EMERGONO DATI SCONFORTANTI DALLA RICERCA DELLA SVIMEZ DEDICATA A "DONNE, GIOVANI E SUD";
Lavoro femminile al Sud

PESA IL DIVARIO SUL LAVORO FEMMINILE
PER I GIOVANI DEL SUD È UNA DELUSIONE

Si allarga sempre di più il divario di genere, a livello occupazionale nel Mezzogiorno: nel 2020 il tasso di occupazione femminile è di 24 punti inferiore a quello maschile (a fronte dei 15 punti del Centro-Nord). È quanto è emerso dalla ricerca della Svimez su Donne, Giovani e Sud: Il lavoro povero e precario aggrava la questione salariale.

In Calabria, in particolare, è emerso come il tasso di attività, che nel 2018 era del 53,9%, al 2021 è sceso a 51,5%; il tasso di occupazione, che nel 2018 era del 42,1%, nel 2021 è del 42% (quindi un buon risultato) mentre il tasso di disoccupazione, da che era del 21,6%, nel 2021 si è attestato al 18%.

I dati della ricerca, infatti, «forniscono una fotografia sia degli effetti della grande recessione, sia della pandemia del 2020, evidenziando un chiaro dualismo territoriale e di genere»: Tra il 2008 e il 2019 il tasso di occupazione nazionale è rimasto stabile intorno al 59%, per poi perdere quasi un punto percentuale nell’anno della pandemia. Tra il 2008 e il 2020 è aumentato da 14,2 a 17,5 punti percentuali il differenziale di tasso di occupazione degli uomini tra Mezzogiorno e Centro-Nord per effetto di una contrazione dell’indicatore sensibilmente più intenso nelle regioni meridionali (dal 61 al 56,6%) rispetto al resto del Paese (dal 75,2 al 74,1%).

Tuttavia, viene evidenziato come il divario di genere sia sensibilmente più ampio al Sud: nel 2020 il tasso di occupazione femminile è di 24 punti inferiore a quello maschile (a fronte dei 15 punti del Centro-Nord) e di come il fenomeno del part-time involontario (a tempo indeterminato) interessa soprattutto le donne e il Mezzogiorno, dove «4 lavoratori a part-time del Sud su 5 lo sono “non per scelta», ha rilevato la Svimez.

La Svimez, infatti, ha rilevato come «dal 2008 al 2020 il ricorso al part time involontario è raddoppiato: nel 2008 si registrava il 7,6% nel Mezzogiorno e il 5% del Centro-Nord, valori saliti nel 2020 rispettivamente al 14,5% e all’11%. I lavoratori con part time “non per scelta” erano 1,3 milioni nel 2008; nel 2020 sono raddoppiati (2,7 milioni). Nel Mezzogiorno i lavoratori con contratto part time involontario sono passati da 490 mila a circa 900 mila, raggiungendo una percentuale dell’80% del totale dei lavoratori a tempo parziale. L’esplosione del tempo parziale involontario rappresenta una vera e propria “patologia” del mercato del lavoro italiano che diventa ancora più evidente nel Mezzogiorno per diversi motivi: la maggiore diffusione di produzioni manifatturiere a più basso valore aggiunto che esprimono una domanda di basse qualifiche; la prevalenza nei servizi di comparti tradizionali dove, più che nella manifattura, i tempi di lavori possono essere frazionati».

Un dato che preoccupa, poi, riguarda la riduzione non volute di orario e stipendio, che hanno interessato prevalentemente le donne e sono state più frequenti al Sud: se nel 2008 gli occupati con part time involontario – rileva la Svimez – erano in prevalenza donne in tutto il Paese, con un’incidenza sensibilmente più elevata nel Mezzogiorno, anche nel 2020 si osserva al Sud una quota di donne in part time involontario più elevata rispetto al Centro-Nord (23,7% contro il 18,4%)».

