SERVE UN PROGETTO DI TRASFORMAZIONE
EPOCALE PER UNIRE CALABRIA ALL’EUROPA

di MARCELLO FURRIOLO – Puntuale come sempre il 57mo Rapporto Censis sulla situazione della società italiana fotografa un Paese “inabissato in una ipertrofia emotiva, mosso da scosse emozionali che tramutano tutto in emergenza e conducono a spasmi apocalittici e fughe millenaristiche”. Mentre i problemi veri sono rimossi dall’agenda collettiva.

Un paese di“sonnambuli inabissati nel sonno del raziocinio. Ciechi dinanzi ai presagi. Gli italiani non sarebbero più alla ricerca dell’agiatezza, ma alla ricerca di uno spicchio di benessere quotidiano. Registriamo una siderale incomunicabilità generazionale e va in scena il dissenso senza conflitto dei giovani. Esuli in fuga. 36.000 ragazzi tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato l’ Italia nell’ultimo anno. Come si vede un’immagine lacerante. Il rapporto, mai come quest’anno, si sofferma su aspetti di psicologia collettiva che hanno un riflesso socio-economico. In un paese invecchiato, sfiduciato e stressato da due guerre alle porte di casa e da una situazione economica e politica, complessa nella sua fragilità.

Un ritratto per molti versi sostanzialmente mutato rispetto agli ultimi anni. Non tanto cambiato nelle sue diversità e contrapposizioni territoriali ma pressoché omologato nelle sue preoccupazioni e nell’incapacità di guardare al futuro con fiducia e di mettere in campo azioni adeguate per modificarne il corso. I “sonnambuli” della lunga notte della politica. In un meraviglioso territorio privilegiato dalla natura, in cui si muore per  selvaggia violenza  di genere, ma anche per l’isolamento patologico dell’anoressia.E la Calabria che posto occupa in questa foto di gruppo, un po’ dagherrotipo e un po’ videoclip della società della fluidità dei pensieri e dei costumi? Sicuramente la Calabria fornisce il suo contributo decisivo nell’invecchiamento della popolazione, nella fuga esilio della sua meglio gioventù, nella paralisi sonnambula della sua vita sociale e soprattutto politica. Eppure in queste ore non mancano piccoli segnali, sia pure contraddittori, dell’emergere di una possibilità di riscrittura della vocazione della regione rispetto non solo al resto del Paese, ma anche dello stesso Mezzogiorno.

Appare evidente che il destino della Calabria debba ormai legarsi sempre di più non al resto del Mezzogiorno, prendendo atto del fallimento delle politiche dei vari Governi nazionali e locali in risposta alla letteratura querula della “Questione Meridionale”, ma all’Europa e al Mediterraneo. Il Presidente Roberto Occhiuto è stato ricevuto al Quirinale dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un colloquio definito “positivo e cordiale”.

A conclusione è stata diffusa alla stampa una foto che ritrae “i due Presidenti” in un atteggiamento di grande rispetto reciproco, che evocava quasi la conclusione di un incontro tra due rappresentanti di due paesi alleati.

Occhiuto a margine dell’incontro con Mattarella ha affermato che la Calabria deve diventare “la Porta dell’Europa sul Mediterraneo”. Come dire che, forse, finalmente si è individuata la strada che fa uscire la regione dall’isolamento e dalla sua storica marginalità. Ma per fare questo occorre con coraggio ripensare ad una nuova idea di Calabria, aggiornare il suo identikit socio economico, riscrivere il diario non dei sogni ma delle necessità strutturali per diventare “la Porta” dell’Europa, su cui si affacciano i territori e le popolazioni  più travagliati, ma anche più giovani e portatori di nuovi bisogni e nuove culture.

Fare questo significa dotare la Calabria di infrastrutture a livello europeo, significa impedire che si continui a morire su tratti ferroviari ottocenteschi per mancanza di elettrificazione, doppi binari e sicurezza nei passaggi a livello. Significa potenziare il Porto di Gioia Tauro e aprire nuove strutture portuali di primo livello anche sullo Jonio e realizzare una grande area metropolitana nell’area centrale della Calabria tra i due mari. Significa ancora alzare il livello dell’impegno e degli investimenti per l’ambiente, a partire dal nuovo rigassificatore. Significa rendere la sanità pubblica e privata in grado di dare le risposte più adeguate alla domanda di salute non solo dei cittadini calabresi, ma delle popolazioni che si affacciano sulle nostre coste. Ma  principalmente – sono sempre le parole di Marcello Furriolo – significa rendere le nostre tre Università autentici fari del sapere umanistico e scientifico, in grado di diffondere la storia e la visione avveniristica del futuro, in un confronto sempre più  pregnante con le popolazioni del Mediterraneo. E in un quadro di autentica e motivata autonomia amministrativa.

