di ROSARIO SPROVIERI – Mauro Russo pittore, in questo periodo, attraversando le stanze del tempo, vive giorni fatti di ore intense, piene della vivacità del clima culturale dell’Urbe. L’artista è venuto al mondo a Limbadi, in quel di Calabria e poi cresciuto fra le case dell’antica Hipponion, ribattezzata Valentia dai Romani (detta anche Vibo), poi nomata Monteleone da Federico II di Svevia. Quella città magnogreca, che ha visto le sue corse a perdifiato, gli occhi di bambino, l’universo onirico e segreto, la caccia ai sogni lontani, il suo sguardo verso i rari arcobaleni e, quella fretta dell’inseguire veloce, veloce, il tempo del futuro.
Succede che Mauro maturi con perentorietà e con convinzione, in un tempo precoce, quella sua amata voglia, quella spinta ideale irrefrenabile che, lo porta verso la fuga da ogni distrazione e da gran parte degli interessi per le banalità di “massa”. Il tutto, lontano da snobismo, da manie di grandezza e, da pretestuosi distinguo; ma che comunque, lo sospinge verso nuove vie, dove ogni cosa, se pur diversa, è maturata con serenità e riflessione, con estasi e contemplazione: la “via è l’Arte”, la bellezza della natura e, il mosaico di ogni dettaglio visibile al mondo.
Quell’Estraniarsi per ritrovarsi, che assume senso solo in forza dell’essere se stessi, del ri-darsi, del dare testimonianza di ciò che siamo, all’incedere del tempo. Per attenuare le inquietudini, trovare acque più placide cristalline e, per avere con il mondo, un armonico intenso respiro. L’arte è il mezzo, la via e, la speranza, il giovane Russo, trova quì la spinta verso la limpidezza e il chiarore della luce. Un rapimento, una specie di trance che, lo porta a connettersi con le dimensioni del divino.
Mi sono sempre sentito un po’ come “er barcarolo che va controcorente”, ci sussurra sottovoce, come un pianissimo di Chopin. Poi continua senza freni: alle dispute calcistiche, alle animose contese della politica, alla latina “saudade”, che poi, è la noia delle periferie, alle giornate d’inedia totale di un assolato Mezzogiorno, ho trovato la mia via di fuga: l’Arte, il dipingere.
La curiosità della conoscenza delle inimmaginabili vite d’artista, la forza l’ho presa dai loro consigli, dal modo d’invogliarmi, dalle parole sussurrate dall’amore materno di una madre straordinaria, dalla sua vigile pazienza, da quella fiducia infinita verso di me, verso ogni cosa che facevo, verso quello che era l’avvio dei miei grandi sogni di bambino.
All’Istituto d’Arte di Vibo Valentia, ho incontrato uomini da legenda, professori incredibili. Fra tanti ottimi docenti, conservo memoria viva, del professor Giuseppe Pontoriero Luzzaro. Il professore insegnava da anni all’artistico di Vibo e, per tanti studenti come me, era un vero e proprio punto di riferimento, non solo per il percorso scolastico, ma soprattutto umano. Un maestro di vita, Giuseppe Ponturiero Luzzaro, pittore e aviatore, era di Spilinga, un artista vero, già affermato non solo in Calabria.
Per dar seguito agli studi, mi iscrissi all’Accademia delle Belle Arti nella città della Fata Morgana, a Reggio Calabria.
Anni concitati, intensi, ma ricchi di soddisfazioni, quelli che ho speso a Reggio; dove ho assistito alle memorabili lezioni del professor Salvatore Mazzeo. Ad un certo punto, con la determinazione consueta, decido di dare un taglio al cordone ombelicale, ai legami di terra e famiglia e, non con poca sofferenza, scelgo di trasferirmi a Milano.
«Mi tocca il “fardello dell’emigrante”, ne porto il peso non solo materialmente, ma soprattutto labirintico, enigmatico e colmo di ansie e aspettative. Portavo con me la Calabria, in una valigia colma di speranze; avevo legato: il peso dei ricordi, le persone che avevo amato, i giorni del tempo trascorso, l’azzurro del mio mare, i muti pensieri e i giorni di festa rimasti per sempre nel cuore. La lontananza si sa, irrobustisce l’appartenenza; anch’io ho cercato sempre di trattenere e di restare incollato alle mie origini, alle mie cose, alle mie storie; erano il mio ricco tesoro, gli affetti di una vita, amori che non le avevo mai lasciato… li avevo portati per sempre con me. A Milano frequento, sin da subito, l’Accademia a Brera, ricordo ancora l’ardua impresa per l’ammissione; quando alle selezioni di quel corso abilitante, risultammo ammessi solo in venti, su oltre 1116 pretendenti».
Una bella tempra quella del giovane Russo, l’inclinazione, la voglia, l’ostinata determinazione, sono state davvero un buon principio, un’ottima spinta per affrontare ogni cosa. «L’arte è stata ed è, la mia esigenza», la principale necessità, un bisogno irrinunciabile; per me è l’aria che respiro, il disegno del mio pensiero. L’arte vive, pulsa, è l’armonia che riempie il mio tempo, essenziale. Non ho mai considerato il fare arte, come il mettere o, buttare lì una qualsiasi macchia su una qualsiasi tela.
