“FARE” E NON “DEFINIRE” I LEP: SOLO COSÌ
SI PUÒ INIZIARE A PARLARE DI PARI DIRITTI

di PINO APRILE – Prima si fanno i Lep, i livelli essenziali (e uniformi) delle prestazioni (sanità, istruzione, trasporti…), e dopo l’Autonomia regionale (non differenziata). Ripeto: si fanno, non “si definiscono” i Lep o “si finanziano”.

Si fanno; ovvero: prima si mettono tutti gli italiani nella stessa condizione (stessi treni, stesse autostrade, stessi diritti all’istruzione, alla salute, al lavoro…) e poi si può pensare di porli in concorrenza nella gestione dei servizi da garantire ai cittadini “e vediamo chi è più bravo”. Chiaro, no? E semplice. Il contrario è barare, rubare, voler vincere facile: la sapete quella del campionato di pallanuoto nel lager nazista, “prigionieri contro alligatori”? È questo che hanno in mente i secessionisti arricchiti a spese di tutt’Italia e i razzisti.

E fingono di non capire: come grande concessione, il ministro leghista all’Apartheid (“alle Autonomie e alle Regioni”. Del Nord) offre alle tribù terroniche, che i Lep siano definiti in sei mesi (non ci sono riusciti il 22 anni, ora vogliono farci credere di sbrigarsela in 180 giorni), da una commissione furbescamente a maggioranza leghista (ovvero del partito retto da un condannato per razzismo); e, ove non ci si riuscisse (pare che si corra tale rischio!), si gira tutto a un commissario unico con il compito di far da solo quello di cui non è stata capace la “qualificata” commissione.
Tempo? Sei mesi, ferie e feste comprese; poi un decreto preparato da Calderoli e firmato da Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, trattata («Firma qua!») qual prestanome da falso condominiale, visto che il capo del governo può emettere decreti amministrativi, non leggi di rilievo costituzionale (non lo dico io, ma giuristi); quindi, un passaggio pro-forma in parlamento: zero diritto e possibilità di intervenire, solo votare sì o no a scatola chiusa, per approvare come gregge o cade il governo e si va tutti a casa! Fine della favoletta dell’estrema destra che raggiunge il potere e tenta di camuffarsi da partito conservatore, mostrandosi obbediente ai veri padroni del vapore, nazionali e no (tassare gli extra-profitti delle grandi compagnie dell’energia, come gridato da Giorgia Meloni pre-governo? No: bollette mostruose a famiglie e aziende, come prima; taglio di accise sui carburanti, come da Meloni e Salvini pre-governo? No: prezzi da strozzini alla pompa, come prima; eccetera).
E con questo, “definire i Lep”, il furbetto del Giambellino, Calderoli Roberto, pensa di liquidare la faccenda. Ma posto che davvero li definiscano (ripeto: in sei mesi, dopo 22 inutili anni), poi bisogna finanziarli: i servizi, dalla salute alla scuola eccetera, hanno un costo, vanno pagati. Con quali soldi? E qui Calderoli svicola, di fatto, nella sua bozza per l’Autonomia differenziata: in pratica, andrebbero finanziati, senza toccare il dippiù che da sempre le Regioni arricchite del Nord si prendono a spese del resto del Paese. Una presa in giro, perché soldi non ce ne sono: siamo in deficit.
E poni si riuscisse a ricavarne fra le pieghe di bilancio, si tratterebbe di qualche miliardo? Addirittura qualche decina? Sono tanti? Pochi? Sono nulla, visto che solo per i tre-quattro servizi essenziali più importanti (e in elenco ce ne sono 23, pur se non tutti con uso di Lep), di miliardi ne servono da 80 a 100, calcolò l’allora ministro incaricato Francesco Boccia. Quindi, ci vogliono fottere, ancora una volta, con il giochino delle tre carte padane.
Ma facciamo un salto nel mondo della fantasia e immaginiamo che davvero si disponga che i Lep vengano finanziati per come è necessario (dai cento miliardi in avanti, tutti insieme, al Sud, per i diritti sempre negati. Pozz’essere cecato chi nun ce crede). Potremmo sentirci finalmente garantiti e sarebbe soddisfatta la condizione “Prima il Lep”, poi l’Autonomia (non differenziata)?
I finanziamenti sono una certezza a Nord e volatili a Sud. Devo ricordare qualche esempio? Un governo Berlusconi stanziò 3,5 miliardi di euro per la realizzazione delle prime opere del Ponte sullo Stretto di Messina (ma a me piace chiamarlo, come suggerisce il professor Pasquale Amato: Stretto di Scilla e Cariddi); il governo cade, arriva Prodi, leva i 3,5 miliardi dal Ponte (lui è contrario) e li destina sempre a quell’area geografica, ma per strade dissestate e porti; il governo cade e torna Berlusconi: il ministro Tremonti toglie quei 3,5 miliardi da strade e porti di Sicilia e Calabria e li usa per abbuonare l’ici sulle case di lusso (una delle poche tasse sui ricchi).
E il miliardo per i ricercatori del Sud e le start-up (nuove aziende) da far sorgere sulle loro idee, stanziato dal governo Prodi? Con il governo Berlusconi lo stanziamento viene girato alle società di navigazione sul lago di Garda, per l’illuminazione del Veneto, l’industria delle armi bresciana, e altre urgenze nordiche. E i soldi per il Sud spesi per aiutare le aziende casearie emiliane, con l’acquisto di stato e di favore di centomila forme di parmigiano? E i 3,5 miliardi bloccati per il Sud, con legge, nel Fondo di Coesione? Il governo Renzi, per mano del ministro Graziano Delrio li sblocca cambiando la legge e li usa per incrementare l’occupazione al Nord, dove c’è il più basso tasso di disoccupazione, a danno del Sud, che ha il maggior indice europeo di senza lavoro. Devo continuare?
Quindi, “definire” i Lep non garantisce niente; “finanziarli” nemmeno; fare i Lep può garantire qualcosa, verificando cosa e quanto e come. Solo allora, a parità di diritti riconosciuti e ugualmente resi a tutti gli italiani e ai territori, di Autonomia (non differenziata) si potrebbe, forse, parlare. Questa è una cosa chiarissima, ma intorbidiscono le acque, per celare l’ovvio.
La determinazione e la spudoratezza con cui un partitino dell’8 per cento (in calo) lo fa, sono accentuate dall’imminenza delle elezioni regionali in Lombardia, dove il candidato della Lega è un ronzino zoppo: Attilio Fontana, il presidente della Regione che gestì peggio di tutti (non in Italia, al mondo, secondo il Los Angeles Time) la pandemia di covid-19, facendo riaprire gli ospedali infetti e liberamente andar via nel resto del Paese, dalle zone dei focolai, centinaia di migliaia di persone senza alcun controllo. In più, fallita la strategia della “Lega nazionale”, e mentre rischia la scissione guidata da Umberto Bossi, Salvini punta sull’Autonomia differenziata per rinverdire gli egoismi animali della Lega-Nord. Se perde le elezioni pure in Lombardia, non gli resta che cercare qualcosa che (come Bossi e altri) non ha mai conosciuto in vita sua: un lavoro.
Giorgia Meloni è ostaggio della disperazione leghista, del confuso attivismo del suo ministro all’Apartheid e delle balle senza ritegno dei sostenitori della Secessione dei ricchi, da Stefano Bonaccini, Pd, presidente dell’Emilia Romagna, a Luca Zaia, Lega, presidente del Veneto. Il primo continua a dire di non volere un euro in più di quanto già riceva la sua Regione e a sperare che la furbata passi non capita.
Il fatto è che proprio il criterio di suddivisione delle risorse nazionali seguito finora, la “spesa storica” (troppo, quasi tutto a poche regioni del Nord, e il nulla o poco più al Sud) è la causa dello squilibrio economico e geografico; ed è la “spesa storica” che i marpioni pigliatutto vogliono garantirsi con legge costituzionale: «Non chiediamo un euro in più», dice, senza vergogna, Bonaccini (Ma va’!); nella più recente delle interviste in ginocchio del Corriere della sera a Zaia, il presidente veneto, senza obiezioni da parte dell’intervistator cortese, spara castronerie galattiche, tipo: «Non ci sono regioni più ricche, perché hanno avuto di più» (no: quelle del Nord emersero dalle acque primordiali già con tutte le autostrade, le ferrovie, l’alta velocità, i Centri di ricerca, le pedemontane a costi da record mondiale a chilometro e non percorse da nessuno, le Olimpiadi invernali a costo zero e le Expo strafinanziate che chiudono in deficit…: mica roba pagata da tutti gli italiani; mentre le Ferrovie dello stato non sanno che esiste Matera, nei paesi del Sud non si arriva perché le strade sono franate, il Ponte sullo Stretto non si fa, perché c’è la mafia, che va bene, “imprenditoriale” solo al Nord…); oppure che l’Autonomia ci può «rendere un Paese bellissimo e con infinite risorse» (al Nord, ovvio, sottraendole agli altri), «moderno come il mondo ormai richiede».
Sì, Zaia, e sarà ogni giorno Natale, festa tutto l’anno, il leone e l’agnello giaceranno insieme (ma l’agnello non chiuderà occhio, se ricordate la battuta). L’altra carognata con cui vogliono rendere “logica” la pretesa dell’Autonomia differenziata è: noi (faccio un esempio semplificato) abbiamo scolari che finite le elementari, devono proseguire gli studi e serve costruire le scuole medie, perché non dovremmo avere (da tutti gli altri) i soldi per farle, solo perché al Sud sono analfabeti?
Il fatto è che le elementari, con i soldi di tutti, le hanno fatte solo al Nord e al Sud sono rimasti analfabeti; ora, quel vantaggio acquisito a danno dell’equità territoriale e della parità dei diritti, diviene un merito del ladro e una colpa del derubato, perché il primo continuerà a pretendere (vuoi fermare la locomotiva?) le scuole superiori, le università e il secondo sarà insultato per la sua ignoranza, mentre resta senza le elementari, perché non ci sono soldi per tutti e per tutto (ma quelli di tutti sempre agli stessi, sì). È così che al Nord progettano di farsi finanziare l’hyperloop (il treno monorotaia da 1.200 km all’ora), mentre al Sud son stati tagliati più di mille chilometri di ferrovia e città capoluogo di Provincia (non solo Matera) sono senza treni e per curarsi, studiare, lavorare, bisogna emigrare inseguendo i soldi rubati al Mezzogiorno.
Ma così quanto tempo ci vuole per metter tutti gli italiani a parità di diritti e condizioni? E che ne so: anni? Decenni? E a quando slitterebbe, così, l’Autonomia (non differenziata)? Non ne ho idea e me ne occupo: il mio problema è riuscire a diventare, dopo più di 160 anni, un cittadino italiano vero, non di serie inferiore.
Giorgia Meloni è finalmente (sogno della vita sua e dell’estrema destra) al governo del Paese, anzi, “della Nazione”; ma può restarci solo se non rompe con la Lega-Nord che la ricatta; e quindi deve assecondarla sull’Autonomia differenziata. Ma se passa quella porcheria, si rompe il Paese, anzi “la Nazione”, per eccesso di disuguaglianze (l’Italia è già il Paese più ingiusto del mondo) e perché il Sud, sempre più convinto che meglio soli che mal accompagnati, se non c’è parità di diritti e possibilità, comincia seriamente a considerare la secessione come l’unica via di uscita da uno stato coloniale. (pa)