Ma, forse, pensare e realizzare tutto questo si traduce nella necessità di dotare questo territorio delle infrastrutture, porti, aeroporti, strade e ferrovie, in grado di unire realmente la Calabria all’Europa, all’Africa e all’est europeo. In questa nuova geografia il Ponte sullo Stretto rischierebbe di apparire del tutto fuori scala, anche se appartiene ai sogni di una generazione politica che ha vissuto di immagini simbolo e opere di regime di vago sapore “millenaristico”. Il futuro della Calabria non passa dalla Sicilia, ma dalla sua capacità di trasformarsi e farsi riconoscere nell’immagine inclusiva dell’Europa da parte di tutte le civiltà che guardano al Mediterraneo. Un sogno da “sonnambuli” o un grande progetto di trasformazione epocale. (mf)

[Marcello Furriolo è ex sindaco di Catanzaro, giornalista e scrittore]

L’Università della Calabria sul podio della classifica Censis

L’università della Calabria anche quest’anno è sul podio dei grandi Atenei statali italiani, per il Censis. L’Unical, anche quest’anno, ha confermato il terzo posto tra i grandi atenei, con un punteggio di 90,2 a un soffio da Perugia (90,5) e a un solo punto da Pavia (91,2).

L’ateneo calabrese conferma il primato assoluto – considerando tutti gli atenei sopra i 20.000 iscritti – per i servizi, con 107 punti su 110, superando non solo tutti i grandi atenei ma anche i mega (sopra i 40.000 iscritti) come La Sapienza di Roma o la Federico II di Napoli. La classifica tiene conto dei pasti erogati, dei posti e dei contributi per l’alloggio degli studenti.

Balzo in avanti nella categoria “borse”, che tiene conto della spesa degli atenei per interventi a favore degli studenti: si passa da 102 a 105. Qui l’Unical conquista il secondo posto tra i grandi atenei, dopo Cagliari, che la precede per un solo punto, mentre supera tutti gli altri atenei che restano sotto i 100. Servizi e borse di studio per gli studenti sono tra i punti di forza dell’Unical, due aspetti che la governance tiene costantemente sotto attenzione, tanto più perché l’ateneo si mostra in controtendenza rispetto a quanto accade nel resto del Paese, dove il problema degli alloggi per gli studenti è drammaticamente attuale. L’Unical garantisce il posto letto e la borsa a tutti gli idonei, grazie a forti investimenti su edilizia e diritto allo studio.

La performance dell’Unical registra un miglioramento anche in altri importanti parametri, come “l’internazionalizzazione”, che sale da 75 a 78 – grazie anche all’investimento nell’offerta formativa con l’attivazione di 10 lauree magistrali in lingua inglese – e quello delle “strutture” che sale da 82 a 83. In leggero calo la voce “comunicazione e servizi digitali”, che scende da 100 a 98, pur restando a pari merito con la prima classificata Pavia, e il dato “occupabilità” che scende da 73 a 70, un parametro sul quale l’ateneo è penalizzato dal difficile contesto lavorativo meridionale.

«Questo risultato è motivo di grande soddisfazione per tutta la comunità universitaria – ha dichiarato il Rettore, Nicola Leone – e conferma l’impegno costante dell’ateneo nel garantire un’offerta formativa di alta qualità, servizi efficienti e grande attenzione alle esigenze degli studenti. Al di là delle classifiche, la bontà dell’offerta formativa è certificata dal numero sempre crescente di giovani che scelgono la nostra università per costruire il loro futuro».

