Lectio magistralis del calabrese Pierfranco Bruni al Centro polifunzionale dell’Università degli Studi di Bari su Cesare Pavese. L’appuntamento è previsto per lunedì 26 febbraio alle ore 17.
La lezione avrà per tema “Cesare Pavese, oltre l’intolleranza ideologica”. Pierfranco Bruni è considerato uno dei massimi studiosi dello scrittore piemontese e ora presidente della commissione Capitale italiana del libro 2024.
Diversi sono gli istituti e le associazioni patrocinanti compresa la stessa Uniba. L’incontro, organizzato da la Stargate universal service adv, sarà presentato e coordinato da Mariella Ragnini de Sirianna, presidente Stargate.
La Lectio di Pierfranco Bruni affronterà la problematica di un Pavese nella contemporaneità partendo proprio degli anni del Confine in Calabria nell’anno 1935. A questo tema Bruni ha dedicato uno dei suoi sei libri pavesiani.
Un tema che si intreccia alla solitudine e al mito greco sul quale Pavese ha scritto diversi saggi e la cui poetica è completamente infarcita.
Pierfranco Bruni nel suo ultimo Pavese, “Il bosco e la foresta”, apparso in questi giorni, scava tra la solitudine e il mito in una visione esistenzialista e antropologica ininea con gli studi di Bruni. (rcs)
di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Egregio Presidente Conte, scrivo da una regione la cui tunica viene giocata a sorte per l’ennesima volta. E le folle insistono a voler scegliere Barabba, a conferma che Cristo davvero si è fermato a Eboli.
La Calabria ancora una volta terra di conquista. Si continua a succhiarle il sangue da ogni parte del suo corpo nudo, mentre con occhi fragili e agonizzante, chiede aiuto. Si vuol rendere sazio solo chi ha sete (di potere, di quattrini e di vendetta). Si continua a violentarla con la pratica immorale della ripetizione, senza farle neppure prendere fiato, mentre con voce fioca, grida aiuto. Si vuol soddisfare la smania di chi ha il disio di provar piacere.
Così, nella minimizzazione di una terra voluta sempre serva, ogni atto di violenza carnale alla Magna Grecia, ha il suo complice. E verrà scritto sui libri di storia il suo nome. E saranno più d’uno quelli a cui verrà chiesto il conto. Più d’uno, saranno i banditi pronti a levarle via la purezza degli ulivi, il volo casto della rondine marina, il candore dei bianchi calanchi.
Dopo che con il nostro sangue abbiam fatto l’Italia, caro Presidente, insistete a volerci privare dei diritti essenziali, calpestandoci la dignità, ed eliminandoci dalla nostra stessa storia. Ma se cadiamo noi, cadrà l’Italia intera. Siamo gli arti inferiori su cui si regge la Nazione. Se si piegano le gambe, viene giù tutto il corpo. Nessuno si salva da solo. Proprio così, nessuno si salva da solo.
Noi, esistiamo, Presidente Conte. I calabresi, esistono. Nell’onestà, nel sacrificio, nel lavoro, dallo Jonio al Tirreno, Dall’Aspromonte al Pollino. Con le forze e le debolezze, i sogni e le speranze. E al contrario di come fece Antonello dell’Argirò, che bene e saggiamente seppe raccontare Corrado Alvaro in Gente in Aspromonte, noi non ce ne staremo più qui, in cima ai monti, o giù per la marina, ad attendere la giustizia, affinché, col tempo suo, decida di arrivare. Le andremo incontro. Oggi più che mai. Perché se la politica, ancora una volta, si arroga il diritto di scegliere tra Gesù e Barabba, e Cristo lo inchioda e Barabba lo libera, il Covid non ce la fa a far differenze. Dove prende, coglie. E se coglie quaggiù, ancor più di quanto già non stia facendo, di scrivere ai postumi non avremmo altro tempo.
Questa è terra nostra, signor Presidente, non di nessuno. Ci avete visti piangere, quando in fila come soldati, alle stazioni, con il fazzoletto in mano, salutavamo i padri, e i parenti, è vero. Ora invece ci vedrete disposti solo a lottare. Nessuno può morire perché qui, tra gli ulivi, non ci sono abbastanza ospedali. Il Re è stato lasciato nudo troppe volte.
