di SANTO STRATI – Un bollettino ufficiale della Regione corretto di corsa tarda sera, dove – ops! – si scopre che i ricoverati in terapia intensiva sono solo dieci e non 26. Ma come si può tollerare che avvengano errori di questo genere che sconvolgono la valutazione che sta alla base delle decisioni sul lockdown regionale? Di fatto, la Calabria è stata dichiarata ieri sera in diretta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte “zona rossa”: un provvedimento più a titolo cautelativo che dettato dalla situazione dei contagi che sono ancora abbastanza limitati rispetto ad altre parti d’Italia. E in più ogni giorno di più registriamo norme arruffate e confuse, dpcm che si susseguono senza che nessuno cerchi di omogeneizzare le disposizioni con chiarezza per non far cadere nello sconforto gran parte della popolazione. C’è comunque una categoria che nello sconforto vive ormai dal 10 marzo scorso, dall’inizio del primo lockdown: quella dei cosiddetti invisibili e degli esclusi, ovvero tutti coloro che non rientrano tra i provvedimenti di ristoro delle perdite e di aiuto finanziario perché il loro codice Ateco (la classificazione burocratica delle categorie produttive) non figura nei provvedimenti del Governo. E non parliamo di invisibili riferendoci a quanti fanno lavoro in nero (e sono ugualmente tanti e lasciati, anche loro, alla più totale disperazione per cercare vie di sopravvivenza), ma di imprenditori e lavoratori autonomi che pagano le tasse, versano i contributi, occupano dipendenti. Semplicemente, come per gli “esclusi”, poiché il loro codice Ateco non è tra quelli previsti non hanno beccato un centesimo di aiuto e non lo riceveranno neanche adesso, alla vigilia dell’inevitabile (sperando parziale) lockdown. In altre parole, la burocrazia vince ancora una volta sul buon senso e i provvedimenti via via varati rivelano che a compilare i vari dpcm (mica li scrive il premier Conte) siano algidi funzionari che vivono in un’altra realtà, non conoscono le dinamiche dell’economia reale, ignorano totalmente come funziona la filiera produttiva in Italia.
Quando si bloccano, per esempio, i locali per i ricevimenti (abitualmente destinati ai ricevimenti nuziali) non si ferma solo l’attività del gestore del locale che, in ogni caso, ha dipendenti (cuochi, camerieri, lavapiatti, etc) e fornitori da pagare, ma si elimina ogni forma di reddito a chi produce e confeziona bomboniere, a parrucchieri, fotografi, fiorai, tipografi (le partecipazioni), musicisti e via discorrendo. Si chiama filiera, ma i nostri diligenti funzionari di Palazzo Chigi, probabilmente, lo ignorano. E lo stesso discorso vale per il bar, il ristorante, la pasticceria, la pizzeria a taglio: per ognuno di loro c’è un esercito di “invisibili” che non ha alcuna tutela. I menu da stampare, la manutenzione dei registratori di cassa, di frigoriferi e attrezzature, fiorai (per chi fa trovare un apprezzato fiore reciso nel minivaso sul tavolo), le agenzie di pubblicità che producono biglietti e volantini, agenti di commercio, etc.
Insomma, nel momento in cui il Governo decide – come ha fatto nella prima fase della pandemia – di chiudere e fermare le attività lavorative, deve necessariamente provvedere a ristorare, prima di imporre le chiusure, le perdite a tutti coloro che le subiscono. E quando si dice tutti si deve intendere tutti non solo quelli individuati dal codice Ateco. L’esperienza dei mesi marzo/aprile è stata davvero infelice, anzi diciamo meglio, disastrosa. E, purtroppo, il Governo sembra intenzionato a proseguire su questa strada, dimenticando per strada migliaia e migliaia di imprese e di lavoratori. L’esecutivo continua a rassicurare che gli aiuti «arriveranno a tutte le categorie interessate dalle misure restrittive» ma ha stanziato appena 50 milioni come fondo d’emergenza, pur avendo a disposizione 20 miliardi di extradeficit che non sono stati ancora utilizzati. Ebbene, il dl Ristori ha individuato 53 codici Ateco che devono ricevere gli aiuti, dimenticando chi magari, ha più bisogno degli altri: quella massa, appunto, di invisibili ed esclusi che, per intenderci, valgono qualcosa vicina a qualche decina di miliardi di fatturato aggiuntivo. Quindi, oltre al danno della cessazione forzata dell’attività si deve aggiungere la beffa di non poter contare neanche su un centesimo di aiuto. Si sono dimenticati completamente degli ambulanti e dei rappresentanti di commercio che sono rimasti praticamente fermi: niente bancarelle, niente ordini da trattare, ricevere, trasmettere alle aziende fornitrici. Un esercito di gente che lavora sulla propria pelle e che, molto spesso, non ha nemmeno coperture previdenziali e assicurative contro le malattie. Come si può tollerare tutto ciò?
