiutano a combattere contro ogni male, contro ogni sciagura o calamità.
Apparteniamo alla generazione che, grazie a Dio, non ha conosciuto la guerra se non nei racconti dei padri o dei nonni: ebbene, quanti giovani sono morti per restituire la libertà al Paese, quanti per difendere il senso di Patria, per garantire quel futuro di cui abbiamo poi goduto? Il Covid è come una guerra, non uccide più come prima ma fa troppi prigionieri e ha congelato il futuro delle nostre e delle future generazioni che dovranno tentare di ricostruire un nuovo umanesimo. Con un rinnovato senso del rispetto del prossimo che deve travalicare ogni qualsiasi barriera, di etnia, di religione, di ceto, per rendere più vicini Paesi ricchi e poveri, per avvicinare l’umanità verso un nuovo rinascimento sociale, dal momento che la forzata asocialità cui siamo stati e siamo, forse saremo ancora per un po’, costretti, ci dovrebbe far capire che il concetto di condivisione, di fraternità e di amicizia dev’essere necessariamente rivalutato. Dobbiamo tornare a guardarci negli occhi, senza ignorare l’uno i problemi degli altri. Con molta fatica, sia ben chiaro, ma sarebbe una bellissima rivoluzione spirituale, forse l’unica nota lievemente positiva di questo disastro epocale.
Del resto, bastano i numeri a farci capire che ci saranno sempre più poveri e sempre più ricchi, nel senso che chi ha meno avrà ancora di meno, chi gestisce miliardi continuerà ad accaparrarne, secondo il puro spirito capitalista. E, invece, l’esempio e le invocazioni di papa Francesco, la sua rivoluzionaria modernità, dovrebbero indicare un percorso diverso per una nuova coscienza sociale, con e dentro la dottrina della chiesa, ma anche senza per chi non è credente, con uno spirito illuminato dalla semplice constatazione di essere scampati alla pandemia. Saremo tutti dei sopravvissuti senza futuro se non cambieremo atteggiamento nei rapporti sociali, tra amici e sconosciuti, negli affetti e nelle comuni preoccupazioni, contro l’indifferenza, che è il male peggiore del nostro secolo.
In Calabria tutto ciò assume un valore ancora più rilevante. Perché è una terra di partenze e di pochi ritorni, è una terra ricca ma dalle risorse inespresse e, soprattutto, inutilizzate. Dove i nuovi poveri (e saranno tantissimi) avranno ulteriori ostacoli per risalire la china e tornare a vivere e non più sopravvivere. Dicevamo dei numeri: in Italia sono spaventosi. Sono stati persi 420 miliardi di fatturato, il prodotto interno lordo (ovvero la ricchezza del Paese) in questo orribile 2020 ha perso il 10%. Hanno patito le strutture del turismo (-81%) con perdite per alberghi, ristoranti, locali tra il 60 e il 73%. Sono stati persi 900 mila posti di lavoro e hanno chiuso definitivamente quasi 400 mila imprese. L’economia debole crea e mantiene in vita i conflitti sociali, distrugge la fiducia nel domani, alimenta il divario. Le regioni ricche avvertono di più la crisi perché hanno industrie e occupazione, il Mezzogiorno sognava nuovi posti di lavoro, ne ha visti sfumare centinaia di migliaia. E l’immagine più terribile di questo anno che tra poche ore, finalmente, ci lascia, è la fila interminabile, a Milano, della gente che aspetta di ricevere e prendere qualcosa da mangiare per sé e per i propri figli. È un’immagine che non deve farci dormire, che ci deve portare a non restare inerti, intervenendo ognuno per come può, a dare una mano. La ricostruzione avviata subito dopo la guerra ha rivelato di che tempra sono fatti gli italiani. E i calabresi, non dimentichiamolo, hanno una molla in più.
L’anno che viene ci fa paura, ammettiamolo, ma deve prevalere non l’ottimismo – che è merce rara di questi tempi – ma la speranza. Il nuovo anno apre un nuovo decennio che dovrebbe-potrebbe essere di svolta per la nostra regione: non solo la salvaguardia della salute, che è prioritaria e fondamentale per tutti – nessuno escluso – ma un nuovo modo di intendere la politica che faccia della legalità il suo unico faro. Per creare nuova occupazione, crescita e sviluppo, opportunità per i giovani, per mantenere ed esaltare dignità e attenzione per le donne e gli anziani. Le prossime consultazioni elettorali offriranno una chance forse unica, alla luce dell’anno appena finito.
Le vaccinazioni ci metteranno, quasi certamente, al sicuro dal contagio del virus, ma occorre essere certi di non subire quell’altro contagio non meno insidioso dell’indifferenza e della tentazione del malaffare. Questo decennio servirà a costruire il futuro ai bambini cui sta venendo sottratta l’esperienza principale della vita, i rapporti umani che nascono e crescono intorno a un banco di scuola. Servirà a restituire il futuro che è stato rubato ai nostri giovani, negandogli lavoro e crescita sociale nella propria terra. Serve l’impegno di tutti, sia ben chiaro: ricominciamo dal ventunesimo anno del terzo millennio, e con convinzione difendiamo il nostro orgoglio, le nostre radici, per consegnare al nuovo decennio le nostre speranze. Ottimismo a buon mercato? No, un obiettivo possibile, un sogno realizzabile, se si lavora insieme per il bene comune di tutti. Buon anno. (s)