TROPPE IMPOSTE FRENANO LO SVILUPPO
LA CALABRIA RIPARTE SE CALANO LE TASSE

di FRANCO RUBINO – Il primo tassello, da cui partire per la realizzazione di un “progetto integrato”, finalizzato a risollevare la Calabria dalla condizione di abbandono in cui si trova, è senza dubbio la riduzione del carico fiscale che grava sui cittadini. Troppe imposte frenano lo sviluppo della nostra Regione come quello dell’intero Paese.

Lo studio dell’economia ci insegna che, oltre un certo livello di tassazione, le persone preferiranno non lavorare più. I modelli teorici ci dicono che nella scelta tra “lavoro” e “tempo libero” in funzione delle aliquote fiscali, il lavoratore avrà come sua scelta ottimale, discendente anche da calcoli matematici, quella di rinunciare ad incrementare le ore di lavoro ed aumentare quelle del suo tempo libero.

Basti anche pensare alla nota Curva di Laffer, per quanto nella letteratura economica da alcuni criticata, perché non poggerebbe su un costrutto teorico, ma esclusivamente sull’osservazione ed elaborazione di dati empirici.

Le imposte sono veramente tante: dirette (esempio IRPEF, IRES) e indirette (esempio IVA, Tassa di Registro).  Si consideri, inoltre, che in una Regione come la Calabria, dove i Comuni sono per lo più in uno stato di dissesto o predissesto, anche le aliquote delle tasse comunali, che possono essere fissate dall’Ente tra un minimo ed un massimo, si trovano al livello più elevato.

Le stesse addizionali comunali IRPEF sono elevate, e  la stessa addizionale regionale IRPEF è alta, per non parlare, poi, di tante altre imposte che franano lo sviluppo (esempio, tassa di soggiorno). L’eccessivo carico fiscale da un lato porta spesso ad un’evasione, in tutto o in parte, del versamento delle imposte e dall’altro porta l’italico ingegno (che non manca mai!) a cercare in qualche modo di eludere la tassazione. Anche, però, per chi regolarmente paga le imposte, livelli di tassazione elevata, come abbiamo detto, inducono a rinunciare ad ulteriori ore di lavoro, specie se il compenso aggiuntivo fa scattare una aliquota marginale più alta, e, quindi, viene meno una contribuzione in termini valore di beni e servizi al Prodotto Interno Lordo (PIL).

Ridurre il carico fiscale, pertanto, darebbe indubbiamente liquidità alle imprese e alle famiglie, e, ciò, ipotizzando una propensione marginale al consumo pari all’unità, comporterebbe un aumento più che proporzionale nella domanda globale di beni e servizi.

Se la domanda globale aumenta, le imprese sono incentivate a produrre e ad assumere persone disoccupate, e, così facendo, distribuiranno altri redditi, i quali a loro volta si tradurrebbero in ulteriore domanda ed in ulteriore occupazione: è il virtuoso meccanismo del Moltiplicatore, di cui J.M. Keynes tratta nella sua opera principale, ovvero Teoria generale dell’interesse, dell’occupazione e della moneta. Aumentando il reddito globale, soggetto a tassazione, aumenterebbe anche il gettito fiscale in valore assoluto per quanto le aliquote fiscali siano state diminuite. Si consideri, poi, che ridurre le tasse significa beneficio immediato per i cittadini, aiuto concreto senza dover passare per contributi statali, che sarebbero soggetti ai pericoli della burocrazia, dei quali vi è intenzione di trattare in altro contributo.

A questo punto, però, il quesito sorge spontaneo: ma se è tutto così semplice, perché non è stato fatto e non si fa? Risposta: non è tutto così semplice! Il presupposto, affinchè il processo si avvii, è che il risparmio di liquidità, dovuto alla minor tassazione, venga speso dai cittadini, ovvero si traduca in domanda di beni e servizi.

In realtà, in una situazione economica e sociale così incerta come quella attuale, chi ha liquidità tende a risparmiarla, non a spenderla o investirla, in quanto, come sempre la teorica economica ci insegna, gli individui sono mediamente avversi al rischio. E i dati ci dicono proprio questo!

In base ad uno studio condotto di recente dall’ABI, sui conti correnti degli italiani ci sono circa 1.682 miliardi di euro, ovvero una montagna di risparmi uguale al PIL del 2020! E allora? Se non si spende, la macchina dello sviluppo non parte. Lo stesso Keynes ce lo dice, quando afferma che il livello di investimenti delle imprese non dipende solo dal tasso dell’interesse, ma anche dall’Efficienza Marginale del Capitale (EMC), ovvero dalle prospettive future di rendimento. Che fare?

