di GIULIA MELLISSARI – Uno dei discorsi più incisivi di don Italo Calabrò è stato l’incontro con gli allora studenti del Liceo Scientifico Vinci, incentrato sull’importanza di non delegare la propria vita agli altri. Di essere, in qualche modo, protagonisti delle scelte all’interno di una comunità
Nei vari tavoli tematici e convegni, si sente spesso parlare dei giovani senza i giovani. Già da qui si percepisce una distanza netta — e proprio qui si innesta il cuore di questo articolo. Don Italo parlava ai giovani, con i giovani. Dava loro fiducia anche attraverso parole “dure”, che scuotevano le coscienze, o che oggi definiremmo capaci di stimolare il pensiero critico.
Ecco cosa manca oggi: punti di riferimento al di là della famiglia.
La famiglia è al centro di ogni discorso sul supporto alla genitorialità, sul cambiamento che sta attraversando, su cosa intendiamo oggi per “famiglia”. Ma cresciamo convinti che basti la famiglia a tenerci al sicuro. E per un po’, è vero. Poi arriva un momento, spesso precoce, in cui i giovani iniziano a cercare altrove: non solo conforto, ma direzione. Cercano sguardi che li vedano, orecchie che li ascoltino, voci che dicano “ci sei”, prima ancora di “ce la farai”. Cercano adulti che non siano solo “grandi”, ma presenti.
Bisogna prendersi le proprie responsabilità: gli adulti hanno smesso, in molti casi, di essere punti di riferimento. Preferiscono restare nel proprio salotto o dietro uno schermo — proprio quello smartphone di cui spesso si critica l’uso improprio da parte dei giovani. Ma forse dovremmo domandarci perché lo usano così. Forse perché anche gli adulti sono, in fondo, altrettanto impreparati. Intanto si pontifica su cosa sia giusto o sbagliato, si parla di “comunità educante” senza capire davvero da dove bisogna partire.
Ecco, don Italo lo sapeva bene. E lo trasmetteva con tutto sé stesso. Lui era un pezzetto di quella comunità educante che oggi, faticosamente e in modo ancora troppo sporadico, stiamo cercando di costruire.
Proprio l’altro giorno riflettevo sulla parola “talento”. Avendo fatto sport, l’ho sentita spesso. Ultimamente, la sento sempre meno. Mancano figure ponte, adulti guida, presenze che sappiano riconoscere il talento e accompagnarlo. Così i giovani crescono nel rumore del mondo, ma con una grande assenza: quella di qualcuno che dica loro che valgono, che hanno un dono, che possono provarci, anche sbagliando.
La mancanza di figure di riferimento non è solo un vuoto emotivo: è un rischio educativo, sociale, persino politico. E lo stiamo vedendo chiaramente: questo vuoto alimenta rabbia sociale, estremismi, senso di disorientamento. È lì che si insinuano modelli distorti — influencer che esibiscono successo senza sforzo, narrazioni tossiche di potere, mascolinità deviate, femminilità stereotipate. Oppure, peggio ancora, realtà devianti che promettono appartenenza in cambio di obbedienza. Il bisogno di essere visti è universale: e se non trova spazi buoni, si adatta anche a quelli pericolosi.
Non servono supereroi. Servono adulti che ci siano. Chi ha un ruolo, occupi le piazze. Presìdi presenti non nei luoghi, ma nelle persone. Bisogna fare spazio. Creare spazio. Coltivare presenze.
Perché educare è un atto di comunità.
E forse è giunto il momento di non dire solo ai giovani di non delegare. È il momento di estendere quel messaggio di don Italo anche — e soprattutto — agli adulti.
Adulti che, troppo a lungo, hanno delegato. (gm)
[Giulia Melissari è del Centro Comunitario Agape]