IL RITORNO DI MATTARELLA AL QUIRINALE
È L’ANNO ZERO PER LA POLITICA ITALIANA

di SANTO STRATI – Gli italiani ritrovano il loro amato Presidente Mattarella, “costretto” al bis, e finisce l’orrido teatrino della politica che ha mostrato la sua faccia peggiore. Una soluzione che sancisce lo status quo (più volte – scusate la citazione – da noi auspicato e prevedibilmente realizzabile) ma condanna inesorabilmente l’attuale classe politica a una vergognosa ammissione di impotenza. Se ci fosse un minimo di decenza ci si potrebbe aspettare le dimissioni (di massa) di tutti i leader politici (nessuno escluso) consegnando agli iscritti il responso sul proprio futuro. Ma scordatevelo.

Salvini ha fatto l’ennesimo autogol e non gli basterà vantare di avere sostenuto la rielezione di Mattarella a evitargli la gogna mediatica, ma soprattutto la sfiducia dei suoi elettori. Lo stesso discorso vale per Enrico Letta che ha mostrato tutta l’incapacità di aggregare le forze migliori di un partito (quello democratico) con una gloriosa storia alle spalle, ridotto al traino di un inesistente Movimento 5 Stelle guidato da un altresì impalpabile (in termini di potere) Giuseppe Conte. Lo stesso discorso vale per Giorgia Meloni e basterebbe la dichiarazione di Ignazio La Russa (“Quale centrodestra? Non c’è più il centrodestra”) a sancire la sconfitta totale anche della strategia furbetta (ma non “smart”) della leader di Fratelli d’Italia che non è riuscita né a vincere né a essere sconfitta da Salvini. Analoga la posizione di Forza Italia, dove, con buona probabilità solo per ragioni di salute, sì è smarrita la guida di Berlusconi e si è avuta la conferma che senza il Capo, Forza Italia non conta niente. Non si salva nemmeno Renzi che pure aveva tentato di giocare in sedicesimo il ruolo di king maker, senza però riuscire a capitalizzare la pur minima rappresentatività legata alla sua indiscutibile personalità politica. Quindi, a conti fatti, la rielezione di Mattarella segna la fine, ingloriosa, di un certo modo di fare politica. Lo vedremo nei prossimi giorni, quando gli elettori presenteranno il conto ai leader che hanno mostrato tutta la propria debolezza, non solo nei confronti degli avversari ma anche della propria coalizione. A destra e a sinistra. Nessuno perdonerà a Salvini lo scivolone impietoso imposto alla seconda carica dello Stato, ma la presidente Casellati ha peccato di una insospettabile ingenuità politica cedendo alle lusinghe del leader del Carroccio: la conta dei voti non si fa a Montecitorio davanti alle ceste dove si depositano le schede, bensì prima, stringendo accordi e stipulando alleanze inconfutabili. Senza improvvisazioni e senza dilettantismo. Così come, nessun elettore di sinistra – crediamo – perdonerà a Letta l’incapacità di esprimere una personalità di area e sondare la compattezza della maggioranza che regge il Governo. Una maggioranza eterogenea (alla Ursula) che sta tenendo in piedi un governo d’ emergenza, ma che non ha saputo dialogare e trovare un minimo punto d’intesa, salvo ritornare al Via, in un grottesco Monopoli della politica, e ripartire dallo status quo  che ognuno riteneva – sbagliando – di poter superare.

Da tutto ciò, con i 759 voti dell’assemblea dei grandi elettori, emerge chiara l’incapacità dell’attuale classe politica italiana di fare “politica” come meritano gli italiani e come il popolo (quello che va a votare e pretende il rispetto della politica nel suo senso più nobile) ha diritto di avere. È dunque un segnale inequivocabile che la rielezione di Mattarella può segnare l’anno zero della politica, con l’obiettivo di risparmiare al Paese ulteriori mortificazioni e una campagna elettorale senza fine, come piace alla Meloni e a Salvini.

