IL GRAVE DISINTERESSE DELLA POLITICA
CHE NON SI CURA DI DISABILITÀ E DISAGIO

di GIUSEPPE FOTI – La politica, nel compimento del proprio mandato, dovrebbe agire concretamente per il proprio territorio e cercare di risolvere i problemi, soprattutto dove il disagio rende la vita delle persone non dignitosa.

Questo semplice, ma allo stesso tempo complesso concetto, mette a nudo nient’altro che il fallimento di un fare politica dove vige una rigida e crescente mentalità mercantile o paternalistica che non riconosce i diritti e la loro dignità. Tutto ciò che non produce dev’essere escluso o rinchiuso a beneficio della società del consumo o dei privilegiati. A tal proposito viene spontaneo ricordare che l’identità è una questione sociale e ce la dà il riconoscimento degli altri indistintamente e senza pregiudizi. Non sicuramente l’indifferenza!

Volendo andare al nocciolo della questione, devo ricordare che nel territorio esistono realtà sociali, che nel bene e nel male e con risorse sempre più esigue, si occupano di disagio e disabilità da anni. Queste realtà, fatte di uomini e donne, cercano come meglio possono di dare conforto alla sofferenza di tante persone e, allo stesso tempo, un servizio che li possa sostenere ed accompagnare nel loro fragile percorso di vita. Non ci reputiamo assolutamente infallibili o non migliorabili, ma con scarpe di cartone e armi spuntate, in trincee esistenziali fangose, da decenni facciamo costantemente il massimo per i più disagiati.

Questo in un vuoto istituzionale abissale, dove si registra un’amministrazione comunale inadempiente da sei mesi nel pagare i centri socio educativi per minori, e chissà quanti altri, e una Regione che ancora non si è pronunciata sul destino di tanti lavoratori delle strutture psichiatriche del territorio. Ci sono operatori, come me, che prendono a cuore queste situazioni e si battono costantemente ed ostinatamente per chiedere giustizia. Vorrei anche spiegare il perché, con tutta l’umiltà possibile, portando ad esempio un’esperienza vissuta che potrebbe sembrare banale ad occhi poco attenti e che non è conosciuta, perché lavoriamo nel silenzio e a servizio, nel termine più nobile, dei nostri cari amici (utenti come li chiamano gli altri). 

In questi giorni ho svolto un’uscita con alcuni pazienti, iniziativa che fa parte di tante altre, e abbiamo visitato il centro cittadino e alcuni locali dello stesso. Va specificato che i luoghi di vita sono “laboratori sociali” nei quali i pazienti possono sperimentare relazioni, anche se occasionali, dove possono rievocare ricordi e dove fare riaffiorare un sentimento di appartenenza che la società dei privilegiati e dei cosiddetti “normali” gli impedisce, perché li considera solo malati. Inutile sottolineare che i ragazzi (i pazienti per gli altri) hanno più che mai dimostrato di essere dotati di qualità umane che solo chi ha avuto una condizione di sofferenza, con la sua dignità e con la sua libertà ferita, può possedere.

Il pensiero, ammettendo che sto semplificando argomenti molto complessi, è quello che il mestiere della cura è essere disposti a maneggiare l’incertezza e la pazienza, con rispetto, vicinanza e ascolto; cosa che la politica, attenta ai numeri e non alle persone, ha dimostrato di non capire. Solo se in noi non viene meno questa arcana ricerca di una “comunione di cura e destino” avremo la capacità di uscire dalla nostra individualità e dal nostro egoismo che, in questi tempi, prevale in ogni ambito della vita sociale e istituzionale.

Nel campo della sofferenza, lasciare l’altro al suo destino, vuol significare abbandonarlo ad una deriva esistenziale… Una violenza di un totalitarismo che ci rende disumani e che la politica dovrebbe scongiurare con ogni mezzo.

La priorità, di chi lavora nel sociale, è mantenere vive queste realtà, queste esperienze e questi valori, ma il tempo non è nostro amico, ancor meno la politica, pur volendo ancora rimanere garantista. Si rischia di chiudere e sparire nel silenzio se non si interviene… Capitelo se non è chiaro!

Mi rendo conto che un articolo non può descrivere brevemente l’importanza di certi argomenti, ma sento ugualmente il bisogno di provarci e di non chiudermi nel silenzio che non è altro che complicità a un disastro di proporzioni epocali. Magari la domanda che dovreste porvi è: cosa c’è in questa società che non funziona e perché l’alienazione sociale è predominante?  Rafforzare i servizi che si occupano di questo e non abbandonarli o farli chiudere… Potrebbe essere una probabile risposta e soluzione.