PER SVIMEZ, NEL 2022 IL SUD IN RECESSIONE
IL PIL DELLA CALABRIA SI FERMERÀ A -0,9%

di FILIPPO VELTRILe previsioni Svimez segnalano per il 2023 il rischio di una contrazione del Pil nel Mezzogiorno dello 0,4%, un peggioramento della congiuntura determinata soprattutto dalla contrazione della spesa delle famiglie in consumi, a fronte della continuazione del ciclo espansivo, sia pure in forte rallentamento nel Centro-Nord (+0,8%).

Il 2024 dovrebbe essere un anno di ripresa sulla scia del generale miglioramento della congiuntura internazionale, unitamente alla continuazione del rientro dall’inflazione che scende al +2,5% e +3,2% nel Centro-Nord e nel Mezzogiorno nell’anno. Si stima che il Pil aumenti nel 2024 dell’1,5% a livello nazionale, per effetto del +1,7% nel Centro-Nord e dello +0,9% al Sud.

Il dato del Sud, di per sé apprezzabile visto che dovrebbe tornare in territorio positivo dopo il calo del 2023, sarebbe comunque sensibilmente inferiore a quello del resto del Paese. Un aspetto strutturale che contribuisce a spiegare la debole ripartenza meridionale è rintracciabile sul lato dell’offerta: a seguito dei continui restringimenti di base produttiva sofferti dal Sud dal 2008, si è sensibilmente ridimensionata la capacità del sistema produttivo dell’area di agganciare le fasi espansive del ciclo economico.

Dopo lo shock della pandemia, l’Italia ha conosciuto una ripartenza pressoché uniforme tra macro-aree. Il “rimbalzo” del Pil nel 2021, +6,6% a livello Paese, è stato sostenuto dalla ripresa degli investimenti, soprattutto quelli in costruzioni, e dalla domanda estera, interessando tutte le aree del Paese, ma è stata più rapida nel Nord (+7,5% nel Nord-Est; +7% nel Nord-Ovest), dove più pronunciata era stata la recessione del 2020. Il Mezzogiorno ha però partecipato alla ripartenza nel 2021: il Pil meridionale è cresciuto infatti del 5,9%, superando la media dell’Ue-27 (+5,4%), beneficiando dell’inedita intonazione espansiva delle politiche a sostegno dei redditi delle famiglie e della liquidità delle imprese che hanno contribuito a sostenere i consumi e a preservare condizioni favorevoli di continuità operativa per le attività economiche.

I sistemi produttivi delle regioni meridionali si sono mostrati meno pronti ad agganciare la domanda globale in risalita, registrando un ritmo di crescita dell’export più contenuto del resto del Paese. Gli investimenti delle imprese orientati all’ampliamento della capacità produttiva, inoltre, sono stati meno reattivi nel Mezzogiorno. Sono stati soprattutto quelli in costruzioni a crescere nel Sud, grazie allo stimolo pubblico (Ecobonus 110% e interventi finanziati dal Pnrr). Le dinamiche globali avverse, compreso il trauma della guerra, hanno esposto l’economia italiana a nuove turbolenze, allontanandola dal sentiero di una ripartenza relativamente coesa tra Nord e Sud del Paese. Nel corso del 2022 la Svimez ipotizza una crescita media dei prezzi al consumo dell’8,5%; dato che racchiude una significativa differenziazione territoriale: + 8,3% al Centro-Nord e +9,9% nel Mezzogiorno, con un differenziale sfavorevole al Sud dovuto in larga parte a un effetto composizione. o assunto proporzioni drammatiche.

