di ERCOLE INCALZA – In più occasioni, in questi anni, ho ricordato che la riforma della portualità era presente nei programmi dei Governi Renzi, Gentiloni, Conte 1, Conte 2, Draghi e dell’attuale Governo; cioè era ed è un obiettivo annunciato dal 2015 e rimasto solo un atto programmatico o meglio una semplice buona intenzione.
Ha ragione il Presidente di Federlogistica, Luigi Merlo, nel ritenere che il punto di partenza della riforma debba essere il ruolo e le funzioni dell’Autorità di Sistema Portuale e dei suoi Presidenti ma questo processo deve, a mio avviso, portare alla formazione di un assetto societario e, al tempo stesso, di una rivisitazione sostanziale sia del numero delle Società e quindi dei relativi sistemi portuali, sia dell’inserimento, in ogni sistema, degli interporti strettamente interagenti.
Inoltre, tra i vari ruoli va considerato uno in modo particolare, mi riferisco alla dimensione industriale dei porti e alla rappresentanza, nella governance dei singoli porti, degli enti territoriali. Un porto è diverso da un aeroporto e da una grande stazione ferroviaria? Ad avviso di chi scrive la risposta giusta dovrebbe essere “non dovrebbe”. Ma al momento il porto, come realtà industriale, vive l’eccezionalità di essere ancorata ad una distinzione sbagliata tra l’interesse strategico e pubblico delle politiche che hanno ad oggetto i porti ed il porto come impianto industriale.
Di seguito prospetto, quindi, una prima ipotesi di questo nuovo impianto della offerta logistica portuale ed interportuale del Paese:
Sicuramente non ho inserito dei nodi logistici, sia portuali che interportuali, e mi scuso in partenza di possibili dimenticanze ma ritengo che i sette sistemi rispettino quanto già proposto sia nel Piano Generale dei Trasporti approvato nel 1986, sia nella apposita Legge del 1987 che riconobbe la validità di una simile scelta; una Legge che però non fu mai resa operativa.
Ebbene, queste sette realtà possono diventare Società per Azioni con una maggioranza pubblica del 51%; una maggioranza delle azioni pubbliche controllate da un unico organismo facente capo a quattro Dicasteri (Ministeri dell’Economia e delle Finanze, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ministero delle Imprese e del made in Italy, Ministero della Difesa).
Una tale proposta contiene una serie di convenienze: si offre una articolata sommatoria di realtà portuali ed interportuali ad un organismo come la Società per Azioni che, in base ad una misurabile autonomia gestionale, è in grado di dare vita a forme di concorrenza e di integrazione funzionale con altre realtà nazionali ed internazionali; si consente all’Amministratore Delegato della Società di produrre Piani Economici e Finanziari (Pef) organici e misurabili; si consente alla partecipazione pubblica nelle sette Società di rappresentare, in modo sistematico e motivato, gli interessi e le strategie dello Stato nella gestione della offerta portuale ed interportuale del Paese; un interesse che può anche essere garantito da una Società o da un apposito Dipartimento composto dai Dicasteri prima richiamati (Ministeri dell’Economia e delle Finanze, delle Infrastrutture e dei Trasporti, delle Imprese e del made in Italy, della Difesa); si creano le condizioni per una trasparenza non solo delle gestioni dei singoli Hub ma anche di un misurabile quadro di introiti. In fondo prendono corpo vere forme innovative di Partenariato Pubblico Privato (PPP).
È solo una proposta, senza dubbio discutibile, ma spero possa essere una possibile base di un confronto concreto e costruttivo; una proposta di riforma che, per la prima volta, consente al Mezzogiorno di disporre di cinque sistemi portuali su sette, consente al Mezzogiorno di diventare il più grande Hub dell’intero Mediterraneo. (ei)