La salute non è una merce, ma è un diritto che non può sottostare a tempi e regole di mercato, di profitto o burocratiche, tutte cose che non guardano i bisogni reali delle persone.

Il messaggio tempestivo che la politica dovrebbe dare è sicuramente quello di dare risposte certe ai tanti problemi, non soffermandosi solo alla propaganda. Tenendo bene a mente che investire nel sociale è allo stesso tempo curare la società e agire dove si origina la sofferenza e il disagio, quindi l’impegno inteso come responsabilità comune è imprescindibile. (gf)

[Giuseppe Foti è operatore sociale di Reggio Calabria]

SONO INVISIBILI I BAMBINI ABBANDONATI
PERCHÉ NON M’AVETE DATO UNA FAMIGLIA?

di MARIO NASONE – Francesca, nome di fantasia, in un convegno di qualche anno fa è intervenuta  dicendo  “da pochi mesi ho compiuto diciotto anni, sono stata da piccola in un Istituto, in tutti questi anni non ho mai visto un giudice o un assistente sociale”, per concludere  con una domanda inquietante che ha gelato l’assemblea dei partecipanti: “perché non mi avete dato una famiglia”?

Da allora poco o niente è cambiato e sono tantissimi i minori  come Francesca che vivono nei centri residenziali una sorta di limbo in attesa che qualcuno si occupi di loro.

Secondo i dati di Save The Children i tempi di permanenza di un minore in Istituto in Calabria è di quattro anni a fronte di uno a livello nazionale e spesso con l’aumentare dell’età  si passa da un istituto all’altro, ormai difficilmente adottabili, fino ad arrivare a diciotto anni senza potere nemmeno contare sull’assistenza da parte della Regione, praticamente in mezzo alla strada.

Se poi hanno delle patologie non hanno praticamente speranza di avere una famiglia. I minori in Calabria sono doppiamente abbandonati, a livello informativo perché non ci sono dati su quanti sono e sulla loro condizione.

La Calabria non ha mai attivato l’osservatorio regionale sull’infanzia e l’adolescenza previsto dalla legge nazionale n. 451 /97, sappiamo solo che sono circa centomila i minori a rischio povertà, almeno cinquecento quelli che vivono fuori della famiglia (a cui aggiungere i tantissimi che vivono in famiglie multiproblematiche che avrebbero bisogno di un affiancamento come le madri sole)  ma non conosciamo la loro condizione, i servizi che sono stati attivati. Soprattutto sono abbandonati perché manca un piano regionale per l’infanzia in grado di intercettare e dare risposte ai loro bisogni correggendo anche alcuni squilibri che vedono zone con più servizi ed altre come la Locride, la Piana di Gioia Tauro sprovvisti.

Gravissima è la mancata attivazione di una rete di neuropsichiatria infantile e di comunità per minori con disturbi psichiatrici nonostante il grido di allarme che da anni lanciano i Tribunali per i minorenni.

L’attuale Giunta regionale ha varato alcuni interventi settoriali  ma manca un approccio organico, tra politiche sociali e sanitarie, in grado di potere iniziare a sperimentare un modello di Welfare efficace per minori e famiglie. Tra le conseguenze anche un calo vertiginoso delle nascite che vede la Calabria tra le regioni più colpite. Dentro questo scenario una risposta nel panorama dei servizi da attivare potrebbe venire dall’affido almeno per venire incontro ad una parte di questo disagio diffuso.

A quarant’anni dalla legge 184 dell’1983 sul diritto alla famiglia di ogni minore, a 22 anni dalla legge 149 del 2001 che decretava la chiusura definitiva degli istituti per i minori si sta vivendo in tutto il Paese una fase di messa in discussione o comunque di ripensamento del sistema di tutela dei minori in condizioni di disagio che rischia di essere affrontata in modo ideologico e superficiale.

Uno scenario che vede cambiata la domanda di affido che non è scomparsa. Cresce infatti anche in Calabria,  su tutti i fronti, il bisogno di accoglienza e di solidarietà di bambini, ragazzi e famiglie in difficoltà con i  processi di desertificazione delle relazioni di prossimità che lasciano scoperte e prive di sostegno fasce di popolazione sempre più ampie. Aumentano su tutti i fronti le solitudini a cui la nostra società  espone, con grave danno per le persone più deboli: anziani soli, persone con disabilità prive di supporti familiari, madri sole con figli minorenni, bambini e ragazzi con genitori in difficoltà, etc.

