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Giuseppe Conte

L’OPINIONE / Raffaele Malito: Giuseppe Conte e la “grande fuga”

di RAFFAELE MALITO – Iniziamo questa breve nota politica con due citazioni sul concetto di tragedia. Nicola Lagioia: «più crudele della tragedia che ci colpisce è la tragedia a cui ci illudiamo di essere scampati». Edoardo Sanguineti: «non c’è opera veramente comica se non ha  in sé qualcosa di tragico e viceversa». E io aggiungo che è anche peggio quando opera e tragedia si trasformano in farsa. Perché è esattamente ciò che sta accadendo. 

Il segretario del Pd, Enrico Letta, aveva, con grande euforia, apparecchiato per Giuseppe Conte uno splendido dono natalizio offrendogli la candidatura a deputato, nelle elezioni suppletive, nel blindatissimo collegio di Roma 1, nel quale, con estrema facilità, erano stati eletti, prima Gentiloni, e, poi l’ex ministro dell’economia, Gualtieri, oggi sindaco della  Città Eterna.

Il leader del movimento nato per celebrare la democrazia diretta non è riuscito a reggere nemmeno quella indiretta. Ha detto, per giustificare il gran rifiuto: «ringrazio il Pd e Letta per la disponibilità e la lealtà nella proposta ma, dopo un supplemento di riflessione, ho capito che, in questa fase, ho ancora molto da fare per il M5s e non è mi è possibile dedicarmi ad altro». 

Insomma, invece che un passaggio decisivo per la costruzione della grande alleanza per dar vita al grande campo largo, su cui fondare le prospettive politiche future, cominciando, subito, dal voto per il Quirinale, più o meno un invito a una vacanza alle Maldive. Essì che a un così grande progetto si stanno, da tempo, prodigando anima e corpo, gli strateghi del Nazareno, Letta, Zingaretti e il suggeritore alla Donato Carrisi, Bettini- amicissimo dell’ ex –bi premier in fuga.

Ma c’è il paradosso: è Conte, in prima persona, a mettere una pietra tombale  sul campo largo: «ho visto – ha detto, nella conferenza stampa – uscite saccenti. Con questi atteggiamenti non ci sono i presupposti per costruire una collaborazione così ampia». Adieu! In realtà è accaduto che subito dopo la proposta della candidatura alle suppletive di Roma 1, si è acceso il fuoco di sbarramento di Carlo Calenda con l’annuncio della propria candidatura, forte, nel collegio in questione, del 31% di voti raccolti nelle  recenti elezioni comunali.                                                               

«Ho cercato  ripetutamente – ha detto – un confronto con Enrico Letta. Nessuna risposta, gli interessano sempre e solo i Cinque Stelle che in cinque anni hanno devastato Roma. Non esiste, ma proprio non esiste, cedergli un collegio dove hanno fatto uno scempio».

Allo sbarramento di Calenda si è aggiunto, nello stesso tempo, quello di Matteo Renzi: il Pd può fare quello che vuole ma regalare un seggio sicuro al premier del sovranismo, all’uomo che ha firmato i decreti Salvini, all’avvocato che non vedeva differenza tra giustizialismo e garantismo, significherebbe subalternità totale.

È un seggio parlamentare, non è un banco a rotelle, il graffio finale. E Conte, a questo punto, non ha inteso rischiare una sconfitta elettorale, quasi certa, la fine del progetto di una sua forte leadership.                                                                               

E, adesso?  Commedia, tragedia, farsa. Che fare? Scrisse Lenin, di fronte a scelte decisive e cruciali, alcuni anni prima della rivoluzione d’ottobre. Espulsi dall’ipotetico campo largo Calenda, per arroganza, e Renzi, per inaffidabilità o peggio, le scelte del Pd vanno verso  una sola direzione, quella dei Cinque Stelle. Senza alternative, in politica c’è il vicolo cieco, la sconfitta. E, più che certamente, il campo largo tanto invocato, sarà un misero campetto. (rm)