«A chiusura del bando di ammissione anticipata, infatti – ha proseguito – le domande hanno fatto segnare un dato davvero straordinario: 31% di studenti in più rispetto all’anno accademico precedente. Dopo oltre un decennio di costante calo degli iscritti, dal mio insediamento l’Unical continua a crescere, in assoluta controtendenza rispetto al quadro nazionale. Ricordo che stiamo entrando ora nella fase delle immatricolazioni standard, le iscrizioni sono aperte dal 14 luglio al 25 agosto, e ci auguriamo di poter accogliere tanti nuovi studenti nel nostro bellissimo campus universitario».

«L’Unical è una vera e propria cittadella universitaria che, oltre a didattica e ricerca di qualità – ha concluso – offre la possibilità di vivere un’esperienza universitaria davvero unica. E nel prossimo anno il campus sarà ancor più animato con il potenziamento delle strutture sportive, l’apertura dei cinema e del caffè del teatro». (rcs)

INSOSTENIBILE LEGGEREZZA IRRAZIONALE
ECCO LA SOCIETÀ AI TEMPI DEL POST-COVID

Interessante e ricco di spunti di riflessioni, anche per la Calabria, è il Rapporto Censis 2021 che, in questa edizione, analizza l’impatto che ha avuto il covid-19 non solo a livello economico, ma anche quello sociale. Quello che emerge, è un quadro completo, in cui regna sovrana l’irrazionalità, che ha «infiltrato il tessuto sociale, sia le posizioni scettiche individuali, sia i movimenti di protesta, e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei trending topic nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive».

Una irrazionalità che «non è semplicemente una distorsione legata alla pandemia – viene spiegato nel Rapporto – ma ha radici socio-economiche profonde, seguendo una parabola che va dal rancore al sovranismo psichico, e che ora evolve diventando il gran rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere: la scienza, la medicina, i farmaci, le innovazioni tecnologiche. Ciò dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali».

«Questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale. La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali» spiega il Rapporto che rileva come «l’81% degli italiani ritiene che oggi è molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto nella vita l’investimento di tempo, energie e risorse profuso nello studio. Il 35,5% è convinto che non conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi invariabilmente con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento».

«Per due terzi (il 66,2%) – continua il Rapporto – nel nostro Paese si viveva meglio in passato: è il segno di una corsa percepita verso il basso. Per il 51,2%, malgrado il robusto rimbalzo del Pil di quest’anno, non torneremo più alla crescita economica e al benessere del passato. Il Pil dell’Italia era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del 26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, poi del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio e dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, prima di crollare dell’8,9% nel 2020».

Negli ultimi trent’anni di globalizzazione, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania, il primo Paese in graduatoria, al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia. L’82,3% degli italiani pensa di meritare di più nel lavoro e il 65,2% nella propria vita in generale. Il 69,6% si dichiara molto inquieto pensando al futuro, e il dato sale al 70,8% tra i giovani.

Quello che fa preoccupare, invece, è che «per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni di persone), il Covid semplicemente non esiste. Per il 10,9% il vaccino è inutile e inefficace. Per il 31,4% è un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano fanno da cavie. Per il 12,7% la scienza produce più danni che benefici».

Si osserva una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste. Dalle tecno-fobie: il 19,9% degli italiani considera il 5G uno strumento molto sofisticato per controllare le menti delle persone. Al negazionismo storico-scientifico: il 5,8% è sicuro che la Terra sia piatta e il 10% è convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna. La teoria cospirazionistica del «gran rimpiazzamento» ha contagiato il 39,9% degli italiani, certi del pericolo della sostituzione etnica: identità e cultura nazionali spariranno a causa dell’arrivo degli immigrati, portatori di una demografia dinamica rispetto agli italiani che non fanno più figli, e tutto ciò accade per interesse e volontà di presunte opache élite globaliste».

Di fronte a uno scenario tanto desolante, tuttavia, c’è un fattore che, da un certo punto di vista, è stato positivo con questa pandemia: la riscoperta della solidarietà. «Un terzo degli italiani, infatti, ha «partecipato a iniziative di solidarietà legate all’emergenza sanitaria, aderendo alle raccolte di fondi per associazioni non profit, per la Protezione civile o a favore degli ospedali. Quasi un terzo di coloro che si sono attivati ha svolto in prima persona attività gratuita in associazioni di volontariato impegnate nella lotta al Covid. Il 20,7% degli italiani ritiene che la gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni abbia prodotto buoni risultati, per il 56,3% è stata abbastanza adeguata, per il 23,0% inadeguata».

