L’EDUCAZIONE COME ATTO DI RESISTENZA
IN CALABRIA: UNA QUESTIONE DI GIUSTIZIA

di ANGELO PALMIERI – La Calabria continua a presentare un quadro preoccupante sul fronte della fragilità formativa, con indicatori che si discostano significativamente dalla media nazionale. Secondo i dati Invalsi 2023, oltre il 20% degli studenti del primo ciclo non raggiunge i livelli minimi di competenza in italiano e matematica, segnalando gravi criticità nei processi di apprendimento e inclusione.

Ancora più allarmante è il dato relativo ai giovani Neet: nel 2023, il 27,2% dei calabresi tra i 15 e i 29 anni risulta fuori da percorsi di istruzione, lavoro o formazione, con uno scarto di oltre 11 punti percentuali rispetto alla media nazionale. L’abbandono scolastico precoce, nel Mezzogiorno, coinvolge il 14,6% dei giovani tra i 18 e i 24 anni, evidenziando un’incapacità sistemica di trattenere i ragazzi nei percorsi formativi. A tutto ciò si aggiunge la cronica carenza di servizi per la prima infanzia: la copertura regionale per la fascia 0–2 anni si ferma al 4,6%, a fronte di una media nazionale del 16,8% e di un obiettivo europeo fissato al 33%. Questi dati, intrecciati tra loro, disegnano la mappa di una zona grigia dell’anima collettiva, dove il sapere svanisce e la speranza si assottiglia, mentre l’esclusione diventa destino e non eccezione.

Territori interni: tra isolamento e resistenza educativa

Le aree interne rappresentano l’epicentro di questa emergenza. Molti piccoli comuni calabresi, in particolare quelli montani o a bassa densità abitativa, presentano condizioni particolarmente critiche in termini di accesso all’istruzione e tenuta dei servizi educativi. Per esperienza diretta, avendo operato come sociologo e progettista sociale nella Diocesi di Cassano all’Ionio, posso confermare quanto questa fragilità sia evidente in realtà come Alessandria del Carretto, Nocara, Albidona, San Lorenzo Bellizzi, Morano Calabro e Mormanno.

Si tratta di comuni collocati in aree interne, spesso nel cuore del Parco Nazionale del Pollino, caratterizzati da isolamento geografico, bassa popolazione e progressivo spopolamento giovanile. In questi contesti, la scuola rischia di perdere non solo la funzione educativa, ma anche quella simbolica e comunitaria, aggravando la già critica povertà educativa. In questi stessi luoghi, tuttavia, emergono anche pratiche educative resistenti, nate dalla cooperazione tra scuola, comunità e territorio.

Le alleanze educative come strategia di tenuta e rilancio

Di fronte a una tale complessità, appare sempre più evidente che il contrasto alla povertà educativa non può essere affidato alla sola scuola. Serve una visione integrata, fondata su una logica di alleanza educativa territoriale, capace di mobilitare risorse comunitarie, competenze diffuse e nuovi attori sociali. Nel contesto calabrese, questa alleanza deve avere una doppia direzione: orizzontale, per costruire reti tra scuola, terzo settore, famiglie, istituzioni locali; e verticale, per colmare la distanza tra politiche nazionali e bisogni locali, promuovendo un modello di governance partecipata.

In questa prospettiva, le comunità educanti non sono un’utopia, ma una possibilità concreta, già sperimentata in alcune realtà della regione dove le scuole sono riuscite a sopravvivere grazie al sostegno di associazioni, cooperative sociali, parrocchie e cittadini attivi. Un esempio emblematico di alleanza educativa orizzontale nel contesto calabrese è rappresentato dal progetto “L’appetito vien studiando”, promosso dalla Caritas della Diocesi di Cassano all’Ionio. Attivo dal 2016, è stato avviato grazie ai fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica e rappresenta una risposta concreta al rischio di dispersione scolastica e di isolamento educativo in un contesto segnato da gravi vulnerabilità educative.