Da calabrese vorrei poter dire che Cristo non si è fermato a Eboli. Eppure la bufera che si abbatte sulla mia terra, testimonia che qui forse non vive nessun Dio. Il Governo centrale ci premia con l’invio di commissari su commissari. Cotticelli, Zuccatelli. Ferite sopra le ferite, senza farne rimarginare mai neppure una. E allora bisogna interrompere una volta per tutta la continuità massacrante che da un decennio a questa parte ci ha logorati soprattutto come esseri umani. E proprio per questo, ho deciso di scriverle questa lettera aperta. Perché nessuno di noi può più stare a guardare. Un giorno accadrà che i nostri figli, i figli nostri, ( e con buona grazia del Cielo i miei son quattro) ci chiederanno il conto per ciò che abbiamo fatto. Con qualunque carica abbiamo ricoperto, anche la più banale, o magari la più scontata. E in quel tribunale che sarà il loro futuro, caro signor Presidente, dovremo saper rispondere tutti.
La Calabria va saputa prendere, messa nelle mani di chi ne sa del Sud. Abbiamo uomini e donne che neppure lei immagina. Abbiamo menti, eccellenze, capacità, uomini coraggiosi e incorruttibili. Perché bisogna attingere sempre a graduatorie forestiere riportando in essere, ancora una volta, un programma troppo delineato, già previsto, con cui si arriverà in via definitiva a privare un popolo della sua dignità, e anche della vita? Perché?
A esser servi non ci siamo mai stati, Presidente Conte. Siamo insorti a Melissa, a Reggio Calabria, a Catanzaro. Quando ci mancava la farina, quando ci rubavano le olive, e certe volte anche le terre. A ogni pietra d’inciampo, quando siamo caduti, ci siamo sempre rialzati.
Calabria. In punta allo stivale, ma non al cuore.
Vorrei tanto che per un solo attimo Cesare Pavese, forestiero al confino nella desolata Brancaleone, le dicesse, come fece con sua sorella Maria, chi sono i calabresi e quanto vale la terra di Calabria. Amata e dannata, terra.
Vorrei che glielo dicessero Umberto Zanotti Bianco, Edward Lear, Paolo Orsi. Nessuno può operare, curare, dirigere e tanto meno commissariare una terra che non conosce. Un popolo che poco o niente rispetta. Che non gli è né conoscente, né affine. Corrado Alvaro diceva il calabrese va parlato, ascoltato, voluto bene. Ma nessuno lo ha fatto. Eppure il maestro insegna e gli allievi imparano. Voi no. Ci avete sempre costretti, per fame, (e ora anche per salute) a essere briganti. A emigrare. E continuate a farlo. A volte con sdegno, altre solo per un piglio. Peggio dei signori (gnuri) che torturavano la vita dei coloni, schiavizzandoli per il pane o magari per la penicillina.
Ma son finiti quei tempi, caro Presidente. È finita l’ignoranza, l’analfabetismo… Ora anche qui ci sono i libri, quelli che li scrivono. Ci sono l’intelligenza, la scelta, le idee, i valori, il coraggio e anche il doppio della lotta di ieri. I Calabresi non ci stanno più alle barbarie di un’Italia che ha sempre approfittato del suo Sud. L’era del latifondo è ormai passata. L’abbiamo combattuta e anche vinta. E ora, questa in cui liberamente vorreste bivaccare, e con maggiore forza di prima lo ribadisco, è terra nostra, non di nessuno.
I Proci hanno finito le risa porche e maledette, e pure la pacchia antica dei calici e del vino. Ulisse torna a Itaca. Ulisse è il nostro orgoglio, caro signor Presidente, Itaca, la nostra terra.
Venite, venite a vedere, a capire, a sentirci parlare, a dirci che da domani non dovremo più soffrire.
Venite a dirlo agli anziani, ai bambini.
Venite a dire ai giovani che possono restare. E che la soluzione non è più partire.
Venite, se ce la fate.
“Sono calabrese, ma sono figlia d’Italia anch’io”.
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