Tralasciando il fattore “complotto”, il Censis ha rilevato che solo il 15,2% degli italiani ritiene che, dopo la pandemia, la propria situazione economica sarà migliore, mentre per la maggioranza, il 56,4% resterà uguale, e per il 28,4% peggiorerà. E, forse, sono quest’ultimi, i “pessimisti”, ad aver ragione, o quasi. O meglio: per il Censis, «ci sono fattori di freno che congiurano contro la ripresa economica».

«Tutti i rischi di natura socio-economica – viene scritto – che avevamo paventato durante la pandemia (il crollo dei consumi, la chiusura delle imprese, i fallimenti, i licenziamenti, la povertà diffusa) vengono oggi rimpiazzati dalla paura di non essere in grado di alimentare la ripresa, di inciampare in vecchi ostacoli mai rimossi o in altri che si parano innanzi all’improvviso, tanto più insidiosi quanto più la nostra rincorsa si dimostrerà veloce. A cominciare dal rischio di una fiammata inflazionistica. A ottobre 2021 il rialzo dei prezzi alla produzione nell’industria è stato consistente: +20,4% su base annua. Si registra un +80,5% per l’energia, +13,3% per la chimica, +10,1% per la manifattura nel complesso, +4,5% per le costruzioni».

Un altro aspetto analizzato dal Censis, sono le incognite che pesano sul risveglio dei consumi dopo la depressione della domanda interna: «il forte recupero dei consumi delle famiglie (+14,4% tra il secondo trimestre del 2020 e il secondo del 2021) è figlio dell’allentamento delle misure di contenimento del contagio».

«Si prevede una crescita dei consumi del 5,2% su base annua, inferiore alla crescita del Pil e inadeguata a ricollocare il Paese sui livelli di spesa delle famiglie del 2019. In Italia il tasso medio annuo di crescita reale dei consumi si è progressivamente ridotto nel tempo, passando dal +3,9% degli anni ’70 al +2,5% degli anni ’80, al +1,7% degli anni ’90. Nel primo decennio del nuovo millennio si è attestato su un +0,2% e poi l’anno della pandemia ha trascinato in negativo la media decennale: -1,2%».

Il Censis, poi, ha rilevato come «un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che coinvolge anche un numero rilevante di laureati e offerte di lavoro non orientate a inserire persone con livelli di istruzione elevati indeboliscono la motivazione a fare investimenti nel capitale umano. L’83,8% degli italiani ritiene che l’impegno e i risultati conseguiti negli studi non mettono più al riparo i giovani dal rischio di dover restare disoccupati a lungo. L’80,8% degli italiani (soprattutto i giovani: l’87,4%) non riconoscono una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato».

Infatti, per l’Ente, «l’Italia affronta la grande sfida della ripresa post-pandemia con una grave debolezza: la scarsità di risorse umane su cui fare leva. Il primo fattore critico è l’inverno demografico»: Tra il 2015 e il 2020 si è verificata una contrazione del 16,8% delle nascite. Nel 2020 il numero di nati ogni 1.000 abitanti è sceso per la prima volta sotto la soglia dei 7 (6,8), il valore più basso di tutti i Paesi dell’Unione europea (media Ue: 9,1).

La popolazione complessiva diminuisce anno dopo anno: 906.146 persone in meno tra il 2015 e il 2020. Secondo gli scenari di previsione, la popolazione attiva (15-64 anni), pari oggi al 63,8% del totale, scenderà al 60,9% nel 2030 e al 54,1% nel 2050. Secondo un’indagine del Censis, poco prima della pandemia il 33,1% dei capifamiglia con meno di 45 anni aveva l’intenzione di sposarsi o di convivere e il 29,8% aveva l’intenzione di fare un figlio.

Ma soltanto il 26,5% ha continuato a progettare o ha effettivamente intrapreso un matrimonio o una convivenza stabile. In un caso su dieci il progetto originale è stato annullato. La grande maggioranza delle famiglie che stavano pensando di avere un figlio ha deciso di rinviare (55,3%) o di rinunciare definitivamente al progetto genitoriale (11,1%).

Un altro aspetto su cui il Censis lancia l’allarme, è quello dedicato all’edilizia, dove c’è il rischio che, a fronte di un incremento degli interventi nell’edilizia privata, ci siano, invece, pochi interventi per quelli pubblici, come Scuole e ospedali.