Al netto del peggioramento delle condizioni rilevate nel corso del 2020, l’insieme di queste misure ha avuto effetti significativi nel contrastare la povertà. Nel 2020, dunque, i corposi trasferimenti governativi hanno preservato le condizioni economiche delle famiglie, limitando fortemente la contrazione dei redditi. Gli effetti delle misure per contrastare gli effetti della pandemia sono stati positivi anche nel mitigare le disuguaglianze. Senza questi interventi le famiglie povere sarebbero state quasi 2,5 milioni, quasi 450 mila in più rispetto al valore registrato nel 2020 (poco più di 2 milioni), cui corrispondono oltre un milione di persone in meno in condizione di povertà assoluta (-750 mila al Sud e -260 mila al Centro-Nord). Senza le erogazioni le famiglie in povertà assoluta sarebbero state il 9,4% anziché il 7,7%, l’incidenza per le persone sarebbe aumentata all’11,1% anziché fermarsi al 9,4%. In particolare, nelle regioni meridionali, senza sussidi l’incidenza della povertà assoluta fra le famiglie avrebbe raggiunto un picco drammatico di circa 13 famiglie ogni 100 (13,2% al Sud e 12,9% nelle Isole), che grazie agli interventi cala di 3,4 punti al Sud e 4,5 punti nelle Isole. assoluta di 2,8 punti percentuali nel Mezzogiorno contro lo 0,4 del Nord e lo 0,5 del Centro.

In valori assoluti al Sud sarebbero circa mezzo milione di poveri in più. Il risultato stimato per il Sud è spiegato essenzialmente dalla maggiore diffusione nelle regioni meridionali di famiglie più numerose (numero di componenti maggiore di 3) e con minori a carico per le quali il rischio povertà è segnatamente più elevato rispetto ai nuclei più ridimensionati.

Nel Mezzogiorno la ripresa occupazionale è stata tuttavia di bassa qualità, alimentandosi all’aumento della precarietà è tornata sui livelli pre-pandemia, in anticipo rispetto al Centro-Nord attestandosi su livelli comunque inferiori rispetto al 2008 (–2,9%), al contrario di quanto avvenuto nel Centro-Nord (+2,6%). L’occupazione (media dei primi due trimestri), cresciuta in Italia del 3,6% (+791 mila unità) nel 2022, rispetto alla prima metà del 2021, ha premiato soltanto i maschi con un +0,2%, a fronte di un moderato calo dell’occupazione femminile a–0,8%. Più precari e più a lungo, in sintesi: ciò si traduce in una maggiore percezione di insicurezza del lavoro nelle regioni meridionali.

Tra i divari tra Nord e Sud rimangono preoccupanti quelli nella filiera dell’istruzione. I servizi socio-educativi per l’infanzia sono caratterizzati dall’estrema frammentarietà dell’offerta e da profondi divari territoriali nella dotazione di strutture e nella spesa pubblica corrente utilizzata dalle Amministrazioni locali. In Italia la percentuale dei bambini di età compresa fra i 3 e i 5 anni che frequenta una struttura educativa (93,2%) è più alta della media europea (89,6%).

Nella scuola d’infanzia, la carenza d’offerta a sfavore del Mezzogiorno riguarda soprattutto gli orari di frequenza. Nel Mezzogiorno è molto meno diffuso l’orario prolungato (offerto solo al 4,8% dei bambini); viceversa è più diffuso l’orario ridotto (20,1%) rispetto al Centro-Nord: 17,0% e 3,6% rispettivamente per orario prolungato e ridotto. Mentre nella scuola primaria la percentuale di alunni che frequenta a tempo pieno è più bassa nelle regioni meridionali (18,6%) rispetto al resto del Paese (48,5%). Nel Mezzogiorno circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale. Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%). Nel Centro-Nord gli allievi della primaria senza palestra corrispondono al 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.  (fv)

Statti (Confagricoltura Calabria): Mezzogiorno grande assente dalla legge di Bilancio 2023

«Il Mezzogiorno è il grande assente nel disegno di legge di Bilancio del 2023», ha denunciato il presidente di Confagricoltura Calabria, Alberto Statti, spiegando che «non c’è nessun riferimento nel testo varato dall’esecutivo Meloni a misure che tengano conto della delicata situazione che vive questa area del Paese e la Calabria in particolare».

Questo, per Statti, è «una grave disattenzione del Governo».

«Misure come il credito di imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno – ha sottolineato Statti – che si sono rilevanti importanti per generare sviluppo ed occupazione nella nostra regione, non vengono rinnovati. E non c’è traccia di iniziative che possano sostenere imprese che lavorano o hanno intenzione di investire in Calabria».

«In questo modo – ha aggiunto – c’è il rischio concreto che il divario tra regioni particolarmente fragili come la nostra ed il resto del Paese possa crescere sensibilmente. Soprattutto alla luce dell’intenzione palesata dal Governo di voler accelerare sull’autonomia differenziata».

«Occorrono correttivi alla manovra finanziaria – ha evidenziato Statti – che così come impostata dimostra scarsa attenzione a quanti lavorano per consentire alla Calabria di recuperare terreno e di creare condizioni favorevoli affinché si limiti la fuga di cervelli e capitali da una regione già fortemente fragile».

«C’è la necessità che i parlamentari calabresi – ha concluso Statti – facciano fronte comune per impedire che si perpetui ai danni della Calabria e del Sud in generale quella che riteniamo una vera e propria ingiustizia. Siamo convinti che esistano i margini per spingere il Governo ed il Parlamento a sanare questa grave mancanza». (rcz)

È CAMBIATA LA MUSICA: IL MEZZOGIORNO
NON È PIÙ PASSIVO E VUOLE I SUOI DIRITTI

di PIETRO MASSIMO BUSETTAIl Mezzogiorno corpo morto che non reagisce più a nessun stimolo? Forse in passato era così. Oggi sta diventando una realtà che prende consapevolezza dei suoi diritti e, si spera, anche dei suoi doveri.

Per questo è necessario che il Governo nazionale stia molto attento rispetto ai provvedimenti che, mal consigliato dalla Lega, ha intenzione di prendere, in particolare rispetto al reddito di cittadinanza e anche all’autonomia differenziata. Certo, rispetto al grande, pericoloso e competente attivismo del ministro Calderoli, le reazioni più naturali sarebbero state quelle di una levata di scudi generalizzata, progressivamente, fino ad un blocco totale di tutte le attività.

Se si vuole istituzionalizzare  il principio che i diritti di cittadinanza sono diversi, come già oggi avviene, tra le diverse parti del Paese, e cioè che esistono cittadini e coloni, individui di serie A e di serie B, persone che hanno diritto ad una scuola con il tempo pieno, agli asili nido, ad una mobilità di buon livello su treni e auto, a vivere più a lungo in media, ad una sanità più efficace ed efficiente, a un lavoro ed altri che invece, solo perché sono nati sotto il Garigliano, hanno meno diritti, allora qualunque tipo di reazione potrebbe essere consentita. 

Visto peraltro che in termini di tassazione, come prevede la nostra Costituzione, tutti i cittadini, in modo progressivo rispetto al reddito prodotto, partecipano alla tenuta del sistema fiscale nazionale.

Il Quotidiano del Sud, ed Il nostro Direttore in prima fila, hanno fatto un’operazione verità importante per far capire che in realtà se ci fosse una spesa pro-capite uguale il Mezzogiorno avrebbe diritto a 60 miliardi di ristoro annui. E che l’autonomia avrebbe cristallizzato tale situazione. E da mesi porta avanti la sua battaglia ritornando sull’argomento con i suoi prestigiosi opinionisti.

 Ora arrivano le reazioni sia da parte dell’intellighenzia colta meridionale e dell’Accademia, che da parte della politica.

Massimo Villone, PRofessore emerito di diritto costituzionale dell’Università degli studi “Federico Secondo”, rappresentante del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, è passato all’attacco, insieme ai sindacati Nazionali della scuola Cgil, Cisl, Uil, Snals, e Gilda, presentando una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare che dice “no“ all’autonomia differenziata. 

 «La nostra proposta punta a riscrivere parte degli articoli 116 e 117 della Costituzione, almeno in quei commi che aprono a chi mina l’unità del Paese – spiega Villone –. Vogliamo tagliare gli artigli a chi lavora non per ridurre le disuguaglianze, ma per accrescerle».  