Questa iniziativa nasce dalla visione profetica del vescovo Francesco Savino, guida inquieta e innamorata del suo gregge, che ha intuito fin dall’inizio la necessità di una formazione incarnata e vicina, capace di trasformare il territorio dal basso. È stato proprio lui a ispirare il nome stesso dell’iniziativa, immaginando un percorso in cui il nutrimento del corpo e quello della mente potessero camminare insieme. Nato con l’obiettivo di contrastare la povertà educativa e la dispersione scolastica, il progetto si sviluppa attraverso un centro socio-educativo attivo ogni pomeriggio, che accoglie circa 40 minori tra i 6 e i 14 anni.

Accanto allo studio assistito, i ragazzi partecipano a laboratori artistici, sportivi, linguistici e di educazione civica, in un ambiente capace di restituire dignità e fiducia. Il progetto è reso possibile da un’équipe formata da dieci educatori e animatori, affiancati da due cuoche e circa venti volontari, tra cui anche giovani del Servizio Civile Universale. È nel confronto quotidiano, nella condivisione delle fatiche e delle scoperte, che si costruisce una comunità educante viva e autentica. Tutto ha inizio con un gesto antico quanto l’uomo: spezzare il pane insieme. Un pasto caldo che non è solo nutrimento, ma carezza, appartenenza, primo seme di riscatto.

Il momento della mensa non è mero nutrimento, ma un gesto simbolico di riconoscimento e dignità. Sedersi a tavola insieme si trasforma in un rito quotidiano, dove il pane spezzato diventa linguaggio silenzioso di cura, appartenenza e reciprocità. In quel tempo condiviso, fatto di sguardi, attese e ascolto, si educa alla comunità.  E quel pranzo, per molti l’unico pasto completo della giornata, non è soltanto ristoro del corpo, ma primo mattone per edificare fiducia, metodo e concentrazione: una grammatica sottile del crescere che parte dalla tavola e si apre alla vita. Come afferma Angela Marino, responsabile del progetto: «Vogliamo educare al rispetto dell’altro, all’accoglienza della diversità, al riconoscimento delle emozioni. Sono semi che, se curati, diventano radici forti nella vita di ognuno».

Situato nel cuore del centro storico di Cassano all’Ionio, in un quartiere segnato dalla marginalità e dalla presenza silenziosa della criminalità organizzata, questa casa dell’apprendimento rappresenta un varco quotidiano nella solitudine e nella rassegnazione. Qui, ogni pomeriggio, prende vita una resistenza mite ma decisa, dove la bellezza non è più spettatrice silenziosa, ma voce che educa, mani che accolgono, cuore che accompagna.

Il valore aggiunto del progetto risiede nella sua capacità di generare rete: parrocchie, famiglie, scuole, operatori sociali e istituzioni locali vengono coinvolti in una trama di corresponsabilità educativa. Non si tratta di semplice assistenza, ma di un modello pedagogico partecipato, che mira a rafforzare le competenze relazionali, cognitive ed emotive dei ragazzi, valorizzando al contempo il capitale sociale delle comunità. Il collegamento con il Centro per le famiglie, spazio dedicato all’ascolto e all’accompagnamento genitoriale, conferma l’approccio integrato e intergenerazionale dell’iniziativa.

La struttura, infatti, non si rivolge solo ai minori: offre gratuitamente supporto psicologico e consulenza educativa anche alle famiglie, costruendo una rete di prossimità che cura e rialza. Dal 2016, sono oltre 35 i nuclei familiari accompagnati, in un’azione costante che contrasta la cultura dell’illegalità con la pazienza dell’ascolto e la forza del quotidiano. Le politiche pubbliche – a partire dal Pnrr – dovrebbero riconoscere e rendere sistemiche queste esperienze, promuovendo una regia collettiva dell’educazione che metta al centro la prossimità, la continuità e la personalizzazione degli interventi.