C’è indubbiamente un grande, insuperabile, problema perché da oggi si possa pensare all’anno zero della politica: mancano gli attori, i protagonisti, dell’auspicabile rinnovamento e non è stata “allevata” alcuna classe dirigente in grado di subentrare agli avventizi delle elezioni del 2018 (ovvero i Cinque Stelle, la più eclatante delusione politica per milioni di elettori) e alla vecchia guardia che, mestamente, ha scelto la via del ritiro e dell’abbandono della politica attiva. Non ci sono le “riserve” con cui sostituire i tanti incapaci della politica che hanno dimostrato la totale impotenza di avere una visione di futuro, in grado di offrire una via d’uscita alle tante crisi che attanagliano il Paese. A cominciare dalla più grave, quella della pandemia, con il suo insopportabile carico di morte e la paura del futuro, ma senza trascurare la ripresa economica e il futuro da consegnare alle nuove generazioni.

Ci sono, per fortuna, dei punti fermi costituiti dal premier Draghi e dalla riconferma di Mattarella: il settennato che si conclude il 3 febbraio e che in realtà ritrova oggi il suo bis ci ha consegnato un magnifico presidente della Repubblica, attento alle esigenze del Paese, vigile sulle preoccupazioni e i rischi che l’instabilità di governo può provocare in termini di credibilità del Paese e a sostegno degli obiettivi di ripresa e sviluppo. La crescita, ovvero la ripresa, al di là del pur suggestivo termine “resilienza” (che in realtà non ci azzecca niente se non per puro colore giornalistico), è una tappa che il Paese non può permettersi di saltare: lo deve ai suoi giovani, alle donne, alle centinaia di migliaia di lavoratori che hanno già perso il lavoro e i tantissimi altri che rischiano non solo di perderlo ma di non trovare più alternative occupazionali.

Aveva detto in più occasioni il presidente Mattarella che non intendeva prolungare il mandato (ma anche se ne avesse avuto voglia, mica poteva andare a raccontarlo in televisione…) e ieri mattina si è espresso con una battuta secca: «Se servo, ci sono». E non poteva essere diversamente. La sua riconferma era l’opzione numero uno, ma in troppi hanno ricamato sulla sua riluttanza per costruire ipotesi di supremazia che sono tutte crollate miseramente. Bastava un po’ di buon senso: Draghi serve al Paese nel posto in cui si trova, per portare a termine il suo programma fino alla fine della legislatura; ci voleva un Presidente come Mattarella da affiancargli. Non mancano personalità di rilievo, bruciate dalla guerra dei veti che ha mostrato la pochezza di tanti presunti leader, che avrebbero potuto eguagliare il Presidente uscente e promettere un settennato di identico, se non superiore, impegno: ma la “guerra” tra i nostri politicanti da strapazzo ha portato a un epilogo che, per quanto prestigioso, poteva compiersi già lo scorso lunedì. Abbiamo buttato via sei giorni con una messinscena vergognosa di cui nessuno, oggi, vuole firmare la regia. A qualcosa, però, sono serviti questi sei giorni di nulla, a mostrare che, più che mai in politica, l’incapacità, l’incompetenza e l’assenza di qualsiasi etica istituzionale non pagano. Che parta davvero oggi l’anno zero della politica, gli italiani ne hanno davvero bisogno. (s)

Quirinale: lo scivolone di Salvini/Casellati inguaia il centro-destra

di SANTO STRATI – A voler essere generosi, si può affermare che Matteo Salvini, dopo la grande cavolata del Papeete, sembra abbia preso gusto a non azzeccarne manco una. Sarà la rivalità, fin troppo evidente con la Meloni per la primazia sull’area di centrodestra, sarà l’ansia da prestazione, ma è un disastro totale, uno dopo l’altro. Lo scivolone istituzionale “imposto” alla Presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati (la seconda carica dello Stato) non solo si poteva e doveva evitare, ma – a nostro avviso – incrina ulteriormente la finta “unità” del centrodestra e apre una seria ipoteca sullo stesso Salvini. 

Chi comanda a destra? Ma c’è ancora una “destra” compatta e coesa? No, sicuramente non più e la stessa posizione di Giorgia Meloni – l’unica che sta uscendo in qualche modo “vincente” da questo osceno teatrino della politica – alla fine non ricaverà sostanziosi vantaggi alla sua leadership. La Casellati doveva – e poteva – largamente immaginare che sul suo nome si sarebbero scatenati i franchi tiratori  della sua stessa parte politica. Un gioco al massacro, al quale, astutamente, si è sottratta la sinistra che, però, non può portare alcun vanto da questa impensabile (ma immaginabile) situazione).