Viene rilevato, infatti, che «al 30 settembre 2021, gli interventi edilizi in corso o conclusi incentivati con il super-bonus 110% sono stati più di 46.000, per un ammontare di investimenti ammessi a detrazione pari a quasi 7,5 miliardi di euro (di cui il 68,2% per lavori conclusi), con un onere per lo Stato di 8,2 miliardi. Il boom degli ultimi mesi è legato alla crescita della quota relativa ai condomini, che oggi è pari solo al 13,9% degli interventi (la percentuale era del 7,3% a febbraio), ma rappresenta poco meno della metà dell’ammontare complessivo (il 47,7%), dato che l’importo medio dei lavori nei condomini si attesta intorno ai 560.000 euro, contro i circa 100.000 euro degli interventi su singole unità immobiliari».

Dall’indagine, poi, emerge che «il 74,1% dei giovani di 18-34 anni ritiene che ci siano troppi anziani a occupare posizioni di potere nell’economia, nella società e nei media, enfatizzando una opinione comunque ampiamente condivisa da tutta la popolazione (65,8%)».

Il 54,3% dei 18-34enni (a fronte del 32,8% della popolazione complessiva) ritiene che si spendano troppe risorse pubbliche per gli anziani, anziché per i giovani. La precarietà lavorativa sperimentata nei percorsi di vita individuali influenza il clima di fiducia verso lo Stato e le istituzioni. Il 58% della popolazione italiana tende a non fidarsi del governo, ma tra i giovani adulti la percentuale sale al 66%.

I Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, costituiscono una eclatante fragilità sociale del nostro Paese. Tra tutti gli Stati europei, l’Italia presenta il dato più elevato, che negli anni continua a aumentare. Nel 2020 erano 2,7 milioni, pari al 29,3% del totale della classe di età 20-34 anni: +5,1% rispetto all’anno precedente. Nel Mezzogiorno sono il 42,5%, quasi il doppio dei coetanei che vivono nelle regioni del Centro (24,9%) o nel Nord (19,9%).

Insieme alla questione “Giovani”, è stata affrontata anche quella delle “Donne”, il cui numero di occupate, a giugno 2021, è diminuito: «sono 9.448.000, alla fine del 2020 erano 9.516.000, nel 2019 erano 9.869.000».

Nel rapporto, infatti, emerge che «durante la pandemia 421.000 donne hanno perso o non hanno trovato lavoro. Il tasso di attività femminile (la percentuale di donne in età lavorativa disponibili a lavorare) a metà anno è al 54,6%, si è ridotto di circa 2 punti percentuali durante la pandemia e rimane lontanissimo da quello degli uomini, pari al 72,9%. Da questo punto di vista, l’Italia si colloca all’ultimo posto tra i Paesi europei, guidati dalla Svezia, dove il tasso di attività femminile è pari all’80,3%, e siamo distanti anche da Grecia e Romania, che con il 59,3% ci precedono immediatamente nella graduatoria».

«La pandemia ha comportato un surplus inedito di difficoltà rispetto a quelle abituali per le donne che si sono trovate a dover gestire in casa il doppio carico figli-lavoro. Il 52,9% delle donne occupate dichiara che durante l’emergenza sanitaria si è dovuto sobbarcare un carico aggiuntivo di stress, fatica e impegno nel lavoro e nella vita familiare, per il 39,1% la situazione è rimasta la stessa del periodo pre-Covid e solo per l’8,1% è migliorata. Tra gli occupati uomini, invece, nel 39,3% dei casi stress e fatica sono peggiorati, nel 44,9% sono rimasti gli stessi e nel 15,9% sono migliorati».

Infine, un capitolo è stato dedicato a internet che, durante l’emergenza, «a più di un italiano su due le tecnologie digitali hanno consentito di provvedere alle proprie necessità (58,6%), di mantenere le relazioni sociali (55,3%) e di continuare a lavorare o studiare (55,2%)».

«Ma il livello di istruzione rappresenta ancora un fattore di filtro. Ad esempio, gli utenti di internet in possesso di un basso titolo di studio (fino alla licenza media) sono più restii a utilizzare online il proprio conto corrente: lo fa il 30,3% a fronte del 60,1% di diplomati e laureati» ha rilevato il Censis. (rrm)