Il cammino pedagogico, in questo senso, non è soltanto un diritto individuale, ma un bene relazionale e comunitario, la cui cura riguarda l’intero tessuto sociale. Come afferma la responsabile Angela Marino, due desideri accompagnano oggi l’evoluzione del progetto: da un lato, l’avvio dell’educativa domiciliare, per raggiungere i minori più fragili anche all’interno delle mura domestiche, offrendo un accompagnamento personalizzato; dall’altro, la creazione di un centro per adolescenti, capace di proseguire il lavoro educativo oltre la scuola media, in un’età critica in cui i rischi di devianza, abbandono e isolamento aumentano in modo esponenziale.

Il Pnrr scuola in Calabria: opportunità e limiti di un piano trasformativo

Secondo stime aggregate, la Calabria ha beneficiato di alcune centinaia di milioni di euro nell’ambito del PNRR per il settore dell’istruzione, sebbene non sia disponibile una cifra ufficiale univoca per l’intera dotazione regionale. Gli ambiti di intervento comprendono l’edilizia scolastica, la costruzione di asili nido e scuole dell’infanzia, il potenziamento delle mense e delle palestre, la digitalizzazione degli ambienti didattici, la formazione dei docenti e il contrasto alla dispersione scolastica.

Tuttavia, a fronte dell’ampia mole di risorse, l’attuazione concreta dei progetti risulta ancora frammentata e disomogenea, soprattutto nei contesti più periferici. Secondo i dati disponibili a fine 2024, la spesa effettiva certificata rimane contenuta rispetto ai fondi assegnati. Diversi interventi risultano ancora in fase di progettazione o affidamento, in particolare nei piccoli comuni e nei territori montani, dove le carenze di personale tecnico e di governance locale rallentano i processi decisionali. Questa criticità è particolarmente evidente nei comuni a bassa densità abitativa, spesso situati nelle aree interne, dove l’urgenza di contrastare la povertà educativa si scontra con la fragilità strutturale dell’apparato amministrativo. In assenza di un accompagnamento tecnico adeguato, il rischio concreto è che il Pnrr finisca per rafforzare le disuguaglianze invece di ridurle, avvantaggiando i territori già dotati di maggiore capacità progettuale. Il paradosso è evidente: laddove il bisogno educativo è più acuto, la risposta istituzionale tende a essere più debole. In questo senso, il Pnrr rappresenta non solo un’opportunità, ma anche un banco di prova per il sistema scolastico regionale, chiamato a dimostrare capacità di visione, coordinamento e inclusione.

Conclusione

In Calabria, oggi, la sfida educativa è la vera cartina al tornasole della democrazia. Dove la scuola arretra, avanzano le disuguaglianze, si insinua la marginalità, si radica la povertà come destino. Non è solo questione di banchi vuoti o connessioni deboli: è una questione di giustizia. Se ogni generazione ha diritto a crescere, apprendere, costruire il futuro e contribuire al bene comune, allora negare queste possibilità equivale a una colpa collettiva. È alla politica, alla scuola e alla società civile che spetta il dovere, non l’opzione, di creare condizioni reali di uguaglianza formativa. Perché ogni bambino lasciato indietro, tra le pietre di una montagna o il cemento di una periferia, è un fallimento della Repubblica. Perché la povertà educativa non è soltanto vuota di contenuti: è amputazione di sogni, esilio precoce dalla dignità. E se bastano un piatto caldo e una stanza piena di libri a disinnescare il destino, siamo davvero certi che sia solo una questione di risorse? (ap)

[Courtesy OpenCalabria]

L’OPINIONE / Francesca Rina: Se la buona politica fa buona educazione

di FRANCESCA RINALa legge per l’istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino ai sei anni approvata dalla Regione Calabria è il risultato di un lungo lavoro di studio, di riorganizzazione e revisione di quanto finora già prodotto (e anche di ciò che non lo è stato mai!), che approda a una visione nuova del sistema educativo e dei suoi processi. Una sfida di coraggiosa innovazione.