 «Con le modifiche proposte all’articolo 116 vogliamo scongiurare una frantumazione non reversibile del Paese. Un rischio gravissimo che è ciò che auspica Calderoli». 

«Le modifiche proposte limitano l’autonomia delle Regioni – continua Villone – introducono una clausola di supremazia della legge statale, affidano allo Stato la potestà legislativa su alcune materie cruciali come scuola, lavoro, coordinamento della finanza pubblica, reti di trasporto e comunicazione».

E si è già aperta una sottoscrizione che parte con 120 firme di costituzionalisti intellettuali e rappresentanti della società civile. Mentre da Bari Gianfranco Viesti continua a ad affermare che quella che si sta consumando è la secessione dei ricchi.

Ma anche tra i giornalisti Marco Esposito si spende con interventi mirati che dimostrano come l’affermazione che con l’autonomia il Nord non acquisisce più risorse sia falsa, dimostrando con una simulazione quello che accadrebbe nella scuola.

Pino Aprile, che ha dato indicazioni nel voto del 25 settembre di annullare la scheda votando no all’autonomia differenziata, adesso mira a consapevolizzare il pubblico ampio sui pericoli che il Mezzogiorno corre. L’Associazione Istituti Meridionalisti con il suo segretario Francesco Saverio Coppola rafforza il gruppo.  

Esempi di intellettuali del Sud, che non esitano a prendere posizioni estreme. il Partito Unico del Nord continua a dettare legge ad un Sud che, però, inizia ad avere consapevolezza di sé stesso. Per quanto attiene invece alle posizioni della politica la destra l’aveva nel suo programma elettorale, il terzo polo non ha preso posizione, ma la presenza della Gelmini al suo interno, che si era dichiarata favorevole da ministro per gli affari regionali, non fa ben sperare, I Cinque Stelle si sono pronunciati contro ed il Pd ha una posizione molto sbilanciata a favore

Infatti al di la delle affermazioni note di Stefano Bonaccini, quello che afferma Piero Fassino, certo non l’ultimo arrivato nel Pd è illuminante: «Due terzi del prelievo fiscale del nostro Paese sono attinti dai redditi del Nord. Due terzi o forse più delle partite Iva sono concentrati nel Nord. Nel Nord c’è una presenza di cittadini stranieri che è pari al 20 per cento a fronte della media nazionale del 7-8. Dalle regioni del Nord e da Emilia, Toscana e Marche parte l’80 per cento delle esportazioni italiane», dice Fassino in una intervista. Sottintendendo che è giusto che ognuno si tenga le risorse che produce. 

La risposta di Adriano Giannola, presidente di Svimez, che afferma «tutto ciò è un siluro alla Costituzione sin dal 2001 ed è fuori dalla legge del 2009 che è stata elaborata e firmata dall’attuale ministro Calderoli. Questa si chiama eversione», la dice lunga sul livello dello scontro. 

Il Sud fa sistema e capisce che l’argomento di un eguale interesse del Nord e del Sud per l’autonomia differenziata è una presa in giro. Non basterà Calderoli a vendere questo “pacco” al Sud. Vedremo quale sarà la posizione ufficiale del PD, soprattutto nel caso che Bonaccini diventi segretario. 

Intanto dice Villone «ne approfitti Fassino per studiare. Siamo ragionevolmente certi che anche i piemontesi, volendo, possono imparare».

Il sindaco di Napoli Manfredi, il Governatore della Campania De Luca, quello della Puglia Emiliano, in dissonanza con il partito di appartenenza, prendono posizione contro, facendo ben sperare su una mobilitazione più ampia.  Assente la Regione Siciliana e la Calabria sia perché i due presidenti sono del centro destra, che probabilmente, per la Sicilia, l’illusione che avendo una sua autonomia pensa, sbagliando, che le autonomie rafforzate delle Regioni del Nord non la riguardino. Il corpo provato di un Mezzogiorno esanime prova a reagire ad un attacco che lo vuole emarginare ulteriormente.  (pmb)

[Courtesy Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

CI PENSI IL MINISTERO DELL’ECONOMIA
A RILANCIARE DAVVERO IL MEZZOGIORNO

di ERCOLE INCALZASta cominciando una stagione nuova; è l’inizio di una nuova Legislatura ed è anche l’inizio di una esperienza che da molti anni il Paese non viveva: un politico alla gestione del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Con questo non intendo criticare l’operato dei Ministri tecnici che si sono succeduti nella gestione di tale Dicastero, anzi ritengo che Daniele Franco sia stato un grande Ministro, sia stato un membro del Governo che ha davvero reso il Pnrr un riferimento strategico difendibile e per rendersene conto del lavoro encomiabile fatto dal Ministro Franco è sufficiente leggere cosa era il Pnrr prodotto dal Governo Conte 2.

Ma affrontiamo il ritorno, dopo oltre venti anni di un Ministro politico al Dicastero di Via XX Settembre (ricordo in proposito che il Ministro Tremonti era stato eletto nelle fila di Forza Italia ma era e rimane senza dubbio un Ministro tecnico). Ed allora questo ritorno di un politico pone, a mio avviso, un problema non facile: come sarà affrontata la emergenza Mezzogiorno? Forse sarà bene che al Mezzogiorno pensi essenzialmente il Ministero dell’Economia e delle Finanze d’intesa con la Presidenza del Consiglio.

Non ha senso nominare un Ministro senza portafoglio per affrontare una emergenza che, soprattutto, nella passata Legislatura, in particolare con i Governi Conte 1 e Conte 2, ha prodotto solo annunci, ha sottoscritto solo impegni, ha garantito solo percentuali e che, nel campo delle infrastrutture, in particolare di quelle strategiche, ha però prodotto Stati Avanzamento Lavori (Sal) solo per circa 6 miliardi di euro in quasi cinque anni. 

Quindi primo atto da prendere subito dovrebbe essere quello di trasferire al Ministero dell’Economia e delle Finanze ed alla Presidenza del Consiglio la gestione delle scelte da varare per il rilancio di una realtà che, come da me più volte ricordato, da 70 anni mantiene inalterate tante distanze con il Centro Nord e tra queste una riveste una patologia incredibile per un Paese come il nostro “industrialmente avanzato”, mi riferisco alla distanza nel “reddito pro capite”. Sono diventato noioso ma chi non è noioso come me che ripete sistematicamente questo dato vuol dire che gode constatando che nel terzo millennio esista una dicotomia così folle.

La distanza è nota da sempre a tutti, alla Sinistra, al Centro ed alla Destra e, purtroppo, è rimasta solo nota e basta per la Sinistra, per il Centro e per la Destra. Anche perché non era e non è facile porre fine a questa drammatica ed offensiva discriminazione.

Riporto quindi un dato che, spesso, la stessa Unione Europea stenta a credere: in otto Regioni del paese il reddito pro capite si attesta su un valore medio pari a 17.400 euro, nel resto del Paese tale valore varia tra 32.000 e 40.000 euro. 

Allora l’agenda del nuovo Governo deve porre nella fascia temporale dei primi 100 giorni oltre alla esplosione delle bollette e quindi della crisi energetica, oltre alla crescita pericolosa della inflazione, la “emergenza del Mezzogiorno”. Non ha senso, ripeto ancora una volta, parlare di percentuali, non ha senso annunciare interventi inesistenti come le Zone Economiche Speciali (Zes) (decise con apposite norme cinque anni fa e rimaste solo tali), non ha senso nominare commissari per affrontare e risolvere problematiche che non saranno mai risolte.

