L’OPINIONE / Franco Cimino: Catanzaro e il suo fine estate

di FRANCO CIMINO – «L’estate sta finendo», erano i Righeira, nel 1985, con la loro canzone allegra che ridimensionava fortemente la nostalgia di quella fine. Su quel motivetto (allora parecchio criticato dagli amanti della buona musica e del cantautorato, ma oggi considerabile pura grandezza a confronto della “nuova” canzone italiana), potremmo dire della nostra. Come le precedenti e tutte quelle vissute altrove, l’estate, purtroppo, si misura con numeri e conti alla mano. Quanti turisti e quali, interni o esterni al luogo, italiani e stranieri, i numeri.

Quanto denaro è circolato, chi ha guadagnato e quanto rispetto all’anno precedente, i conti. Presto arriveranno tutti. E saranno precisi al millesimo. Il resto lo farà la statistica, la sociologia e… la politica. Questa sempre c’entra. Per giustificarsi, se numeri e conti non sono buoni, magari attribuendone la colpa agli altri. Quelli che c’erano prima, sempre. Del governo, se si tratta di comuni e regioni. Dell’Europa, se parla l’Esecutivo. Anche per attribuirvi il maltempo, ove ci fosse stato. Per prendersi i meriti esclusivi, invece, se fosse andata bene. Anche quelli del bel tempo. Un po’ di incertezza su quest’ultimo aspetto, in verità, c’è stata sull’eccesso di caldo, del quale tutti incredibilmente ci siamo lamentati, mentre altrove si piangevano i gravi danni causati dalle tempeste e dalle alluvioni, nell’Italia divisa a metà anche sotto questo aspetto. La nostra estate, quella catanzarese e calabrese, ad occhio nudo possiamo dire che è stata buona. Vedremo se anche ricca. E in che modo lo sia stata.

Quella della nostra Città addirittura, strepitosa. Giornate intere sempre buone. Cielo limpido e caldo quasi sempre gradevole. E il vento che si è mosso piano. Per non disturbare, in particolare, le tante manifestazioni del divertimento e gli spettacoli numerosi. Precessioni religiose, comprese. Molte critiche sono state mosse intorno a queste iniziative. Specialmente a quelle che sono apparse come spot elettorali per quei politici che sono soliti salire sui palcoscenici per sostituirsi, o prendendo tempo e spazio, agli artisti. Una sorta, si è detto, di autocelebrazione con i soldi pubblici o di altri. Mai propri. Ovvero, una gratuita campagna elettorale anticipata. Ma si sa bene, ovunque è così, le critiche non mancano mai, ché non si fa cosa che a tutti sia gradita. Per quanto ci riguarda,se la maggior parte ha ben accolto, se la gente si è divertita, se i commercianti e gli operatori turistici hanno guadagnato, siamo “contenti tutti”. Non ho nella mia agenda le date degli spettacoli, se ce ne sono ancora non lo so. Tuttavia, quando l’ultima festa sarà terminata, si torni, per favore, alla Città nella sua interezza. E si discuta seriamente delle prossime programmazioni.

Magari uscendo dall’improvvisazione o dalla furberia di far passare come egida dell’Amministrazione gli spettacoli promossi e organizzati da privati e associazioni. Ovvero, far passare per iniziative culturali cosette che non lo sono proprio. Non è concedendo uno spazio comunale o mettendo il logo del Comune sulle locandine, o qualche euro alla spicciolata, che si compartecipa alle manifestazioni turistiche, artistiche, culturali. La programmazione di un Ente Pubblico, anche su questo campo, deve avere una sua autonomia e originalità e un richiamo per l’esterno che ne caratterizzi la peculiarità e il fascino. C’è ancora, più pesantemente, che Catanzaro, la città spezzata socialmente, economicamente, culturalmente, in quattro parti separate e contrastanti, ne possa chiudere totalmente una, la più affascinante e bella, il Centro storico, per più della metà della stagione estiva. Di Gagliano e della parte alta, che arriva a Sant’Elia, e della loro solitudine, non c’è da aggiungere altro. Quella estiva, sebbene più accentuata, si aggiunge all’isolamento atavico in cui queste realtà importanti si trovano. Diciamolo con più forza, non ci possono più essere tante Città in una, tra l’altro indefinibile poiché ancora indefinita. Non ci può essere (apparentemente per il solo periodo estivo), una parte di essa in cui si balla e si ride, si canta e si gioca, si esce e ci si affolla, e un’altra, territorialmente più ampia, teoricamente più popolosa, in cui ci si intristisce, ci si isola. E si è lasciati soli dinanzi anche al venir meno della sicurezza per le persone, per le cose e per le case. In questi luoghi il deserto è devastante, come quel senso di abbandono che prende chi è costretto a rimanervi e per le mille ragioni distribuibili su ciascuno degli abbandonati. Il motto ricorrente, che è stato utilizzato anche tredici mesi fa, anzi il doppio motto, non è stato neppure ripetuto a mo’ di ritornello. Erano, me li ricordo bene questi.