In veste di coordinatrice pedagogica, come membro del Consiglio del Gruppo nazionale Nidi e Infanzia e come delegata Anci, ho partecipato al tavolo regionale “0/6” coordinato da Anna Perani dirigente del settore Istruzione e diritto allo studio, condividendo la tensione ideale, filosofica e sociale che ha animato il progetto della nostra legge. Ho portato la mia esperienza professionale e umana con l’intento di contribuire a un percorso di cambiamento e di riscoperta di una materia che riguarda fino in fondo territori e comunità, bisogni e risorse: educazione e istruzione sono questioni focali per combattere povertà, emarginazione e sfruttamento e coinvolgere i più piccoli nella crescita e nella costruzione di una propria idea di mondo e di futuro. Un percorso armonioso garantito, quando si applica l’ascolto dell’altro come modello operativo: ascolto dei bambini come pure delle famiglie, soprattutto quelle più svantaggiate.  Così si supera quel senso di isolamento che spesso causa l’abbandono scolastico, fenomeno, rispetto al quale la nostra Regione vanta un preoccupante primato in Europa. 

Il nostro tavolo di lavoro 0/6 ha trovato nell’inclusione il senso di un nuovo sistema integrato d’istruzione, in quella fusione di talenti poliedrici, differenti, che dà spazio a ogni espressione, rafforzando le comunità educanti, anche in territori marginali. Abbiamo un estremo bisogno che i servizi educativi e la scuola rispondano alla necessità che la Costituzione conferisce loro: non luoghi di esclusiva trasmissione del sapere, ma di cura e di educazione alla cittadinanza, dando forma a una scuola democratica.

In questo lungo percorso di trasformazione, sancito dalla nuova legge, un ruolo fondamentale spetta a educatori e insegnanti impegnati in nuovi progetti pedagogici: il nuovo sistema integrato diventa luogo di confronto, di dialogo, di contaminazione e di ascolto. Così pensiamo si realizzi un’educazione di qualità, capace di colmare i divari territoriali, di contrastare l’abbandono scolastico e la povertà educativa. Un’educazione che promuova, inoltre, forme di cittadinanza attiva, solidale ed inclusiva, in cui le diversità di ciascuno siano vissute come opportunità di crescita e conoscenza. E che consenta di costruire una comunità educante partecipe, dialogica e responsabile, pronta ad affrontare con fiducia e motivazione le sfide e la complessità della nostra epoca.

La nuova legge per il sistema integrato d’istruzione, e il lungo percorso che l’ha preceduta, dimostrano che una buona politica – come quella avviata da Giusi Princi, vicepresidente della Regione Calabria – può fare una buona educazione. E molto spesso vale anche il contrario. (fr)

                           



LA RIFLESSIONE / Franco Cimino: Dalla violenza per una partita di pallone alla nuova educazione

di FRANCO CIMINO – Non è andata come auspicavo. Non come ho supplichevolmente chiesto. Come ho pregato che andasse. Giungono dalla rete a decina i video che dicono di una parte di Cosenza, la nobile Città, assediata da autentici commandos di ultras che hanno attaccato i pullman di tifosi giallorossi di passaggio obbligato per tornare a casa. E dicono di una risposta scellerata di una piccola frangia di questi.

Dicono, e documentano di un gravissimo attacco, di un manipolo di stupidi al Mc Donald di Rende, dove famiglie con bambini stavano godendosi le solite serate di semplice allegria nel posto “ più adatto” ai ragazzini. Il bollettino di guerriglia urbana, ché di questa almeno si tratta, dice di qualche ferito tra i “ combattenti” e addirittura di tredici tra gli uomini delle Forze dell’Ordine. È andata bene. Poteva andare peggio, come spesso accade nei dopo partita incendiati. Quando succedono queste cose io non penso ai pochi cretini, ma ai bambini. I pochi cretini vanno puniti, e severamente, ché non c’è riparo alla stupidaggine. Il daspo da solo non è sufficiente. Occorre altro. I bambini, invece, vanno protetti e presi in totale amorevole cura. Sono nel pieno della loro formazione. E sono tanti. Molto di più dei cretini. Rappresentano non il cosiddetto futuro, loro e della società, ma il presente. Anche nostro. Di questa assurda contemporaneità. Non i cittadini di domani, ma l’oggi che è già domani.