È una palese guerra di veti contro voti e, alla faccia del popolo italiano che li ha mandati in Parlamento o ai Consigli regionali, l’attuale classe politica italiana (ovvero i 1009 grandi elettori) sta mostrando la sua becera e insulsa cialtronaggine istituzionale. È una guerra di posizione di cui gli italiani avrebbero volentieri fatto a meno e che, crediamo, non sono più disposti a subire.

Possibile, si chiede la gente per strada, che una maggioranza di governo che conta all’incirca 900 voti su 1009 non riesca a mettersi intorno a un tavolo e convergere su un nome, tenendo conto dell’onorabilità del ruolo, dell’esigenza di una personalità non divisiva, del bisogno da parte del popolo italiano di poter riconoscere nel nuovo Capo dello Stato il continuum del settennato di Mattarella? 

I 1009 grandi elettori non sono stati convocati d’improvviso, da tempo era evidente la scadenza naturale del mandato di Sergio Mattarella e già da agosto erano cominciati i rumours sui quirinabili. E sono arrivati – tutti impreparati – il 24 gennaio a guardarsi in cagnesco, senza il minimo indizio di un’idea, senza alcuna indicazione se non il risibile obbligo di fottere l’avversario mettendolo all’angolo.

Non ne esce alcuno bene da questa terribile esperienza quirinalizia che dopo sei inutili votazioni non trova di meglio che ricominciare da Mattarella, oppure “ripiegare” sull’idea di una donna al Colle (che sarebbe una cosa magnifica ma non frutto di una via d’usita in meno miserevole possibile)

A momenti è sembrato che fosse in corso un casting per un talent televisivo (ops, politico!) dove naturalemente non contavavano nè capacità, nè competenza, né tanto meno onorabilità e autorevolezza. Eppure, non mancano queste doti in tante personalità che hanno reso – e rendono ancora – tanto lustro al Paese con il proprio impegno quotidiano, con la loro storia, la serietà e la specchiata onestà, non solo intellettuale. Basta un nome per tutti, Gianni Letta, gran cerimoniere di Stato, che Berlusconi poteva indicare spiazzando tutti sapendo di incontrare un consenso trasversale e soprattutto di non trovare alcun tipo di veto.

Berlusconi, in ospedale “ufficialmente” per un controllo (ma temiamo che la cosa sia molto più seria) ha rinunciato alla candidatura, rinunciando persino a fare il king maker, ruolo lasciato in mano al “pasticcione” Salvini che non l’ha saputo svolgere nella maniera adeguata.

A tarda sera le dichiarazioni “domani avremo il Presidente” si sono susseguite (ma nessuno ha spiegato a quale domani si riferisse) e le quotazioni dell’attuale “capa” degli 007 nostrani – Elisabetta Belloni – sono salite alle stelle, soprattutto dopo il tweet di Beppe Grillo (“Benvenuta signora Italia, ti aspettavamo”). Con tutta la stima per la dott.ssa Belloni che ha un curriculum eccezionale, è il metodo che svilisce l’istituzione e dileggia la sacralità del voto per il nuovo Capo dello Stato. Dove sono i leader o presunti tali?  Conte mostra di non essere in grado di guidare se non pochi “smarriti” in cerca di un’identità mai veramente avuta; Enrico Letta rivela la sua incapacità di gestire un partito con una storia gigantesca alle spalle e si “prostra” ai grillini (presunti, ex, e via dicendo) senza essere in grado di individuare, proporre e – perché no? – imporre una personalità di area, non viziata da partigianerie partitiche. E infine, Matteo Renzi, ex enfant prodige del 42% finito a percentuali ridicole, tradisce una debolezza che non trova alcun “ricostituente” in grado di ridare brio e forza a qualche buona idea politica. 

In questo scenario, forse oggi avremo la prima donna al Colle (auguri anticipati dott.ssa Belloni!), ma non mi fiderei. Neanche all’evidenza di una soluzione di compromesso maldigerita a tutte le latitudini, ci sarà chi porrà questioni di opportunità sul mandare al Quirinale il responsabile dell’Intelligence, pur di seminare nuova zizzania e mantenere il caos. A quale fine, lo scopriremo solo vivendo. Ricordiamoci, però, che sono a rischio la governabilità e soprattutto la reputazione del nostro Paese.