Il primo: «nessuno, catanzarese e quartiere, sarà lasciato solo». Il secondo: «la Città è una e deve ritornare a essere una, non esisteranno cittadini di serie A e cittadini di serie B». Ce ne siamo tutti dimenticati. Ci siamo ripromessi da decenni, tutti, dalla politica alla cittadinanza, sempre però lamentandoci della situazione sociale, che avremmo costruito una Città per i giovani e con i giovani. Invece, abbiamo non solo abbandonato il suo Centro storico più importante ai soli vecchi sempre più “poveri”, ma pure condannato i vecchi alla solitudine di uomini singoli, senza spazi della socialità, senza occasioni per mantenersi giovani con l’orgoglio di essere “vecchi”. Quando parlo di Città divisa in quattro parti, volutamente escludo quella quinta, che, abbandonata al degrado e al dominio della criminalità, sembra essere divenuta una sorte di Bronx, ovvero un antistato nello Stato. È evidente che questa parte deve essere la principale attenzione in un qualsiasi progetto di “rigenerazione urbana”.

Rigenerazione, che non è, e non sia, solo l’applicazione di una normativa regionale nella gestione di quel che resta del nostro suolo. Deve essere, piuttosto, la ritessitura del manto sociale attraverso una “magliatura” stretta. E una bonifica profonda, che liberi il territorio da qualunque forma di inquinamento (sociale e morale particolarmente) e disegni un nuovo volto dei luoghi, che nel rispetto di una ingegneria peculiare questi siano parte integrante dell’architettura della Nuova Catanzaro. Quella di cui parlo ormai da un secolo. La Città unita, con una cittadinanza attiva, unita e unificante, ecco! E finalmente tutti si diventi catanzaresi. Una Città che si muova sui luoghi della Magna Graecia e delle culture successive positivamente molteplici, che si distenda da Borgia-Squillace a Taverna. La Città del mare e dei monti, degli antichi filosofi e di Mattia Preti, della religiosità popolare e della cultura, del turismo e della gastronomia. Dell’artigianato e della sanità. La Città anche dei saperi e della ricerca, da potenziare in quell’area, Germaneto, da offrire alla Regione, senza perdere nella della sua catanzaresità, in cambio della legge per il Capoluogo. Legge che rafforzi la nostra antica vocazione a essere Città Calabria. Città della e per la Calabria, anche attraverso quella sua collocazione territoriale davvero “divina” che le consente di aprirsi a tutto quel ben di Dio che la circonda e di abbracciarlo amorevolmente. Per questo Catanzaro è bellissima! Non capirlo non è più un difetto. È, invece, un delitto. Delitto di stupidità.

C’è ancora tanto da dire e io di ripetermi. Ma mi fermo qui per non farla ancora più lunga. Ne parleremo nuovamente e più particolarmente. Ché il Capoluogo può ancora ripartire. Il tempo perduto lo si può recuperare. Catanzaro è intelligenza viva per il mondo. E generosità pure per sé stessa. Occorre, però, che tutti si sia responsabili e disponibili a lavorare per il suo bene. Tutti, i cittadini in primis. Soprattutto quei politici e amministratori, che, invece di dare premi a destra e a manca, o di contestare chi si lamenta, recuperi umiltà e rafforzi la voglia di lavorare, lasciandosi serenamente giudicare dai catanzarese senza gridare al complotto contro le istituzioni. Ché la nostra ignorata Costituzione un’altra cosa bella afferma e codifica. E cioè, la dico alla “tammarigna”, che chi cerca i voti e li ottiene, da qualsiasi postazione si trovi a operare, governi. E chi i voti li ha dati, ovvero non li ha voluti dare, controlli, giudichi, sproni, suggerisca. E protesti se gli va. Importante e che l’una e l’altra cosa si faccia nell’esclusivo interesse di Catanzaro. L’intera Città, non solo la squadra di calcio. (fc)

L’estate in Calabria e il disagio tra rifiuti e senza acqua potabile

di ANTONIO LOIACONO – È un meccanismo (direbbe un mio caro amico) oliato e temporizzato da diversi anni: si chiama “disagio” e ad ogni solstizio d’estate si presenta agli amministratori regionali a quelli provinciali e locali i quali tirano fuori le maschere dai volti attoniti: “E adesso? E chi se lo aspettava!”