Risulta evidente che una semplice rivoluzione fiscale non basta, ed è lo Stato che si deve far carico di avviare il processo di sviluppo: deve immettere liquidità nel sistema, deve spendere e fare in modo che questa liquidità arrivi celermente ai cittadini, che a loro volta devono essere incentivati ad incrementare la loro domanda di consumo. Keynes avrebbe detto: bisogna far lavorare la gente e distribuire reddito, a costo di prendere dei lavoratori disoccupati, far loro scavare delle buche e, poi, fargliele riempire nuovamente, pagandoli per questa prestazione!

Il motore della crescita deve essere acceso a tutti i costi, e si deve fare subito: non si può aspettare che “nel lungo termine” le forze di mercato aggiustino tutto, bisogna fare tutto nel breve, anzi brevissimo, termine, perché nel lungo termine saremo tutti morti!

In questo non si può perdere l’enorme opportunità che il Recovery Fund può offrire, anche per abbassare le tasse, ma soprattutto per ristabilire un clima di fiducia nelle persone, senza il quale la ripresa sarà difficilissima, se non impossibile.

Non basta una Politica Fiscale adeguata, ma è necessaria una attenta Politica Economica che la deve accompagnare.

Se l’economia si riprende, aumenterà il PIL e, pertanto, anche l’indebitamento diverrà sostenibile, ovvero si avrà la capacità di ripagarlo.

Ci vuole il solito Progetto Integrato, di cui una Rivoluzione Fiscale è un tassello, che è solo una piccola parte di tutto il  mosaico.

Nel suo insieme per un progetto integrato di sviluppo, ci vuole una Rivoluzione Culturale ad ogni livello, e di questa Rivoluzione illustreremo un altro tassello in un prossimo intervento.

*[Il prof. Rubino è docente all’Unical]

INDUSTRIALI DUBBIOSI SULLA RIPARTENZA
IN CALABRIA CRESCITA SOLTANTO DELL’1%

Il 2020 è stato un anno difficile per il Mezzogiorno, sopratutto per la Calabria che, nell’anno della pandemia, ha ‘collezionato’ dati davvero preoccupanti, tratteggiando un quadro desolante, che dovrebbe far capire che è necessaria una svolta per far ripartire la regione e una terra che deve essere valorizzata, non distrutta.

A chiudere questo 2020, sono i dati di Confindustria con il Check-up Mezzogiorno sulla congiuntura del 2020 elaborato con il Centro studi Srm (Intesa Sanpaolo), che indicano, per il Mezzogiorno, per il 2021-2020, una ripresa debole (+1,2% e +1,4%) contro il +4,5% e +5,3% del Centro Nord; mentre gli effetti della pandemia sul Pil – Prodotto Interno Lordo sono meno pronunciati (-9%) contro il -9,8% del Centro Nord.

«Alcune variabili evidenziano, però – si legge nel rapporto – anche una capacità di “resilienza” dell’economia meridionale, sulla quale puntare la ripresa, accelerando l’impiego delle risorse Ue già disponibili e di quelle programmate già dall’anno prossimo».

Per quanto riguarda l’andamento dell’occupazione, è stato riportato che «la ripresa produttiva del terzo trimestre 2020 non è riuscita a compensare il calo rispetto allo stesso periodo del 2019, diffuso in tutta la Penisola ma particolarmente significativo al Sud (-2,2% ovvero 135 mila occupati in meno), con variazioni negative più consistenti in Calabria (-7,8%) e Sardegna (-7,5%)».

DatiIn Calabria, infatti, per quanto riguarda le imprese attive per settore di attività, il settore manifatturiero registra un calo (-0,8%) insieme alla Sardegna (-0,7%).

Nonostante le misure adottato dal Governo abbiano migliorato la liquidità, invertendo la tendenza regressiva in atto fino a dicembre 2019 degli impieghi creditizi, riportandoli a giugno 2020 ai livelli di un anno prima, si registra un peggioramento nel ritardo dei pagamenti delle Pmi delle imprese nel Mezzogiorno, dove la Calabria registra la percentuale più alta (15%), seguita dalla Sicilia (18%). Il ritardo dei pagamenti delle Pmi delle imprese del Mezzogiorno, infatti, «che nel terzo trimestre 2020 raggiunge un livello quasi doppio del dato medio nazionale rispetto allo stesso periodo del 2019, con un incremento della quota di imprese del Sud che superano i 60 giorni di ritardo di oltre il 50% rispetto al dato di un anno prima (dall’8% al 12,4%)».

«Sulle politiche di coesione – si legge nel Rapporto – si registra un risultato positivo sulla certificazione della spesa dei Fondi strutturali, necessaria per scongiurare il rischio di disimpegno automatico e, quindi, la perdita delle risorse impegnate. A ottobre, l’Italia ha certificato 16,3 miliardi, pari al 90% delle risorse da spendere; il Sud c’è andato vicino, certificando l’87% delle risorse dei Por, con risultati migliori sul Fesr di Abruzzo e Campania e sul Fse di Basilicata, seguite dalla Calabria, che per l’emergenza sanitaria ha stanziato 140 milioni di euro per l’emergenza sanitaria; 45 per istruzione e formazione; 180 milioni per le attività economiche; 100 milioni per il lavoro, 35 milioni per il sociale, per un totale di 500 milioni di euro.

