di ANGELO PALMIERI – In Calabria parlare di sanità territoriale significa affrontare una sfida innanzitutto sociale. Le Case della Comunità non sono semplici edifici sanitari: rappresentano un cambio di paradigma che scalfisce il primato dell’ospedale come unico presidio di cura e restituisce al territorio la dignità di luogo terapeutico e relazionale. La salute non è solo atto clinico: è relazione, intreccio di capitale sociale, appartenenze e memorie collettive. La CdC diventa così un’infrastruttura di legami, una piazza sanitaria dove la cura smette di essere gesto tecnico e diventa pratica di cittadinanza. Qui confluiscono fragilità individuali e responsabilità collettive, prossimità dei professionisti e autonomia dei cittadini.
Fratture storiche e nuove diseguaglianze
La Calabria vive da decenni forti squilibri tra costa e montagna, centri urbani e aree interne. Oltre il 30% della popolazione risiede in comuni sotto i 5.000 abitanti, spesso in zone montane o collinari, con viabilità fragile, trasporti intermittenti e una rete digitale discontinua. Queste condizioni creano una “doppia distanza”: fisica – perché i servizi sono lontani – e simbolica, perché chi vive nei piccoli centri sviluppa una percezione di esclusione e sfiducia verso le istituzioni. Il risultato è un ricorso massiccio alla mobilità sanitaria: nel 2022 la spesa per cure fuori regione ha raggiunto 304,8 milioni di euro, un esborso che non è più una libera scelta ma necessità imposta da carenze strutturali. In queste comunità un banale controllo medico può trasformarsi in un viaggio di ore, mentre per un anziano solo o una famiglia senza mezzi adeguati il diritto alla salute diventa un percorso a ostacoli. Qui le Case della Comunità devono nascere come presidi permanenti, non solo per garantire servizi di base ma per ricostruire fiducia e capitale sociale.
La cura che coinvolge
Il cuore del modello è la presa in carico proattiva: intercettare i bisogni prima che esplodano in emergenza. Il Punto Unico di Accesso (PUA) e l’Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM) non sono sportelli burocratici, ma porte civiche della salute, dove la biografia della persona – clinica, economica e relazionale – viene ascoltata nella sua interezza. Da questo ascolto nasce il Piano Assistenziale Individualizzato (PAI) digitale, un patto di corresponsabilità che unisce istituzioni, operatori e cittadini. Così la cura diventa progetto di vita e il welfare si trasforma in pratica di co-produzione del benessere, rafforzando fiducia e legami di comunità.
Governance e partecipazione
In un territorio segnato da frammentazioni istituzionali, la Direzione di Distretto diventa cabina di regia per sanità e sociale, mentre il Comitato di Comunità apre le decisioni a cittadini, operatori e Terzo Settore. La misurazione tramite indicatori pubblici – dalle ospedalizzazioni evitabili alla soddisfazione degli utenti – non è burocrazia: è atto di democrazia sanitaria, perché rende la comunità co-valutatrice delle politiche e riduce gli spazi di opacità.
Digital divide e nuove cittadinanze
Il potenziale della telemedicina e del PAI elettronico è enorme, ma rischia di restare privilegio urbano se non si interviene sul digital divide. In molte zone interne la connessione è instabile, le competenze digitali scarse, i dispositivi costosi. Servono quindi facilitatori di comunità e programmi di alfabetizzazione tecnologica, perché l’innovazione diventi infrastruttura di cittadinanza, capace di abbattere barriere e portare il sapere clinico fin dentro i borghi più remoti.
Oltre l’emergenza: salute mentale e minori
Fra le sfide più urgenti spicca la salute mentale, soprattutto quella giovanile. Dopo la pandemia disturbi d’ansia, depressione e dipendenze hanno conosciuto un incremento allarmante. Le Case della Comunità possono diventare centri di prevenzione e resilienza, ospitando neuropsichiatria infantile, servizi per le dipendenze (SERD) e centri di salute mentale (CSM). Portare questi servizi vicino alle famiglie significa intercettare precocemente il disagio, ridurre l’abbandono scolastico e rafforzare la capacità delle comunità di sostenere i più giovani. Significa anche promuovere programmi di alfabetizzazione emotiva e gruppi di sostegno a genitori e insegnanti, trasformando la cura in educazione civica e capitale sociale. La telepsichiatria, se ben integrata, può raggiungere le aree più isolate, riducendo lo stigma e le barriere geografiche. In questo senso la salute mentale non è un capitolo marginale: è fondamento di sviluppo comunitario, perché una regione che custodisce l’equilibrio emotivo delle nuove generazioni costruisce coesione e futuro.
Una sfida culturale e politica
Costruire una sanità di prossimità in Calabria significa riconoscere il territorio come risorsa e non come problema.
Le Case della Comunità possono diventare luoghi di ricomposizione delle disuguaglianze e di costruzione di capitale sociale, dando concretezza all’articolo 32 della Costituzione. Perché questa rivoluzione silenziosa si compia occorrono tre condizioni imprescindibili: presidi permanenti nelle aree interne, investimenti seri in infrastrutture materiali e digitali e una governance trasparente che metta al centro la partecipazione civica.
E qui il discorso si fa inevitabilmente politico. Il presidente della Regione non può limitarsi a enunciare buone intenzioni o a rincorrere slogan elettorali.
Le Case della Comunità richiedono visione, programmazione e capacità di misurare risultati, non annunci ad effetto. E occorre dirlo con chiarezza: gli interessi consolidati di alcune potenti famiglie calabresi che da anni prosperano sulla sanità privata, alimentando un “out of pocket” studiato a tavolino con complicità silenziose, continuano a drenare risorse e a indebolire il servizio pubblico. Senza un contrasto netto a queste logiche speculative, ogni piano di riforma rischia di restare lettera morta. Su questo terreno, quello della sanità territoriale e della giustizia sociale, si misurerà la credibilità della prossima guida regionale. La Calabria non ha bisogno di promesse, ma di scelte coraggiose: portare la cura dove oggi ci sono solo distanze, costruire fiducia dove oggi regna sfiducia, trasformare il Pnrr da occasione finanziaria a patto civico con le comunità.
Chi siede a Palazzo Campanella dovrà dimostrare che la salute non è merce elettorale ma diritto vivo e misurabile, capace di trasformare le aree interne da periferia dimenticata a cuore pulsante della rinascita calabrese.
[Courtesy OpenCalabria]