Improvvisamente (sic!), ci troviamo senza acqua potabile, con migliaia di turisti delusi dai “non servizi” che vengono loro offerti, da fogne che vanno in “crash” e con la puzza dei rifiuti che sostituiscono i doposole, lungo le coste più belle del mondo!

E proprio di rifiuti ci vuole parlare il Presidente del Circolo di Legambiente “Nicà”, Nicola Abruzzese: «Ci risiamo – è l’incipit satirico di Abruzzese – si avvicina l’estate ed il sistema della raccolta dei rifiuti in Calabria va in “tilt”».

«Sono anni, ormai – ha spiegato – che ripetiamo sempre le stesse cose, il problema dei rifiuti in Calabria si risolve solo se si fanno gli impianti per il riciclo, altrimenti resteremo sempre in emergenza. È di qualche giorno fa la notizia che il Presidente della Provincia di Cosenza, Rosaria Succurro, ha firmato un’ordinanza di riapertura di due discariche quella di Cassano allo Ionio e quella di San Giovanni in Fiore. Tutto ciò è veramente imbarazzante, come fa la politica a non capire che i rifiuti sono una risorsa e non un problema, mentre in altre parti del mondo con i rifiuti si ci guadagnano fior di quattrini, nella nostra terra continuano ad essere un problema e si vanno ad abbancare nelle buche».

«Altro tasto dolente è quello dei costi della Tari (tassa sui rifiuti) – ha concluso amaramente Nicola Abruzzese – tra le più alte d’Italia». (al)

QUELLE ESTATI SUL TIRRENO APPENA 50 ANNI FA…

di GREGORIO CORIGLIANO

Non è da moltissimo tempo che si fanno le vacanze. Anzi. Fino a poco più di 50 anni fa, probabilmente, la parola vacanza era conosciuta da pochi. Nei mesi canonici di luglio e di agosto in Italia ed in parte in Europa, si rimaneva in casa. I fortunati erano coloro che avevano la casa di abitazione al mare o in montagna. I più la preferivano al mare perché così avrebbero potuto “cullarsi tra le onde o stendersi sulla spiaggia con la scusa del “sole per l’inverno” o per fare le c.d. “sabbiature” contro i possibili reumatismi. C’erano anche coloro che ritenevano di dover andare in Aspromonte, in Sila o sul Pollino per godere delle frescure dei boschi.
C’erano delle differenze,però. Chi aveva la casa di abitazione al mare, ricavava due ore per “prendere” il bagno e poi tornava a casa. Chi invece viveva in montagna, a meno che non fosse ricco ed avesse la casa di proprietà, o doveva viaggiare – ma era una faticaccia – oppure provvedere al fitto di un localino. Gli storico-statistici fanno risalire al 1967 l’anno di inizio delle vacanze. Era l’anno in cui si scendeva a mare e ci si portava dietro – racconta chi questa esperienza l’ha fatta – un lenzuolo bianco che si sistemasse a mo’ di ombrellone, ma anche di spogliatoio, i giochini dei bambini, rigorosamente un cocomero ed un paio di bottiglie d’acqua che si facevano rinfrescare a mare. I frigoriferi ancora non c’erano. A mare si sistemava anche il cocomero. Questo per chi rientrava a casa per l’ora di pranzo, perché, c’erano anche quanti restavano l’intera giornata a mare, viaggiando dai paesi vicini, in autobus.  In questo caso, le masserizie da portare sulla spiaggia erano davvero molte di più. Sedie e sedioline di tutti tipi, salvagenti, tovaglie, cibo preparato la mattina, vino e poi via al mare a sciacquettarsi. Poi, il pranzo luculliano, il sonnellino, rigorosamente, d’obbligo, da parte di mariti, mentre le mogli dovevano accudire i bambini che erano il motivo ufficiale della “calata” al mare. Perché, con la scusa dei ragazzini, anche mamma e papà godevano della frescura delle acque del Tirreno o dello Ionio. Naturalmente non c’erano lidi o stabilimenti balneari per cui tutto avveniva sulla spiaggia, compreso il cambio dell’eventuale pannolino. E dove finivano i c.d. “resti” della giornata a mare? Tutto sulla spiaggia, che era luogo di svago, luogo di sole, ma anche per nascondere i rifiuti. Già da allora il problema, croce e delizia,anche oggi degli amministratori. Ed il bello è che c’era più gente allora che non oggi. Anche se, essendoci maggiori disponibilità, oggi si va di quà e di là, anche per conoscere nuovi lidi, appunto. Quando non si va fuori provincia o fuori regione.