«La riallocazione delle risorse sui Por – si legge nel Rapporto – del Mezzogiorno non ha penalizzato gli interventi a sostegno delle imprese, tuttavia quella finalizzata a fronteggiare l’emergenza sanitaria è stata meno consistente nel Mezzogiorno e, pur essendo coerente con il minore impatto della pandemia all’atto della sua definizione, questa scelta ma non si è dimostrata previdente rispetto ai suoi successivi sviluppi».

«Tuttavia – si legge ancora – c’è la possibilità concreta e immediata di intervenire sull’emergenza sanitaria, sui suoi impatti indotti dalla nuova fase pandemica e sul sostegno alla transizione delle imprese per una nuova politica di sviluppo del Mezzogiorno. Oltre alla prospettiva del Pnrr e all’avvio del nuovo ciclo di programmazione 2021-2027, l’iniziativa React Eu, con i suoi circa 10 miliardi già disponibili per il 2021 e la possibilità di compensare spese fino al 100% sostenute a partire da febbraio 2020, rappresenta un’occasione da non perdere».

«A tal fine – conclude il rapporto di Confinfustria e Srm – occorre accelerare il processo di programmazione, coinvolgendo il partenariato economico e sociale a livello nazionale e regionale, operando in continuità coi Programmi operativi 2014-2020 e privilegiando i Por rispetto ai Pon, per rafforzare l’azione di resilienza e di ripresa a livello territoriale».

A ribadire che quello presentato dal rapporto Check Up Mezzogiorno è un quadro preoccupante, è l’eurodeputato Vincenzo Sofo, che ha sottolineato che «il prezzo più alto di questa crisi sanitaria, come si evince dal calo nel 2020 delle esportazioni del Mezzogiorno del 15,6% (contro il 12,2% del Nord) e dalle previsioni di crescita per il 2021 e il 2022 che per il Nord saranno approssimativamente del 4-5% mentre per il Sud soltanto di circa l’1%».

«Ma – ha aggiunto – il dato più agghiacciante riguarda la Calabria che quest’anno a causa della pandemia è stata vittima di un crollo dell’occupazione di quasi l’8%, peggior dato d’Italia. Ecco perché è assolutamente necessario convincere il premier Giuseppe Conte ad aumentare la quota di investimenti del Recovery Fund destinata al Sud e in particolare al territorio calabrese, che già prima del Covid era tra quelli con più disoccupazione d’Europa».

«Mi rivolgo, dunque – ha concluso Sofo – ai governatori meridionali e in particolar modo al presidente f.f. Nino Spirlì, affinché ingaggino con forza questa battaglia che è sì territoriale ma per il futuro di tutta la Nazione».

«Se crolla il Sud – avverte l’ex assessore regionale al Bilancio Mariateresa Fragomeni, oggi candidata sindaca a Siderno – crolla il Paese. Il PIL che precipita del 9%, e una previsione di ripresa nel 2021-2022 del +1,2% e +1,4%, molto al di sotto delle regioni del centro-Nord; una contrazione dell’export del -15,6%; 135mila posti di lavoro in meno: questa fotografia del Mezzogiorno e della sua economia evidenzia la gravità degli effetti recessivi della pandemia su un territorio già storicamente debole, da tutti i punti di vista». La Fragomeni sottolinea quanto sia importante, praticamente vitale per il futuro del Sud, agganciare l’occasione delle risorse previste dal piano Next Generation Eu, che dall’Europa arriveranno all’Italia, e della scelta dei progetti prioritari da realizzare. Un’occasione unica, che il Sud non può perdere e la possibilità concreta di colmare il gap che esiste da sempre con il resto del Paese, intervenendo non soltanto sull’emergenza sanitaria, ma anche su infrastrutture, tecnologia, istruzione, sostegno alle imprese. Per raggiungere finalmente una nuova politica di sviluppo del Mezzogiorno che faccia da volano anche per il futuro dell’intero Paese.

«Per questo – ha concluso – confidiamo che si raggiunga al più presto l’accordo su un’equa distribuzione delle risorse del piano Next Generation Eu, riguardo alle quali è già in moto e da tempo, un acceso e duro confronto. E che siano soltanto “voci di corridoio” quelle che riguardano l’eventuale sottrazione di parte dei fondi, diversamente distribuiti, che la cosiddetta “decontribuzione Sud”, introdotta in via sperimentale da ottobre a dicembre dal decreto Agosto e fino al 2029, destina invece al sostegno delle imprese e dell’occupazione nel Mezzogiorno.
Sarebbe un grave danno non solo per il Sud, ma per l’Italia tutta, poiché la questione meridionale rappresenta una priorità per l’intero Paese». (rrm)

IL REPORT DI CONFINDUSTRIA-SRM