«A livello nazionale – si legge nella ricerca – nel 2020 risultano circa 1,1 milioni di occupati a tempo indeterminato e tempo pieno in meno rispetto al 2008. Una perdita che si concentra per oltre il 60% nel Mezzogiorno (-670.000). Nel Mezzogiorno gli occupati calano sensibilmente (-275.000 unità). A determinare questo diverso esito è soprattutto la contrazione molto più ampia nel Mezzogiorno dei rapporti di lavoro a tempo pieno: –11,9% a fronte del –3,1% del Centro-Nord».

Per quanto riguarda, poi, l’incidenza dei dipendenti a termine, la Svimez ha evidenziato come questa sia «mediamente più alta nel Mezzogiorno, ed è aumentata di 5 punti percentuali tra il 2008 e il 2019» e di come «si evidenzia una maggiore incidenza incidenza nell’occupazione femminile, seppure con un parziale riallineamento nell’ultima fase. Nel 2008, il ricorso ai contratti a termine nel Sud era significativamente più elevato tra le donne (21,6 contro il 15% tra gli uomini), mentre al Centro-Nord il differenziale di genere era più contenuto (10% per le donne, 13,7% per gli uomini). Per effetto della fase di ripresa occupazionale del 2014-2019, basata proprio sul ricorso ai contratti a termine, nel 2019 la quota dei dipendenti a termine maschile si è poi avvicinata a quella femminile, soprattutto al Sud: 23,1% per le donne, 21,7% per gli uomini».

«Nel 2020 – spiega la Svimez – i lavoratori dipendenti con contratti a termine nel Mezzogiorno registrano il valore più elevato rispetto alle altre aree del Paese, il 20,1% del totale dei lavoratori dipendenti. Le forme contrattuali a tempo determinato restano le più diffuse fra le donne e i giovani meridionali: il 21,3% per le donne, il 37,4% per i 15-34enni. Da notare che in questa fascia di età le distanze fra il Mezzogiorno e il resto del paese sono meno marcate, segno di una questione presente in misura trasversale sul territorio».

Quello che emerge dalla ricerca, è che nel Mezzogiorno ci sono «più precari e più a lungo»: Nel 2020, il 24,5% dei lavoratori del Mezzogiorno ha un’occupazione a termine da almeno 5 anni (in aumento di un punto percentuale rispetto al 2019), oltre 11 punti in più del Centro-Nord (14,2%). Da evidenziare, poi, come nel Mezzogiorno sia più difficile, rispetto al Centro-Nord, uscire dalla condizione di precarietà, se si considera che, nel 2019, la quota di occupati precari che trovavano un’occupazione stabile al Sud era del 13,3%, contro il 21,8% italiano e del 27,7% del Nord.

«Tutto questo– viene spiegato dalla Svimez – si traduce in una maggiore percezione di insicurezza nelle regioni meridionali, dove la quota di occupati che nei successivi 6 mesi ritiene sia probabile perdere il lavoro e sia poco o per nulla probabile trovarne un altro simile si attesta all’8,5% degli occupati totali (a fronte del 6,7% nazionale)».

Tuttavia, «a partire da marzo 2021, con una decisa accelerazione nel secondo trimestre dell’anno, la domanda di lavoro ha ripreso a crescere. La ripresa è stata più accelerata nel Mezzogiorno, anche se in questa stessa area si è registrato un più sensibile rallentamento nell’ultimo trimestre dell’anno»: I primi dati per il 2021 mostrano un recupero più sensibile dell’occupazione nel Mezzogiorno (+1,3% la variazione tra 2020 e 2021) a fronte dei risultati conseguiti dal Centro-Nord (+0,6%, vedi Tabella 3). In tutte le circoscrizioni tale dinamica è favorita dalla ripresa dell’occupazione femminile (+2,0% il Sud, +1,0% il Centro-Nord, +1,6% la media italiana).