Un tempo particolare, cioè, che si carica sulle spalle anche il passato, che è loro affidato in quanto già quotidianamente parte della storia del loro paese. Della loro comunità. Della loro famiglia. I tre spazi più vitali della propria identità, i tre punti forza del loro cammino. Lo sport in generale è strumento della formazione. Come lo è l’istruzione per la prima conoscenza e il trasferimento dei saperi. Promuovere la passione per lo sport è atto educativo importante. Nello sport si radicano alcuni tra i valori umani più importanti. Il primo, la competizione. La vera competizione. In essa vi sono gli elementi più significativi ed essenziali per la costruzione di un’etica che ha valore tanto individuale quanto sociale. Quindi, fondamentale per la crescita della persona e della società.

Quali sono? Ripetiamoli ché li abbiamo dimenticati. Il desiderio di vittoria. Non esiste sport senza competizione e, questa, senza quel desiderio. Ma la vittoria è come la gioia, prevede la possibilità opposta. Che si perda. Questa bivalenza si trasforma in duplice valore. La vittoria, se pesa diversamente sul piano pratico, ha lo stessa bellezza della sconfitta. Sono fatte della stessa sostanza, la partecipazione alla gara. E della fatica per concorrervi. La fatica di prepararsi, la serietà nel dovere di prepararsi. E la necessità di migliorarsi. E non soltanto per vincere, ma per essere degno di partecipare. Ché la vittoria più grande è la stessa di quella di ogni competizione umana. Anche di quella politica, perché no? Affrontare la prima sfida. E vincerla. La sfida contro il limite proprio. Superarlo, anche di un millimetro, di un millesimo di secondo. Anche di un tiro, con il pallone, con il remo, con la racchetta, con il fioretto, con l’asta. Anche delle gambe. Anche di una mezza bracciata. Vincere rispetto a sé stessi della gara precedente. E nella vita, che lo sport emblematicamente ripete, di sé stessi del giorno prima. E a scuola, della “interrogazione” già resa e valutata.

È superando ogni volta la forza che si possiede che si procede verso la ricerca della vittoria sull’altro, sugli altri. Il desiderio di quella medaglia o di salire sul podio, accettando pure il terzo gradino, ché guardare più in alto dello stesso è come guardare il cielo. Lo sport è gara. Competizione sempre. Non è una guerra. Il suo campo d’azione sono i molteplici campi da giuoco, non i fronti accesi della battaglia. I competitori, sono gli antagonisti, necessari al nostro crescere e migliorare. Sono al massimo avversari. Mai i nostri nemici. Per questo lo sport genera sentimenti positivi, l’ammirazione tra questi. È amore allo stato puro, la gratitudine profonda in esso. Senza il nostro antagonista, noi non saremmo. Senza chi ci batte, noi non cresceremmo. Senza il grande campione che abbia battuto ogni record, anche quello che noi non eguaglieremmo mai, non assisteremmo alla meraviglia delle meraviglie, l’essere umano che con le proprie forze, il proprio sacrificio nell’immane fatica, ha superato il limite. Consegnandoci la vittoria di tutto. Quella dello sport. Che è, pertanto, lo spazio in cui si manifesta il senso pieno dell’onore.

L’onore composto da dignità, lealtà, rispetto per l’altro. Per questo motivo, vittoria e sconfitta hanno pari valore morale, il riconoscimento nell’una e nell’altra dell’onore offerto e ricevuto dal solo fatto di aver partecipato. Di essere stati parte e protagonisti della gara. Lo spirito sportivo, appartenendo interamente ai processi educativi, favorisce la crescita nei giovani di quel buon senso della vita. Lo Sport, qui con la maiuscola, è vita che aiuta a vivere bene. Come la Scuola, sempre con la maiuscola, è la società. Specialmente, per i giovani di oggi, spinti da una cattiva educazione, familiare e sociale, a concepire i campi di ogni loro manifestazione, come campi di battaglia, dove gli altri che non appartengono alla nostra prossimità, sono nemici. Da abbattere più che sconfiggere.