Non voglio proporre soluzioni, o meglio, non voglio anticipare possibili soluzioni che competeranno al futuro Governo ma voglio solo ricordare un dato: la infrastrutturazione del Paese, sia quella relativa alle grandi reti di trasporto urbane ed extraurbane, sia quella legata alla funzionalità dei nodi urbani e logistici, sia quella legata al riassetto idrogeologico, sia quella legata al riassetto funzionale dell’offerta sanitaria e scolastica, sia quella legata all’articolata e complessa attività manutentiva, cioè tutti gli interventi che rendono vivibile e funzionale la griglia strutturale ed infrastrutturale su cui viviamo, se realizzata in modo organico e contestuale (per contestuale intendo avvio contemporaneo di tutti gli interventi e non per fasi disgiunte dell’intero processo), consente ad un sistema territoriale, già nella fase di avvio degli interventi, di crescere come Prodotto Interno Lordo per un valore superiore al 25 – 30% ed una volta completate le infrastrutture tale soglia si attesta su un valore stabile superiore al 15 – 20%.

Sappiamo, sulla base di una serie di studi ed approfondimenti fatti da diverse Società, che la sola infrastrutturazione organica e contestuale del Mezzogiorno ha un costo di circa 140 miliardi di euro. Il Pnrr ne assegna globalmente circa 55 miliardi e la cosa davvero non positiva e che questo volano di risorse presenti nel Pnrr è relativo a tessere infrastrutturali di un mosaico che non esiste; cioè segmenti di ferrovie, segmenti di interventi in aree urbane, segmenti in comparti logistici privi di un contesto pianificato, sono cioè tessere di un mosaico che volutamente non è stato neppure immaginato. Solo se il nuovo Governo accettasse da subito un approccio basato su almeno 4 condizioni chiave:

 

  • Il quadro globale delle iniziative infrastrutturali da avviare tutte contestualmente
  • Le esigenze finanziarie globali
  • Gli strumenti capaci di coinvolgere capitali privati ricorrendo a forme di Partenariato Pubblico Privato
  • La rivisitazione integrale dell’utilizzo del Fondo di Sviluppo e Coesione 


allora verrebbe meno questa prorogata atarassia che ha caratterizzato, specialmente durante i Governi Conte 1 e Conte 2, la politica del Governo nei confronti del Sud. 

Un simile approccio, in realtà, rappresenterebbe, finalmente un cambiamento sostanziale nei confronti di quell’area che geograficamente chiamiamo Sud ma che economicamente dovremmo definire “area del sottosviluppo”.

Devo però aggiungere una ulteriore condizione: il rispetto del “fattore tempo”, cioè la capacità che questo rivoluzionario processo accada a partire già nel primo semestre del 2023. 

Se lo si vuole è possibile realizzare un simile progetto e, sembra davvero strano ed inconcepibile ma questo approccio da sempre è seguito nelle aree settentrionali del Paese. (ei)

(Courtesy Il Quotidiano del Sud / L’altravoce dell’Italia)

REDDITO DI CITTADINANZA, TRA POLEMICA
ELETTORALE E SOSTEGNO PER I PIÙ DEBOLI

di PIETRO MASSIMO BUSETTAVoto di scambio o grido di dolore? Il reddito di cittadinanza continua ad essere un tema centrale rispetto all’andamento della competizione elettorale.

In molti lo ritengono uno strumento che è stato utilizzato in modo perverso da un raggruppamento politico senza scrupoli. Il Movimento Cinque stelle lo difende a spada tratta sfidando chiunque voglia eliminare una misura che, sostengono, ha salvato molti dalla povertà in un periodo particolarmente difficile, prima caratterizzato dalla pandemia ed ora da un aumento dell’inflazione che sta erodendo molti dei redditi degli italiani e delle pensioni, soprattutto quelle più basse. 

La cosa più facile é dire che incoraggia molti a scegliere di non lavorare, perché è molto più comodo avere un sussidio, che ti arriva mensilmente, piuttosto che faticare per avere un salario decente. E poiché tale strumento è utilizzato prevalentemente nelle regioni del Mezzogiorno il pensiero conseguente é che i meridionali sono nullafacenti, scansafatiche, e per essere completi aggiungerei anche mandolinari e mangia spaghetti. Completando la serie di luoghi  comuni che individuano le popolazioni dello stivale. 

Peraltro lo strumento ha colpito  pesantemente una certa imprenditoria del Nord che era abituata, soprattutto per i lavori occasionali e stagionali, ad avere tutta la manodopera che serviva loro. Ed in molti casi avere manodopera bianca e che parla in italiano è molto più comodo che  averla nera e che balbetta la lingua. Ma ha disturbato anche molta imprenditoria del Sud, abituata ad avere una massa disponibile che pressava  sul mercato del lavoro e che invece con tale strumento è venuta meno. 

Il tema è diventato di quelli dirompenti soprattutto perché  le forze politiche, che ritengono che tale strumento vada abolito o perlomeno pesantemente modificato, si sono convinte che abbia indirizzato il voto di molti elettori verso il Movimento5S, adesso partito, che del suo mantenimento ne ha fatto un cavallo di battaglia della campagna elettorale. 

Mentre dall’altra parte il Movimento 5S sostiene che è un loro merito aver saputo interpretare le esigenze di una popolazione marginale, che versa in stato di grande bisogno. Certamente non si può nascondere che alcune volte lo strumento può incoraggiare alcuni, abituati a vivere di espedienti, mettendo insieme reddito  di cittadinanza e lavoretti in in nero, a rinunciare ad un vero lavoro strutturato.

La verità però è che di lavori che abbiano una dignità sufficiente per essere chiamati tali,  nel Mezzogiorno, ve ne sono pochi e che le esigenze di un mercato del lavoro asfittico, nel quale l’offerta dei lavoratori sopravanza pesantemente la domanda delle imprese, sono sempre estremamente limitate.

Il macigno dell’esigenza della creazione di un saldo occupazionale di oltre 3 milioni di posti di lavoro,  per arrivare al rapporto popolazione occupati dell’Emilia-Romagna,  sta sempre lì ad incombere per dare quella spiegazione del fenomeno che molti non vogliono comprendere. Se ogni anno vi sono 100.000 persone che abbandonano la realtà del Sud, con un costo per le varie casse regionali di oltre 20 miliardi, considerato che ogni individuo per essere portato alla scuola media superiore  costa 200 milioni, è evidente che la realtà meridionale è più complessa di quanti la vogliano semplificare con stereotipi che sarebbe l’ora di abbandonare. 

E che invece la capacità di affrontare le difficoltà che la vita presenta é forse molto più grande nei ragazzi del Sud di quanto non abbiano coloro che evitano pure di  andare all’università, perché tanto il lavoro lo trovano facilmente dopo le scuole medie superiori. Tra parentesi non bisogna dimenticare che moltissimi di coloro che emigrano ogni anno, per  il primo periodo, che spesso non si limita a pochi mesi,  vengono aiutati pesantemente dalla famiglia, con rimesse importanti perché la remunerazione che percepiscono non è sufficiente per mantenersi fuori casa, cosa che provoca il primo salasso. 

 Il secondo si verificherà quando i genitori compreranno loro la casa nella periferia milanese. La gente del Mezzogiorno é in cerca di una forza politica che lo rappresenti, che si prenda carico di una problematica che dal 1860 è diventata sempre più irrisolvibile.

Stanca di vedersi utilizzare come colonia dove si può catapultare la Brambilla animalista a Gela, come la Fascina semi moglie a Marsala,  cerca, delusa  da molti partiti che dichiarano di volersene occupare solo a parole, qualcuno che la rappresenti adeguatamente e che possa contrapporsi ad una Lega che porta 100 rappresentanti nel Parlamento italiano, e ad un partito unico del Nord, nel quale si inserisce anche Bonaccini del PD, che vuole quell’autonomia differenziata che in assenza dei Lep, dei quali non si parla più, possa consentire ai bambini di Reggio Emilia di avere quei servizi che quelli di Reggio Calabria non riescono nemmeno a sognare. 