Per i  bambini e i ragazzi calabresi che hanno bisogno di accoglienza e di solidarietà non mancano le famiglie disponibili anche per i cosiddetti bambini con bisogni speciali  L’affidamento familiare è una famiglia in più per i bambini e diventa la migliore terapia soprattutto nelle situazioni più gravi.

Quando abbiamo accolto Patrizia, bambina down, soffriva di una grave situazione sanitaria che stava mettendo a rischio la sua stessa esistenza. Ci ha fatto vivere momenti di grande preoccupazione, a grazie alla grande professionalità di amici medici li abbiamo superati. Gli stessi che alla fine hanno commentato che il merito della sua guarigione non era stato tanto quello delle cure ricevute, ma soprattutto della voglia di vivere di Francesca e di tutto l’amore ricevuto dalla famiglia che l’aveva accolta.

Per questo l’esperienza dell’affido, che negli ultimi quaranta anni ha salvato migliaia di bambini dall’abbandono deve continuare in tutto il nostro Paese, soprattutto nelle zone del Mezzogiorno come la Calabria dove le povertà minorili materiali ed educative sono più diffuse. Una straordinaria esperienza di accoglienza da diffondere e proporre alle famiglie italiane anche come antidoto alla cultura imperante della indifferenza e della paura.

Le famiglie potenzialmente disponibili ci sono ma non vanno lasciate sole, vanno formate ed accompagnate da servizi e dalle associazioni. Con un ruolo importante anche delle Chiese locali che si devono interrogare di più anche su queste sfide.

Una nota di speranza per un possibile cambiamento di rotta è venuto dalla decisione alle più importanti associazioni che si occupano di minori di mettersi in rete, quelle le stesse che hanno presentato ai candidati a Governatore della Calabria dei documenti e delle proposte puntuali che riprendono le questioni più importanti su minori e famiglie, impegni che sono state sottoscritte anche dal Presidente Roberto Occhiuto.

Tutti dicono che i fondi ci sono grazie anche al PNRR: ci sarà finalmente  la volontà politica di procedere? Il mondo del terzo settore è in grado di co-progettare con Regione e Comuni ma il tempo è scaduto e i minori e le famiglie che fanno fatica sono stanche di spot elettorali o di scaricabarile tra le varie istituzioni e chiedono segnali concreti di cambiamento. (man)

Disagio sociale, per Mario Caligiuri «Può esplodere se il Pnrr non sarà efficace»

di FRANCO BARTUCCI – «Il disagio sociale può esplodere se il Pnrr non sarà efficace». Lo ha sostenuto il prof. Mario Caligiuri, Presidente della Società Italiana di Intelligence, nel corso di una sua lezione nell’ambito del Master su l’Intelligence in corso di svolgimento all’Università della Calabria.

Il docente ha esordito affermando che «il compito dell’intelligence è di prevedere quanto può accadere. Pertanto il tema del disagio sociale potrebbe essere prioritario nelle attività dei Servizi». Ricordando come questo fenomeno sia presente da tempo e in maniera diffusa nella società, Caligiuri ha analizzato la questione collegandola non solo alla sicurezza nazionale ma anche allo scenario digitale, in quanto «viviamo contemporaneamente in tre dimensioni: fisica,  virtuale e aumentata; questa ultima intesa come integrazione tra uomo e macchina che estende le possibilità dell’umano».  

Citando il recente rapporto dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale Il mondo che verrà 2022, Caligiuri ha evidenziato come il tema della disuguaglianza stia progressivamente crescendo con la globalizzazione e in Italia più che altrove, tanto che il divario di reddito tra il 10% più ricco e il 10% più povero ha raggiunto il rapporto di 11 a 1, superiore alla media internazionale.

Riprendendo il saggio di Yves Mény “La nuova e vecchia rabbia”, Caligiuri ha illustrato come la storia sia caratterizzata dall’avvicendarsi di periodi di pace e di momenti sanguinosi, in quanto la violenza è insita nello sviluppo umano. I miglioramenti sociali sono stati il risultato, secondo Mény, di violenze e disordini oppure sono stati il premio ad eventi traumatici, come i diritti sociali ottenuti dopo le due guerre mondiali. 