Crescono i lavoratori dipendenti, a fronte di un calo generale degli indipendenti. La ripresa è favorita soprattutto dall’industria e in particolare da quella delle costruzioni; mentre conoscono valori tendenzialmente stabili o di bassa crescita gli occupati dei servizi. Tali dati sono in controtendenza con le variazioni registrate tra 2020 e 2019, quando la caduta del Mezzogiorno era più alta delle altre circoscrizioni (-3,3% a fronte del 3,1% di Centro-Nord e Italia), a causa proprio di una più sensibile contrazione dell’occupazione femminile (-4,6% nel Sud, -3,6% il Centro-Nord, -3,8% l’Italia).

Un altro aspetto su cui si è soffermata la Svimez, infine, è la stagnazione salariale, che «è una questione nazionale», dove tra il 2008 e il 2020 le retribuzioni reali si sono ridotte del 12% nel Mezzogiorno contro i 7 in media del Centro-Nord.

«La “questione salariale” – ha ribadito la Svimez – è, dunque, un problema nazionale, che determina conseguenze più rilevanti sulle condizioni sociali e si riverbera con maggiore intensità sulle dinamiche macroeconomiche soprattutto al Sud. Qui, infatti, il tasso di occupazione è strutturalmente più basso, la precarizzazione del mercato del lavoro più evidente, il lavoro fragile è più esposto al rischio povertà; inoltre, gli effetti depressivi dei bassi salari sulla dinamica dei consumi fa più danni nelle economie locali più dipendenti dalla domanda interna».

«Una vera e propria emergenza sociale – continua la Svimez – riguarda la diffusione del lavoro povero, una questione nazionale che al Sud ha raggiunto livelli insostenibili a causa di salari unitari più bassi e ridotti tempi di lavoro. I working poor in Italia sono 3 milioni, il 13% degli occupati, distribuiti uniformemente in valori assoluti tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Si tratta, però, di un’illusione “ottica” considerando che nel Mezzogiorno i working poor rappresentano circa il 20% degli occupati locali, contro circa il 9% del Centro-Nord. Sono circa 400.000 i nuovi lavoratori poveri creati dalla pandemia in Italia».

Ulteriori indicazioni sui differenziali territoriali nelle retribuzioni vengono dagli “Osservatori INPS” basati sulle singole gestioni previdenziali: i dati Inps, infatti, permettono di quantificare i profondi e persistenti divari retributivi tra Sud e Centro-Nord trasversalmente alle posizioni lavorative. I redditi da lavoro sono in media nel Mezzogiorno circa il 75% di quelli del Centro-Nord, un divario che deriva sia dal tempo lavorato (circa il 90% nel Sud rispetto a quello del Centro-Nord) sia dal reddito settimanale medio (intorno all’83%).

«La retribuzione annua media in euro al Mezzogiorno è di meno di 15.000 euro, a fronte degli oltre 22.000 nel Centro-Nord, circa il 35%» e il divario territoriale interessa tutte le categorie con l’eccezione dei dipendenti pubblici e degli iscritti alla gestione separata post-laurea ed è particolarmente elevato per i collaboratori (poco più del 50% di quello del Centro-Nord) e per i dipendenti privati (circa due terzi).

Quello che emerge, dunque, è un gender gap, «in larga parte ascrivibile al reddito medio settimanale (intorno al 25%) e in misura contenuta al minor numero di settimane lavorate (circa il 3%). Il divario è moderatamente calante nel corso del periodo 2014-2020, per l’aumento del reddito medio settimanale, mentre oscilla il numero di settimane lavorate. Il gender gap è relativamente contenuto per gli autonomi, intorno al 10%, sale decisamente per i dipendenti (circa il 30% per i privati e circa il 25% per i pubblici, dove probabilmente riflette differenze nei livelli professionali e nel tempo di lavoro part/full time) ed è massimo per i collaboratori quasi il 50%. A livello territoriale, il gender gap è più accentuato nel Centro-Nord (30% a fronte del 22% del Mezzogiorno)».

Per la Svimez, «le distanze retributive sopra richiamate e la loro particolare incidenza nel Mezzogiorno, oltre a incidere sulla qualità della vita di famiglie e individui, rischiano di compromettere le possibilità di ripartenza del Paese e del Sud, in particolare». (rrm)