Hanno promesso dal Governo che i soldi questa volta arriveranno “subito” (a partire dal 15 novembre), ma i più smaliziati sono già rassegnati ad aspettarsi il solito balletto di rito, col rimpallo delle responsabilità, senza che nessuno provveda a interrompere lo scempio. Servono soldi veri, non promesse né crediti di imposta (su quali tasse se l’attività non opera?), occorre una seria politica di intervento a favore di tutte le categorie coinvolte nelle chiusure obbligate: lo chiamino lockdown o come diavolo meglio credano, ma i nostro governanti non possono immaginare di ripetere l’insulso copione dei mesi primaverili. La lezione non è servita, non hanno imparato nulla e, anzi, la situazione rischia di diventare esplosiva non soltanto dal punto di vista sanitario, ma soprattutto sul piano sociale. C’è una sorta, perversa, di “induzione alla povertà” nei provvedimenti fin qui varati: si premia chi chiude e manda a casa i dipendenti (prende di più) rispetto a chi, ad ogni costo, tiene duro e cerca di superare la burrasca (prende di meno): è una politica di suicidio assistito delle aziende che non porterà a niente di buono, perché, nel momento in cui, cessano le attività finiscono anche le entrate dello Stato, questo è evidente. Eppure si continua a ipotizzare una distribuzione di “elemosine” a imprenditori coraggiosi che hanno investito nella propria attività, hanno creato ricchezza sul territorio, hanno offerto occupazione e benessere, e pagano tasse e contributi. A questi operatori viene negato ogni aiuto, a partire dal famoso decreto liquidità che le banche hanno utilizzato a proprio piacimento, negando il credito ad aziende che avevano bisogno di superare la crisi o dilatando oltre ogni ragionevole sopportazione i tempi di valutazione ed erogazione. Già perché, nonostante la crisi, in banca si continua a parlare di “valutazione” del rischio, nonostante i prestiti (ricordiamoci che sono prestiti, non sono soldi che non andranno restituiti) siano interamente garantiti dallo Stato. Significherà pure qualcosa che a fronte del tetto massimo di 30 mila euro “subito” l’erogazione media non non ha mai superato i due terzi, ovvero sempre al di sotto dei 20mila, perché i burocratici conteggi in percentuale previsti per accedere al credito non hanno tenuto conto che il 2019 non è stato un anno brillante.
E, invece, l’aiuto previsto a fondo perduto (soldi da non restituire) non basta a mantenere in piedi un’attività che già è stata duramente messa alla prova dai 70 giorni di lockdown primaverile. E, come se non bastasse, ricordiamoci quanto hanno speso i vari ristoratori, esercenti di bar e pasticceria, i negozianti, per dotarsi dei dispositivi di distanziamento imposti dai vari dpcm; per la fortuna delle aziende che lavorano il plexiglas e producono il gel antibatterico o altri dispositivi: divisori trasparenti, separé per dividere i tavoli, adeguamenti igienici e dispensatori di gel. C’è chi ha fatto miracoli di architettura, tagliando posti a sedere, pur di garantire il servizio ai clienti e cercare di tenere in piedi l’attività e, soprattutto, non mandare a casa alcuno dei dipendenti. A questi imprenditori, con una faccia tosta da politico navigato, il presidente Conte, a nome dell’esecutivo che guida ha detto semplicemente «abbiamo scherzato», neanche fosse una partita a poker. Qui si sta giocando, però, col futuro di centinaia di migliaia di persone, da cui dipendono molte altre centinaia vite e famiglie, che improvvisamente si ritrovano senza lavoro e senza reddito. Non basta indignarsi, le Regioni devono battere i pugni sul tavolo, ma la terza Camera dello Stato (la conferenza Stato-regioni è chiaramente schierata contro il Mezzogiorno e la Calabria sconta più di tutti un divario ormai sempre più incolmabile nei servizi, nella sanità, nell’occupazione, nello sviluppo).
Allora c’è solo da immaginare un colpo d’ala, un cambiamento repentino di rotta, dove le valutazioni su chi bisogna aiutare non siano affidati a una ricerca sul database delle attività codificate dall’Ateco, bensì siano frutto della ragionevolezza e del contributo di idee di chi vive ogni giorno le difficoltà del mondo produttivo: Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato possono fornire le cifre reali del disagio di quanti si ritrovano, dalla sera alla mattina, privati della loro dignità di lavoratori e di un reddito sudato giorno dopo giorno. Siamo in guerra con un nemico insidioso e che non solo distrugge vite umane, ma sta minando l’intero impianto della società civile e dei suoi attori principali, i lavoratori, siano essi dipendenti o imprenditori, la barca è in comune per tutti: senza aiuti reali, immediati e concreti, non si va da nessuna parte. E pensare che i soldi ci sono, il Governo è autorizzato sforare il deficit per salvare il Paese. Probabilmente sarebbe utile un “gabinetto di guerra” con la partecipazione di tutti: maggioranza e opposizione per prendere coraggiosi provvedimenti per fermare la nuova povertà che avanza a ritmi spaventosi e salvare il Paese da un disastro che appare comunque evitabile. Ma a Palazzo Chigi e dintorni, nei Palazzi del potere, non si decide, si impone, come se i cittadini fossero improvvisamente diventati. sudditi cui infliggere persino lo stato di “schiavitù” intellettuale: è questo il problema, oggi, del Paese. Non abbiamo governanti, ma dilettanti allo sbaraglio che si muovono per improvvisazione e qualunque cosa facciano producono danni, perché non cercano e soprattutto non ascoltano le competenze e le capacità che sicuramente non mancano in un Paese che sta smarrendo se stesso, irrimediabilmente. (s)
Nella foto di copertina: lo speciale dedicato da Mattino 5 ieri mattina alla situazione della sanità in Calabria. A destra il prof. Raffaele Bruno infettivologo calabrese del San Matteo di Pavia, il prof. Matteo Bassetti del San Martino di Genova e dott. Antonio Talesa responsabile del 118 calabrese durante il collegamento su Canale 5