Da odiare non solo da avversare. Campi di battaglia in cui non c’è la nostra squadra, ma l’esercito cui apparteremmo, la banda di cui faremmo parte in quell’assurdo senso di appartenenza che è la negazione del valore dell’identità. Educazione scellerata, che fa dei nostri figli degli esseri deboli, che alla prima sconfitta della quotidianità, invece che esaltarsi si deprimono. Così facendo spazio in loro a quel senso del fallimento che è tanto distruttivo da aver bisogno di quella carica aggiuntiva di aggressività senza la quale non si reggerebbe. Aggressività che in taluni, se non affrontata adeguatamente dal mondo degli adulti, si trasforma in violenza, sia che essa venga fisicamente praticata sia che venga soltanto immaginata o “ verbalizzata”.

Il calcio è lo sport più praticato nel mondo. Assai di più in Italia. Ad esso si avvinano, praticandolo o guardandolo, i nostri ragazzi. È stato così per noi allo loro età. Il calcio è una magia. Ci fa giocare in qualsiasi spiazzo. Anche nei corridoio della casa. Noi, i ragazzi di un tempo molto passato, accartocciavano fogli di giornali, li stringevano nello spago e ne facevamo palla per giocare nelle vie. Con le poche auto che ci interrompevano, magari mentre andavano a far gol nel tratto di marciapiede, strettamente chiuso a porta da cappotti e maglioni di cui ci eravamo liberati per sudare a più non posso. Il calcio ci fa sognare. Ancora oggi, che siamo vecchi incorreggibilmente giovani. Sognare di di diventare, io Omar Sivori, i miei amici Luisito Suarez, Mario Corso, e di lì, per generazioni, a scendere fino a Baggio, Totti, Maradona… E oggi, anche al marinoto Pietro Iemmello.

Si va alla partita di domenica anche per toccare con gli occhi il sogno. Gli stadi sono per questo sempre più pieni di bambini. Tutta l’aria si riempie dei loro sogni e il cielo dei loro occhi luminosi come le stelle, anche di giorno. Gli atti di violenza negli stadi e fuori degli stadi, lo dico a quei cretini, se hanno figli o che li avranno, sono atti contro i bambini. Lo sono doppiamente, in contemporanea al loro svolgimento, per il terrore che procurano in loro e nelle famiglie che li accompagnano. Lo sono per il pericolo di deviazione al loro percorso educativo, quando l’idea che la partita di pallone altro non sia che l’occasione per odiare il nemico e attaccarlo in qualche modo e non un momento dello spirito sportivo, che la sconfitta della propria squadra altro non sia che una ingiusta condanna e non uno stimolo a far meglio in futuro, che non aver vinto equivalga a un fallimento e non al riconoscimento del valore dell’avversario da onorare.

Un pericolo che può trasformarsi nell’idea che la vita sia fatta tutta di ingiustizie e di colpe altrui, che una sconfitta personale sia un fallimento irreversibile, che la lealtà parimenti al rispetto non esista, che la causa delle nostre sofferenze o dei più semplici problemi, sia prodotta dagli altri e che questi siano tutti nostri nemici, che usano violenza da contrastare con una violenza maggiore e che l’odio sia l’alimento esclusivo per sostenerla.

Vogliamo che i bambini crescano così e costruiscano, crescendo, una società di questo disvalore? Ci stiamo già dentro, forse, e non c’è ne siamo accorti? No, non deve essere cosi. Forse, siamo ancora sulla più brutta soglia, è vero. Ma, di certo, facciamo ancora in tempo a salvarli tutti, i nostri ragazzi. Occorre, però, mettersi al lavoro. Tutti insieme. Istituzioni, scuola e famiglia le più importanti, chiesa e confessioni religiose, associazioni umanitarie e sportive, società calcistiche in primis, mondo della comunicazione e i padrini del business, degli affari, soprattutto.

Debellare ogni forma di violenza e l’istinto all’aggressività. Questo il loro compito primario. Un compito “comandato” dall’amore, l’unica energia che può portare alla costruzione di un mondo migliore. L’Amore, l’unica forza del vero cambiamento. L’unica ribellione che può trasformarsi nella vera rivoluzione. Per dirla con Moro, “quella Cristiana, che trasforma la società e rinnova la bellezza umana”. (fc)