Per questo quello che viene dal Mezzogiorno e che andrebbe adeguatamente interpretato é un grido di dolore, una richiesta di aiuto, ma anche un moto di rabbia, perché ormai in tanti si sono stancati di essere sudditi, non di un re, ma di una realtà nordica che indirizza risorse, investimenti, infrastrutture, servizi in generale solo verso una parte.

E che al momento opportuno fa carte false per non perdere l’investimento della Intel, che porterà tanti posti di lavoro in un Veneto che non ha nemmeno il capitale umano da impiegare nelle fabbriche. 

Quando Conte dice a Renzi di provare a scendere tra la gente, senza la sicurezza che lo protegga, in modo assolutamente sbagliato perché  è sembrata una minaccia, evidenzia che il Sud è diventato una polveriera e che il pericolo che il bisogno possa portare a delle reazioni scomposte  é immanente.  

D’altra parte anche il segnale di Cateno De Luca, che oltre ad avere poco meno del 30%, non essendo supportato da alcun partito alle elezioni regionali siciliane, riesce a portare due rappresentanti nel Parlamento nazionale dà la dimensione di un disagio che non può essere ridotto alla questua di un popolo mendicante. 

Ma non mi pare che tali chiavi di lettura siano comprese da una realtà nazionale che continua il suo percorso, minacciando con Zaia di far saltare la formazione del nuovo Governo se non si procede immediatamente con quell’autonomia differenziata che sarà un ulteriore passo verso la secessione di fatto di una parte del Paese, che apre un panorama che potrebbe portare a  scenari non prevedibili. (pmb)

Biondo (Uil): Da politica mancata giusta attenzione su effetti del Pnrr in Calabria

Il segretario regionale di Uil CalabriaSanto Biondo, ha evidenziato come «in questa campagna elettorale manca dalla politica la giusta attenzione verso il Piano nazionale di ripresa e resilienza e le sue ricadute sul Mezzogiorno e, in particolare, sulla Calabria».

«Dobbiamo annotare, per l’ennesima volta – ha aggiunto – che il Sud viene considerato dalla politica un luogo da frequentare solo in occasioni elettorali, che abbondano di slogan ad effetto ma mancano di soluzioni concrete ai problemi reali del Mezzogiorno. Se rifiutiamo l’idea che manchi nella politica la giusta competenza per affrontare i problemi reali del Sud, dobbiamo accreditare il dubbio che ci sia malafede».

«Rispetto al Pnrr, che dovrebbe incidere su ripresa economia regionale già dal prossimo anno – ha proseguito – non si affronta una discussione seria, mentre purtroppo è ritornato prepotentemente nel dibattito politico elettorale il tema pericoloso dell’autonomia differenziata. Noi siamo convinti che per mettere a terra gli investimenti previsti dal Pnrr, per trasformare gli stessi in opere concrete e funzionali alla crescita economica, sociale e culturale del Mezzogiorno, sia necessario apportare delle modifiche mirate alle procedure attuative dello stesso».

«Queste modifiche dovranno intervenire in particolare in due ambiti – ha spiegato – sugli interventi che vedono come soggetti attuatori i Comuni beneficiari di risorse attribuite dall’amministrazione centrale su base competitiva e, poi, gli interventi di incentivazione a favore delle imprese. Intanto, dobbiamo dire che alcune procedure non prevedono nessuna clausola di protezione per quelle risorse che non vengono assegnate al Sud e alla Calabria, per mancanza di domande da parte dei Comuni ritenute ammissibili dai bandi».

«Conoscendo le difficoltà amministrative degli enti territoriali calabresi – ha detto ancora – se non verranno apportare delle modifiche ai meccanismi allocativi delle risorse e non ci saranno interventi per rafforzare la macchina pubblica nei territori, il rischio di perdere le provvidenze previste dal Pnrr è molto alto. Soprattutto per gli interventi che rientrano nell’area dei diritti di cittadinanza, la possibile mancanza di adesione ai bandi da parte dei Comuni è inaccettabile e, pertanto, richiederebbe l’intervento dello Stato».

«Per quanto riguarda l’ambito dedicato agli incentivi alle imprese, ancora – ha detto ancora – vi è il rischio concreto che questa parte di risorse sia assorbita, principalmente, dai territori nei quali il tessuto produttivo è più forte e dinamico. Per tali ragioni nelle aree più debili del Paese, come la Calabria, dal punto di vista degli insediamenti produttivi sarebbe necessaria una strategia organica, una politica industriale da parte del Governo per attrarre gli investimenti privati, che faccia leva sul progetto Zes, sul porto di Gioia Tauro, sull’area industriale che lo circonda».

«Se questi correttivi non dovessero essere applicati, purtroppo – ha annotato – non potrà mai essere chiaro definire dove andranno a finire queste risorse, se si disperderanno in centinaia di rivoli o, come nelle nostre speranze, verranno utilizzare per cambiare la narrazione del Sud e, soprattutto, della Calabria».

«Il 2023 non dovrà essere l’anno della disfatta per il Mezzogiorno – ha concluso – ma quello della sua definitiva rinascita. Per questo invitiamo la politica ad esercitare un’azione forte nei confronti dell’attuale Governo e di quello che uscirà dalle urne del prossimo 25 settembre finalizzata a correggere lo stato di fatto del Piano nazionale di ripresa e resilienza». (rcz)

RISCOPERTO IL SUD PER NON PERDERE VOTI
MA I MERIDIONALI NON SONO MICA FESSI

di GIOVANNI MOLLICACrediamo non si sia mai vista, in Italia, una campagna elettorale nazionale così sgangherata e becera. Adesso che è quasi terminata abbiamo l’impressione che il merito – o, meglio, il demerito – sia soprattutto di esponenti politici di sesso maschile. 

Che hanno ecceduto in attacchi personali (il nemico fascista, traditore della Nato, temuto da Ue e americani), in proposte cialtronesche (meno tasse per tutti, aumento delle pensioni, migliaia di nuovi posti di lavoro). 

Fino ad arrivare a più o meno aperte minacce da bulli di periferia (“…dovranno buttare sangue” e “…vieni senza scorta se hai il coraggio”).

Immaginiamo lo sconforto di Draghi. Viene il dubbio che il suo No a un nuovo incarico derivi dalla triste riscoperta dell’attualità del motto mussoliniano: “Governare gli Italiani non è impossibile: è inutile”.

In questo guazzabuglio di chiacchiere senza costrutto, diviene sempre più evidente che “l’agenda Draghi” è una pura invenzione: quello che un qualsiasi nuovo governo dovrebbe perseguire è “il metodo” dell’ex Presidente della Bce: affrontare i problemi del Paese uno a uno e con serietà.

E, soprattutto, dire la verità alla gente, anche se è poco gradita. Basta con le menzogne.

Solo Meloni – forse perché donna, più equilibrata dei maschietti e meno usa alla rissa e ai toni arroganti (chiedo scusa per il femminismo d’antan) – è rimasta una spanna al di sopra di polemiche. Più squallide che efficaci. Non parliamo di “politica” ma di “buona educazione”.

È anche vero, però, che le elezioni non sono un pranzo di gala e la conclusione della campagna elettorale merita qualche ulteriore riflessione. 

Vanno analizzati con realismo e crudezza sia l’eredità lasciata dall’attuale governo che gli aspetti più “politici” del confronto, sottolineando la sospetta tempistica con la quale alcuni leader hanno affrontato problemi che riguardano la vita dei cittadini.

In altre parole, la credibilità di un’iniziativa dipende anche dal momento nel quale viene proposta: le forze politiche che pontificano sull’energia solo quando appare imminente il suo razionamento sono poco affidabili, soprattutto se hanno ignorato il tema per anni. 

Magari irridendo con l’accusa di “sovranismo” chi sosteneva la necessità di una minore dipendenza dall’estero.

Lo stesso dubbio nasce se si parla di Ponte sullo Stretto, da realizzare immediatamente dopo essere andati al governo. 