Il docente ha poi esaminato le principali cause che contribuiscono alla formazione del disagio sociale. Tra queste vi sono l’inarrestabile immigrazione collegata con il declino demografico, la perdita di potere di acquisto dei cittadini occidentali, la trasformazione del lavoro con l’affermarsi di quello precario su quello stabile, l’impatto sconvolgente dell’intelligenza artificiale e la società della disinformazione, della quale le fake news rappresentano l’esempio meno pericoloso, poiché la vera disinformazione proviene dalla propaganda di Stato e dalla comunicazione istituzionale.

Ha quindi spiegato che la società della  disinformazione si caratterizza per la dismisura delle informazioni da un lato e per il basso livello di istruzione sostanziale dall’altro, determinando un corto circuito cognitivo che allontana le persone dalla comprensione della realtà.

«La pandemia – ha precisato – rappresenta la materializzazione della società della disinformazione, con l’evidenza dei no vax che, senza entrare nel merito, sono in ogni caso la manifestazione evidente del crescente disagio sociale».

In merito all’intelligenza artificiale, ha evidenziato che sarà destinata a sostituire molte professioni, sia ripetitive che intellettuali. Caligiuri ha citato uno studio del Dipartimento del Lavoro statunitense secondo il quale il 64% delle persone che si iscrivono adesso nelle scuole, una volta terminati gli studi, svolgeranno una professione che ancora non è stata inventata. Ha quindi proseguito sostenendo che «non abbiamo ancora sviluppato una coscienza dell’intelligenza artificiale, poiché manca la consapevolezza delle conseguenze dell’intelligenza artificiale, che è prevalentemente in mano ai privati».

Successivamente ha illustrato il disagio esistenziale, che proviene da lontano, sottolineando come si stia assistendo a una dilatazione del disagio nella società, tanto che aumentano i disturbi psicologici e psichiatrici.

«Il disagio sociale reale – ha poi spiegato – si evidenzia e si espande anche a livello  digitale ed ha marcati risvolti sociali e politici. Gli esempi sono numerosi come le controverse Primavere arabe, i tentativi di condizionamento elettorale in numerose nazioni, le rivelazioni di Wikileaks che dimostrano lo scarto tra dichiarazioni ufficiali dei governi e comportamenti reali, il terrorismo che viene amplificato dalla Rete come dimostra il caso dell’Isis, il protagonismo della criminalità nel web con i crescenti crimini informatici».

«Occorre – ha sottolineato – un sistema che tuteli il diritto dei cittadini alla sicurezza, concetto ampio che comprende non solo la sicurezza fisica intesa come controllo dei confini, ma anche quella sociale, alimentare e sanitaria. In tale scenario l’attività di intelligence orientata alla sicurezza diventa ancora più rilevante».

Caligiuri ha infine esaminato il contesto italiano, ricordando come un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni non studia e non lavora, determinando un costo annuo per la società nazionale di circa 36 miliardi di euro. Il docente ha poi esposto che «prima della pandemia più di un quinto dei nostri connazionali aveva difficoltà a pagare le spese mediche e più di cinque milioni e mezzo, negli ultimi tre anni, si sono indebitati per pagare le spese sanitarie. Tali indicatori rappresentano un malessere economico strutturale. A questo si deve aggiungere la disoccupazione giovanile, molto elevata nelle regioni meridionali, che alimenta le mafie». 

Soffermandosi sulla dimensione digitale, ha ribadito la necessità di una cyber education che deve essere intesa come uno strumento decisivo da insegnare obbligatoriamente nelle scuole, poiché «la forza maggiore di una nazione è rappresentata da una cittadinanza istruita». 

Infine, Caligiuri ha ribadito che il disagio sociale potrebbe essere utilizzato come paradigma interpretativo della realtà contemporanea, in quanto costituisce la manifestazione più evidente della crescente disuguaglianza globale. Pertanto, ha affermato il docente, «se il disagio sociale diventasse fuori controllo potrebbe rappresentare un problema fondamentale di sicurezza nazionale, poiché potrebbe avere grave ripercussioni sulla credibilità e sulla stabilità delle istituzioni, richiedendo pertanto la necessaria attività preventiva dell’intelligence».

«Molto dipenderà – ha concluso – dal reale impatto delle misure del PNRR, augurando che non si risolva in propaganda e distrazione di massa, perché rappresenta l’occasione per realizzare interventi concreti e strutturali, soprattutto nelle regioni meridionali». (fb)