Addio al giornalista e sociologo reggino Antonio Latella

Reggio e la Calabria piangono il giornalista reggino Antonio Latella spentosi ieri a Reggio a 78 anni. Grande professionista della comunicazione, è stato capo Ufficio stampa del Comune di Reggio Calabria e portavoce della Provincia di Reggio Calabria. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Messina e in Sociologia all’Università di Urbino, Latella è stato anche presidente dell’Associazione Sociologi Italiani. Esperto di comunicazione istituzionale ha collaborato con quotidiani e tv nazionali. È stato anche tutor per numerosi studenti delle Facoltà di Scienze della Comunicazione e giornalismo delle Università di Messina, dell’Unical e dell’Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria.

Il Presidente del Consiglio regionale Filippo Mancuso ha espresso le sue condoglianze anche a nome del Consiglio regionale ad Angela e Giampaolo Latella per la scomparsa del papà Antonio, «giornalista professionista e sociologo, per anni capo ufficio stampa del Comune di Reggio Calabria e firma di primo piano del giornalismo meridionale. L’affetto filiale e l’apprezzamento di tutti noi, per la sua riconosciuta umanità e la spiccata professionalità giornalistica, con cui ha seguito molte delle vicende politiche, sportive e culturali che hanno segnato, nel bene e nel male, la storia di Reggio e della Calabria, ne preserveranno la memoria».

Unanime il cordoglio in città dove Latella era conosciuto e apprezzato. Il Comune e la Città Metropolitana di Reggio Calabria, attraverso i sindaci facenti funzioni Paolo Brunetti e Carmelo Versace, hanno espresso sentimenti di profondo cordoglio per la sua scomparsa: «sociologo e giornalista, indimenticabile capo ufficio stampa di Palazzo San Giorgio, portavoce a Palazzo Alvaro e firma di primo piano del giornalismo calabrese.

«Lo ricordiamo – affermano i due sindaci ff – come un grande professionista, un pioniere della professione, capace di misurarsi con mezzi e linguaggi diversi, capace di innovare rispettando al contempo i riferimenti deontologici della professione, sempre al servizio dell’informazione, dei cittadini e dei lettori».

«In questo momento di profonda tristezza – concludono Versace e Brunetti – ci stringiamo al dolore della sua famiglia, in particolare dei figli Angela e Giampaolo, di tutti gli amici e di coloro che hanno avuto l’onore di incontrarlo nel corso della sua lunga carriera professionale, che gli ha offerto l’opportunità di raccontare alcune tra le pagine più importanti della storia cittadina». (rrc)

Ai figli Giampaolo e Angela, valenti colleghi giornalisti, l’abbraccio di Calabria.Live


IL CONGEDO DEL FIGLIO GIAMPAOLO

Caro Papà, la verità è che senza Mamma non riuscivi proprio a vivere e ti sei affrettato a raggiungerla, ché la sua assenza ti faceva sentire smarrito.
Quando la incontri, dalle un bacio da parte nostra. Uno di quei baci pudichi che le stampavi sulla guancia, vicino alla bocca, quando tornavi a casa la sera, stanco dal lavoro, e lei preparava la cena. La cravatta allentata, la borsa in una mano, la mazzetta dei giornali nell’altra. Quel bacio non era solo un gesto d’amore, era anche un sigillo ufficiale: la conferma che, nell’universo, era tutto al proprio posto.
Sei stato un padre e un maestro.
Ci hai trasmesso uno spropositato senso del dovere, il decoro delle istituzioni, i valori della giustizia, della libertà e della lealtà.
Sono cresciuto incollato a te. Ero la tua ombra. Allo stadio, in sala stampa, a Telespazio, al consiglio comunale e al consiglio regionale. “Saluta il sindaco!”. “Saluta il colonnello!”. E io, un nanetto paffutissimo e tutto serio, con aria solenne stringevo quelle manone. Tu sorridevi, orgoglioso.
Volevo essere te. Aspettavo che finissi di battere a macchina i tuoi articoli per sedermi al tuo posto e sognavo di scrivere a quella velocità, con quell’eleganza, la schiena dritta e le dita rapide come il tuo pensiero. Ti prometto che troverò la lettera mancante della tastiera della mitica Olivetti che ho ereditato da te, compagna di mille battaglie e talismano dell’esame da giornalista professionista.
Da bambino mi lasciavi davanti all’ingresso di scuola, dalle Francescane, e quando scendevo dalla macchina, dopo aver sistemato lo zaino sulle spalle, mi voltavo per incrociare quello sguardo penetrante e profondo. Strizzavi l’occhio e ci salutavamo con un gesto d’intesa: il pollice alzato, come fanno i piloti degli aerei quando si staccano dal finger, accendono i motori e si congedano dal personale di terra. D’altro canto, tu e Mamma ci avete insegnato proprio questo: “Volate alto”.
Tenevi alla giustizia più che alle regole. Alla lealtà più che alla forma. Quando marinavamo la scuola, visto che Palazzo San Giorgio era a cinquanta metri dal liceo, mi consegnavo nel tuo ufficio, alle otto e mezza, con l’aria del reo confesso. Facevi finta di incazzarti ma la mia assunzione di responsabilità valeva un cornetto caldo e la libertà di bighellonare sul corso con i compagni. Eri fatto così.
Poi la mia ombra sei diventato tu. Quando arbitravo eri il mio allenatore, il mio tifoso, “quarto uomo” ad honorem, autista e addetto al vettovagliamento preparato da Mamma per me e i guardalinee. Abbiamo macinato chilometri sull’autostrada e sulla pista di atletica. Al solo pensiero delle ripetute di 400 che mi facevi fare, mi tornano i crampi…
Ci siamo divertiti un sacco, Papà. E il dolore del distacco non può offuscare il grande privilegio di aver goduto di te e Mamma per più di quarant’anni.
Certo, adesso non sentirò più il telefono squillare alle 8 del mattino per commentare i quotidiani. Parlavamo ore e ore di politica, di Reggina e di Juve, di giornalismo, di società e di diritto. E di libri. Tanti, tantissimi libri. La tua ricca e disordinata libreria rappresenta ciò che eri, anzi, che sei: un figlio del popolo che, partendo senza grandi mezzi, si è affrancato da un destino già scritto, che sarebbe stato onesto e retto, ma inadeguato alla brillantezza del tuo pensiero. Ci sei riuscito con la forza dei sacrifici e dello studio matto e disperatissimo che ti ha portato a conseguire due lauree. Che orgoglio.
Ammiravamo quei pezzi scritti “in punta di penna”, come amavi dire tu. In sottofondo sento ancora la voce di Mamma durante le nostre telefonate fiume: “Lascialo stare, sennò fa tardi al lavoro! Lascia stare u figghiolu!”. E sì, perché anche a quarant’anni suonati ero pur sempre “u figghiolu”, “u picciriddu ra casa”.
Ci manchi già, ma sarò forte come mi hai insegnato tu, memore di ciò che mi dicesti dopo i 12 interminabili minuti del test di Cooper: “Il campione non è chi non cade, ma chi, dopo essere caduto, si rialza”.
Ti autodefinivi un testimone del proprio tempo.
Dopo un anno di malattia che hai affrontato con la dignità di sempre, il tuo tempo terreno è finito, ma tu e Mamma vivrete in eterno nei nostri cuori. Ciao Papà. (gpl)