Quando, solo poche settimane fa, chi oggi lo promette è uscito dall’aula per non votarne l’inserimento tra i programmi urgenti dell’Esecutivo.

Analogamente, gli strenui difensori di Draghi dovrebbero avere l’onestà intellettuale di ammettere che si è circondato di Ministri e Sottosegretari culturalmente e tecnicamente inadeguati rispetto ai pesantissimi compiti che il Premier aveva loro affidato. Giovannini, Carfagna, Gelmini e lo stesso Cingolani – a nostro personalissimo parere – si sono guardati bene dall’affrontare temi fondamentali per i loro Dicasteri. Che l’abbiano fatto per ignoranza (difficile!) o solo al fine di evitare grane, poco cambia perché il loro fingere di non vedere è la negazione del “metodo Draghi” ed espone il Premier all’accusa di “doroteismo”. 

Meglio tirare a campare che tirare le cuoia.

L’esempio più eclatante è la Questione meridionale che si porta appresso un’infinità di “grane” – sarebbe meglio chiamarli drammi –, impossibili da occultare sotto il tappeto di media compiacenti. Così è accaduto che a pochi giorni dal voto è emersa la prorompente crescita del M5S nel Meridione, rendendo indispensabile una reazione da parte dei partiti che perdevano vistosamente i consensi che, scioccamente, credevano acquisiti.

In epoca non sospetta avevamo detto che solo chi era convinto che gli elettori del Sud fossero idioti poteva credere di prenderli in giro a lungo e in modo così volgare; ma evidentemente l’arroganza e il cinismo dei leader politici, degli opinion maker da salotto romano e dei direttori di media asserviti ai loro editori supera le più pessimistiche congetture.

Adesso sono in molti a tentare, pateticamente, di “metterci una pezza”.

Si è improvvisamente scoperto che “L’Italia non cresce se non cresce il Sud”, dopo che, per vent’anni, sono stati ignorati gli appelli di tanti meridionalisti disperati. 

Compreso chi scrive. Ci si accapiglia sul Ponte di Messina senza capire che è la premessa dell’individuazione di aree territoriali innovative, nelle quali sperimentare il futuro del trasporto, della mobilità e dell’economia green. 

Proiettandosi verso il Mediterraneo, l’Africa (Moraci).

Altro argomento che ha dominato la campagna elettorale è il ruolo dell’Italia nell’Ue e nel sistema politico internazionale. Non certo dal punto di vista economico (come sarebbe doveroso) né in quello geostrategico (da definire urgentemente, vista la nostra posizione geografica e quanto accade nel Mediterraneo) ma esclusivamente per quanto concerne lo schieramento. 

Ricorda l’intimazione “Amiken o Nemiken?” del soldato nazista creato dal grande Bonvi. Senza accettare la geniale risposta “Semplice conoscente”. 

Un’alternativa tragica che non dovrebbe essere la premessa ma la conseguenza logica delle prime due scelte. 

L’atlantismo può benissimo convivere con la nuova globalizzazione, senza essere figlio della Guerra fredda.

Aver evitato il confronto sulle fonti energetiche, sul futuro del Sud e sull’atlantismo sono solo alcuni dei tanti temi furbescamente utilizzati per mascherare la carenza di sensibilità sociale e di una vera cultura di governo da parte dei futuri policy maker. 

Speriamo che questo sia l’ultimo Parlamento imbelle, più legato alle poltrone che ad affrontare i problemi del Paese. Un Parlamento nelle cui spire Draghi è rimasto avvinto e dai cui riti (riteniamo) non vede l’ora di scappare.

Tornando all’oggi, era facile prevedere che l’aver fatto del Reddito di Cittadinanza l’unico efficace strumento di ricerca del consenso in un terzo del Paese diverrà un elemento di stravolgimento dei risultati elettorali e nella formazione di maggioranze omogenee. 

E darà nuovo vigore a metodi di governo basati sul compromesso. Finalizzati soprattutto all’ingresso nella “stanza dei bottoni”, allo scopo di non far fare ciò che serve veramente al Paese. Speriamo di sbagliarci. (gm)

L’AUTONOMIA PREMIA LE REGIONI RICCHE
MA IL SUD NON CHIEDE ASSISTENZIALISMO

di PIETRO MASSIMO BUSETTA Il Mezzogiorno è diventato, negli ultimi giorni, da soggetto dimenticato nei programmi dei partiti ad elemento di attenzione notevole, da quando si è percepito che probabilmente molti dei seggi del maggioritario sono ancora contendibili. 

Ed allora il PD, che con Boccia era quasi pronto a varare l’autonomia differenziata nel Conte due, diventa difensore di un Sud che con essa verrebbe discriminato. Ma un’altra forza sta tentando di caratterizzarsi come difensore dei diritti del Sud, ponendosi in modo molto deciso a difendere quel reddito di cittadinanza, tanto contestato da molte forze nazionali, che hanno stupidamente consegnato al Movimento lo scudo di difensore di tale provvedimento. Si tratta dei Cinque Stelle che sulla base di tale difesa stanno recuperando molti dei consensi che avevano perso.

Il risultato è che l’immagine di un Mezzogiorno, che chiede assistenzialismo e norme che portino a fregare il pubblico, sta diventando prevalente. Eppure sul vero tema che dovrebbe essere centrale rispetto alle politiche ed ai programmi non si concentra l’attenzione né dei partiti né della opinione pubblica nazionale. 

Il vero tema è quello che si racchiude in pochi dati: popolazione del Mezzogiorno pari a poco meno di 21 milioni di abitanti, occupati, compresi i sommersi, 6 milioni e 100.000. In un rapporto funzionale, come quello esistente in Emilia-Romagna, gli occupati dovrebbero essere circa 9 milioni, quindi mancano all’appello oltre 3 milioni di posti di lavoro. Chi si stupisce del fatto che vi sia una popolazione così numerosa che ricorra al Reddito  di cittadinanza evidentemente ha poca dimestichezza con i dati.

Lamentarsi che vi siano tanti fruitori e poi lavorare, come ha fatto il ministro Giorgetti, per portare l’Intel a Torino, che costringerà migliaia di persone ad emigrare, visto che forza lavoro disponibile in Piemonte non se ne trova, è una contraddizione in termini. E assume come inevitabile il fatto che la gente del Mezzogiorno o debba trasferirsi, desertificando il territorio, oppure deve rimanere nei propri territori in una situazione di indigenza.

Ma l’attenzione a questa parte dello sviluppo purtroppo anche lo stesso Mezzogiorno non riesce ad averla adeguatamente, dando consenso non a chi propone un progetto  credibile in tempi non infiniti, ma piuttosto a chi promette ogni giorno di dare un pesce per sfamarsi senza mai insegnare a pescare. Bisogna invece gridare che il Mezzogiorno non vuole essere più assistito, ma vuole ritrovare la dignità di essere industrializzato adeguatamente, e questo non significa diventare la batteria del Paese, quanto piuttosto finalmente far funzionare le Zes  manifatturiere, che stentano a decollare, visto che non funzionano da moltiplicatori di consenso. 

Il Mezzogiorno deve pretendere che vi sia un progetto per la propria logistica, che preveda che i porti frontalieri di Suez siano messi a regime, collegandoli  adeguatamente con la rete ferroviaria italiana, costruendo il  ponte sullo stretto di Messina. Come pure che il turismo, oggi anche se in crescita, con presenze equivalenti per tutto il Mezzogiorno a quelli della sola Ibiza, abbia un progetto che lo faccia passare ad industria turistica, che riesca a dare occupazione adeguata ai tanti giovani. 

Il primo soggetto che dovrebbe rifiutarsi di essere trattato da mendicante, al quale dare le mollichine che avanzano dal lauto pranzo dei signori,  dovrebbe essere proprio il Sud. Pretendere che l’offerta di lavoro diventi tale da assorbire quei tanti giovani disoccupati che si offrono sul mercato, ma che non vogliono essere sfruttati con lavori stagionalizzati, contrattualizzati per quattro ore per poi farne dodici.  