Oggi, credo di avere già un archivio personale, di buona entità, seicento dipinti, che sono sintesi del pensiero, storie che appartengono alla mia vita, progetti visivi del mio respiro. E’ vero, sono quasi sempre incollato al cavalletto, è lì che rintraccio ancora gran parte di me stesso, a fianco di quelle assi di legno dò forma alle narrazioni della mia mente, affronto la profondità di ogni mio dubbio e, lì che cerco di trovare risposte a tanti miei tormenti.
Ho trovato stimoli nella letteratura, nella poesia, nella musica, ma forse – per correttezza – sarebbe meglio dire, in tutto ciò che ho potuto conoscere; nella società degli umani e nella natura; dovunque. Credo che i miei quadri, siano nati e riguardino anche alle persone che mi appartengono o mi sono appartenute, alle cose che vedo, ai libri che leggo. A quel cogito ergo sum di Cartesiana memoria.
L’immagine del leggere, per me non è soltanto letterale, ma è vedere oltre, spingersi al di là di ogni parola e, saper percepire cose, che di solito intravvedono gli artisti. Così succede anche “leggendo” non solo le narrazioni, ma tutto ciò di cui ci racconta la natura. L’opera non è mai “fotografia di una scena reale”, perché ogni visione nasce da una immagine introiettata dentro e rielaborata dallo spirito, dalle armonie dell’anima, dalla ricchezza del cuore.
È sostanziale, c’è differenza tra il guardare e il vedere. Guardare: mi affaccio alla finestra e vedo, vedere è un’altra cosa, implica guardare, capire, comprendere fino infondo; la pittura è l’unico strumento per non rimanere a livello epidermico, l’unico strumento che mi permette di addentrarmi nella profondità.
So che in questo tempo, manca un vero confronto – come accadeva negli anni del dopoguerra – che sono oramai pochi gli scambi reali, fra le esperienze più diverse nel campo dell’arte; so perfettamente che i conciliaboli fra artisti si sono rarefatti sino alla sparizione, ma pur ritenendo tutto ciò un punto di caduta della natura della “vita d’Artista”, so’ che al pittore vero, quello che necessita di più, è il dialogo solingo con la sua anima. L’introspezione – spesso – fa il genio, osservi, vedi, accumuli, poi “rielabori” e inventi, facendo ricorso alle tue forze, alle tue conoscenze, al tuo modo personale di prendere coscienza di ogni cosa e di tutte le espressioni d’arte che ti trovi dinnanzi.
Della contemporaneità, hanno parlato diversi critici letterari, storici dell’arte, tanti addetti lavori, ma ciò che ha cambiato il mio modo di stare al mondo, è stato Sigmund Freud, sono stato catturato dalle sue tematiche, dalle sue ricerche filosofiche sul mondo interiore, sulla psiche, sui territori da esplorare dentro di ognuno di noi, sul mondo dell’inconscio. Forse è proprio lì che si annidano, l’humus e la fertilità dell’artista; ed è addentrandosi e disvelandone i luoghi che, ogni artista diventa più creativo e solo.
Anche per l’arte, questo tempo è un momento di trasformazioni repentine, il più delle volte del tutto incontrollate e sfuggenti; sono spariti i vecchi punti di riferimento, il sistema si è un po’ incrinato. Non esiste quasi più, il gallerista che per vocazione, investiva sul pittore né il critico d’arte che dissertava e proponeva opere e messaggi della creatività dell’estro dell’artista. L’anarchia odierna è in mano a “Santi” che non conoscono paradiso, al di là della pecunia.
Oggi il pittore pur lavorando alacremente somiglia sempre di più a “Sisifo”: porta in alto il peso, fa emergere l’opera, risale ogni montagna, per poi precipitare vorticosamente all’ingiù, per tentare ancora di sollevarsi e riprendere nuovamente il cammino dalla quota più bassa. In più la “modernità” ha moltiplicato i frequentatori dell’Arte, schiere di “dilettanti” che tentano la “sorte”, spendono fra tavolozze e pennelli il tempo libero, una mezza giornata di festa, una parte delle loro ore di noia; molti s’illudono, credono che l’arte sia come l’andare un’ora in palestra… cosa che è la negazione totale di ogni forma d’arte.
Abbiamo tutti un tempo breve, l’arte è la medicina per la nostra inquietudine, ma se non sai dove cercare, nelle profondità più imperscrutabili dell’anima, non farai mai arte, ma decorazioni, guarniture ornamenti. Spesso ricordo il refrain di un mio vecchio maestro: “l’acqua cheta e la noia borghese, non fanno pittori”.
Niente e nessuno potrà impedire a chiunque di sentirsi pittore, ma per esserlo davvero, è necessario tutto quello che ci siamo detti prima: Pittore è risultato di un processo mentale, non solo di una mano che ben si muove fra colore e tela. (rs)