Allora era un arrangiarsi del quale nessuno si vergognava, probabilmente perché ci si conosceva tutti od anche perché le spiagge di un tempo erano talmente lunghe e pulite – come il mare “era una tavola blu” – che ognuno trovava spazi anche per tutelare la propria privacy. Suore e sacerdoti avevano i loro spazi privati. Nel luogo dell’anima, (San Ferdinando mare, un tempo ormai lontano frazione di Rosarno!) si ricavavano gli spazi per giocare al pallone, ai tamburelli o ai cerchietti (per le ragazze), le bocce o i piattelli sarebbero arrivati anni dopo.
Di motoscafi neanche a parlarne. Al massimo, la barchetta con i remi,senza motore, che ti prestava qualche marinaio,tuo compagno di scuola, giusto per il gusto di vedere il mare “turchino”, che era molto lontano dalla riva. E la mattina e la sera? Essendo, il luogo dell’anima, dove si aveva ( e si ha casa) avevi i compiti preassegnati dai genitori. La mattina si accompagnava il papà in campagna per i lavoretti di stagione, tra questi il problema dell’irrigazione che è stato sempre un dramma per la carenza d’acqua (come quest’anno), poi gli anticrittogamici per le malattie delle piante e se qualcuno aveva provveduto a piantare frutta di stagione a raccogliere i cetrioli, i peperoni, i pomodori o i cocomeri.
Alle undici, rigorosamente dopo il 29 giugno, perché una triste leggenda impediva di fare il bagno prima di quella data, il tuffo in mare. Nuotata di rito fino a quando le labbra non diventavano nere, poi sulla spiaggia, ad “arrenarsi” a buttarsi sulla “rena” che bruciava per il calore e cosi riscaldarsi per poi rituffarsi. Qualche volta si preparavano i sacchetti per i tuffi dall’alto, qualche altra la gara “alle calate”. Farsi spingere il malcapitato, cioè, dalla testa e possibilmente arrivare a toccare terra sott’acqua. Era una gioia se il mare era calmo. Perchè, ove mai fosse stato agitato? Ancora meglio, per i giovanotti che si dovevano far vedere dalle amiche che erano capaci di tuffarsi anche quando c’erano i cavalloni che incutevano paura. I più arditi,però,non ne avevamo e riuscivamo a sfidare la furia delle onde, qualche volta correndo il pericolo di non riuscire a venir fuori.
Eravamo costretti ad aspettare un po’ di “calmeria” che di tanto in tanto arrivava. Si era fatta l’ora di pranzo, si doveva tirar la bottiglia dal pozzo dove, legata con una cordicella, mio padre, la faceva rinfrescare, poi si preparava – d’obbligo – l’idrolitina, poi ancora si portava in cucina il cocomero che mia madre tagliava a fette. Nel frattempo aveva preparato i peperoni arrostiti sulla “fornacetta”! E poi? Poi c’era il rito della pennichella che precedeva i compiti che gli insegnanti ti avevano assegnato. Fino alle 18. Dalle 18 alle venti si tornava sulla spiaggia, giusto per non perdere l’abitudine. Si giocava, anche se c’era chi tornava a fare il bagno. Tamburelli o, sotto le barche, il gioco a carte napoletane. Senza soldi, anche perché non ce ne erano. Poi, il rientro per la cena. Ed infine, udite, udite, a parte quanti tornavano a mare, si stava seduti di fronte all’uscio di casa a “spettegolare” con genitori, parenti ed amici, con la scusa di prendere un po’ d’aria fresca. Naturalmente di condizionatori neanche a parlarne. Non c’era il frigorifero! C’era la spensieratezza, però! L’ansia non si sapeva cosa fosse, chi più chi meno. La compagna di vita era la gioventù che passa in fretta e non torna più. Memento!