Ma su un progetto di sviluppo vero del Sud non vi è alcun indirizzo, perché non ci sono idee, non vi è una visione sistemica, una volontà vera di affrontare e risolvere il problema, anche perché destinare risorse importanti al Sud, anche quando provengono dall’Unione Europea, significa sottrarle alle mille esigenze che un Nord bulimico continua ad avere, con il risultato non auspicato magari di mettere  fra l’altro il Sud in condizione di competere proprio con le realtà che si vogliono proteggere. 

Prima fra tutti i porti di Genova e Trieste che dallo spostamento dei movimenti nei porti del Sud temono di perdere la loro centralità.

È un approccio che invece di moltiplicare i tavoli a disposizione pensa che l’unico modo sia quello di tenere alcuni in piedi per monopolizzare gli unici posti a sedere. Approccio che viene teorizzato nel principio della locomotiva e dei vagoni, per cui un Sud, che per lunghi anni prima dell’Unificazione aveva rappresentato grandi eccellenze oltre che problematiche non indifferenti, diventa una palla al piede che rallenta lo sviluppo di tutto il Paese. (pmb)

[courtesy il Quotidiano del Sud / l’altravoce dell’Italia]

LO SPETTRO DI UN CAMBIAMENTO DEL PNRR
SPAVENTA IL SUD: SALVARE IL 40% DEI FONDI

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – La storia degli ultimi anni ci insegna che le risorse che provengono dalla Comunità Europea sono sempre servite come un aiuto più che alle parti più fragili a sostenere il Paese. Contrariamente a quello che è accaduto alle realtà comunitarie che hanno utilizzato molto bene i fondi strutturali, il nostro Paese ha ritenuto l’utilizzazione di tali risorse come un fatto assolutamente marginale e riguardante soltanto le parti più disagiate. 

Il loro impiego o la loro perdita era un fatto che riguardava le Regioni e nemmeno spesso il Ministero per le politiche di coesione; il meccanismo del disimpegno automatico non era assolutamente studiato mentre l’unico correttivo che si poneva era quello di contenere le risorse ordinarie destinate a quei territori in modo che quelle definite strutturali servissero a sostituire quelle ordinarie. 

Che avessero effetto o che non si utilizzassero era un problema che non riguardava il Paese. Ogni tanto considerata l’incapacità strutturale di spesa, dovuta ad amministrazioni inadeguate ed alla mancanza di investimento nelle strutture amministrative comunali e regionali, per qualche emergenza si attingeva a tali fondi che spesso sono diventati il bancomat pronto all’uso. 

Il Next Generation UE ha cambiato l’approccio facendo capire al Nord che si presentava un’occasione unica con la quale venivano messi a disposizione del Paese oltre 209 miliardi, che potevano essere un’occasione importante per una serie di obiettivi da raggiungere e per finanziare numerosi progetti che per mancanza di risorse erano rimasti nei cassetti, soprattutto di amministrazioni ben dotate da un punto di vista amministrativo ed agguerrite nel caso in cui i progetti venivano messi a bando. 

L’occasione si è rivelata talmente ghiotta che gli equilibri complessivi del Paese si sono adattati a tale importante intervento dell’Unione Europea, che attiene al primo debito che ricadrà  su tutti i contribuenti comunitari. Le fasi che si sono succedute adesso ci vedono nella fase operativa della spesa, che dovrà concludersi per il 2026. Che ci fosse una volontà di continuare il gioco delle tre carte, in cui il Sud perde sempre, emerge dal fatto che l’unico progetto cantierabile, il ponte sullo Stretto di Messina, che vi era nel Mezzogiorno, non è stato inserito, con scuse risibili, nei progetti finanziabili.

Perché se è vero che probabilmente in quattro anni il Ponte sullo stretto non si poteva completare è anche vero che moltissimi dei lavori sulle due sponde di preparazione potevano essere finanziate con il Pnrr, cosa che non si è pensato minimamente di fare, mentre molte delle opere già finanziate con altre risorse, una per tutte la Palermo-Catania di alta velocità farlocca, 2 ore per duecento chilometri, viene inserita nel Pnrr per liberare risorse.  

Il retro pensiero che purtroppo pervade ogni decisione relativa alla spesa delle risorse europee è un mantra nel pensiero nazionale: “le risorse che vanno al Sud sono perse e non servono allo sviluppo del Paese”. 

Il concetto che vi sia una locomotiva che bisogna far correre, che fondamentalmente staziona dall’Emilia a Milano fino a Venezia, lasciando indietro peraltro anche la Toscana, il  Piemonte e la Liguria è qualcosa che ha pervaso il pensiero dominante nazionale, aiutato dalla propaganda continua di una Lega Nord, sedicente buona amministratrice di Regioni e Comuni, senza peraltro nessuna prova a favore.

Anzi con la pandemia si è vista come la ricca ed efficiente Lombardia sia caduta pesantemente, dimostrando tutta la propria inadeguatezza. Ricorderemo tutti l’assessore al welfare Giulio Gallera della Regione lombarda poi sostituito dalla Moratti. E prima la gestione del Veneto del Mose ci dimostra quanta sia falsa l’immagine propalata. 

Il pericolo che adesso si corre e che in un accordo, che vede insieme l’Emilia Romagna  di Bonaccini con Zaia e Fontana che nei rispettivi partiti hanno un peso non indifferente, si proceda ad un cambiamento del Pnrr, che porti a dirottare le risorse destinate per esempio per finanziare l’alta velocità Salerno Reggio Calabria o la Napoli Bari per aiutare le imprese energivore a chiudere i propri bilanci senza chiudere le imprese.

Operazione assolutamente opportuna se non prevedesse come sempre di utilizzare le risorse per il Mezzogiorno come il bancomat per tutto quello che di emergenza ci può essere. Ed allora l’attenzione deve essere massima, perché quel 40%, maldigerito dagli amministratori nordici, molto più contenuto della percentuale assegnata all’Italia sulla base di tre parametri, popolazione, tasso di disoccupazione, e reddito pro capite, che ha portato il Paese ad avere risorse molto più abbondanti sia a fondo perduto che in prestito di quanto non siano state destinate a Francia e Germania, diminuisca ulteriormente. 

E potrebbe scendere al di sotto del 33% della popolazione. Essere riusciti a chiudere il Pnrr destinando risorse importanti al Mezzogiorno, anche se più contenute di quelle che si dovevano assegnare, è stata una grande vittoria dovuta ad un Governo che è riuscito a contrapporsi alle volontà di tanti di limitare gli importi destinati ad esso.

Ma oggi il quadro politico probabilmente muterà. Il Partito Unico del Nord potrebbe ritornare alla carica, come sta facendo già nella comunicazione, per continuare a strappare altre risorse ad un Sud spesso disattento, nel quale i Presidenti delle Regioni non riescono a fare nemmeno una comunicazione congiunta sull’autonomia differenziata. 

L’attenzione è dovuta non solo per evitare che si continui quello scippo che è assodato avviene con i fondi ordinari, che se fossero destinati in base alla spesa pro capite dovrebbero essere aumentati di 60 miliardi, ma anche con quelli straordinari considerata la debolezza della amministrazione governativa centrale. E questo non per l’interesse di una parte ma perché come è chiaro a molti, il Paese sarà quello che saranno i giovani quel che saranno le nostre donne sopratutto del nostro Mezzogiorno. 

Pensare che basti tagliare lo stivale e farlo affondare da solo, soluzione semplicistica che pare vogliano adottare con l’autonomia differenziata, non è una soluzione per il Paese ma piuttosto un modo di  continuare in quella deriva che ormai da oltre 10 anni viene immaginata e temuta da Adriano Giannola. (pmb)