L’IDEA NON PIACE, MA POTREBBE SALVARE TANTI PAESINI O FRAZIONI COLPITI DALLO SPOPOLAMENTO;
Il borgo di Pentidattilo (RC)

SÌ ALLA FUSIONE DEI PICCOLISSIMI COMUNI
IN CALABRIA SON TANTI I PAESI “FANTASMA”

di FRANK GAGLIARDIQuanto ci costa la frammentazione. Fusione dei Comuni: Quali vantaggi? è il titolo dello studio del sociologo Claudio Cavaliere, già segretario regionale di Lega Autonomie, e la cui sintesi è stata pubblicata alcuni anni fa dal Quotidiano della Calabria.

Per il sociologo in Calabria i piccoli comuni sono tanti, troppi, e governano su gran parte del territorio regionale ben oltre la media nazionale. Per lui le dinamiche demografiche in atto porteranno entro qualche decennio alla scomparsa di decine di comuni e al declino di centinaia di altri. Ci fa sapere che nei piccoli comuni fino a mille abitanti le spese correnti sono quasi il doppio della media regionale. Al contrario la pressione tributaria pro capite è il 50% superiore della media regionale. È favorevole, dunque, alla fusione dei piccoli comuni. Per lui i risparmi sarebbero certi, ma anche un sicuro miglioramento delle performance gestionale su il lungo percorso derivanti da una maggiore libertà di manovra economica.

Conclude: «Di certo i processi non sono semplici né veloci ma l’alternativa non può essere un sicuro declino senza reazione. Tanto meno le ricette possono essere imposte dall’alto attraverso normative prescrittive».

Il tema dell’accorpamento dei piccoli comuni non è nuovo al dibattito politico istituzionale italiano. Già nel 1860 il Ministro dell’Interno dell’epoca, Luigi Carlo Farini, propose infatti un progetto per l’accorpamento dei Comuni con meno di 1.000 abitanti. La proposta non ebbe seguito. Ci pensò il fascismo ad accorpare i piccoli comuni col Regio Decreto Legge 17 marzo 1927 n.383. La politica fascista portò complessivamente all’unione, soppressione o aggregazione d’imperio di 2.184 piccoli Comuni. Anche il nostro Comune venne aggregato al Comune di Amantea, senza alcuna consultazione della popolazione. Tutte le funzioni in precedenza attribuite al Sindaco, alla Giunta e al Consiglio Comunale furono conferite ad un unico organo, il Podestà, nominato con regio decreto reale per cinque anni e revocabile dal Ministro degli Interni.

Un aspetto preoccupante della realtà dei piccoli comuni è dato dalla perdita della popolazione dovuta: Fenomeni di urbanizzazione; esodo dei giovani verso i centri urbani di maggiori dimensioni; invecchiamento della popolazione; esodo dei giovani all’inizio della vita attiva che lasciano il paese d’origine al termine degli studi; calo di natalità; chiusura delle strutture scolastiche. La riduzione degli abitanti comporta: perdita dei servizi essenziali come scuole, uffici postali, sanità e assistenza agli anziani, degrado di tipo ambientale, causato dalla mancanza di manutenzione del territorio rurale, un tempo luogo di lavoro di centinaia di persone e ora abbandonato a una natura che se ne appropria in modo disordinato.

Il sogno dei nostri governanti è quello di avere un’Italia con solo 2.500 Comuni. Sogno impossibile. Lo vorrebbero in tanti, ma gli interessi e la burocrazia remano contro. Finora i tentativi di favorire le aggregazioni sono falliti. Passare dagli 8.100 Comuni italiani a non più di 2.500 non mi sembra un obiettivo credibile, anche se effettivamente 8.100 Comuni sono fonte di costi ormai insostenibili per le pubbliche finanze. È davvero una situazione insostenibile dal punto di vista dei costi di gestione. I nostri piccoli comuni non hanno davvero i mezzi e le risorse per sviluppare le proprie comunità. Ma l’aggregazione dei piccoli comuni incontra forte resistenza, perché ci sarebbe la soppressione della Giunta e del Consiglio Comunale.

Il sindaco rimarrebbe il solo organo di Governo, eletto a suffragio universale diretto. Ma così, però, non si può più andare avanti. Davvero i piccoli comuni sono a rischio scomparsa. Regna caos e incertezza. Tra leggi e leggine, tra risorse ridotte al lumicino e tra una serie di norme spesso contraddittorie stanno creando un clima di forte confusione. Pochi comuni hanno i requisiti per restare indipendenti. Non tutti sono, però, favorevoli alle fusioni. Non hanno capito che per mantenere i servizi con risorse sempre più limitate c’è bisogno di stare insieme, rinunciando a qualcosa per avere qualcos’altro. Il percorso da compiere è inevitabile ed è dettato soprattutto da questioni economiche. La strada è obbligata per evitare di sperdere in migliaia di piccoli rivoli i fondi statali sempre più scarsi. Ma i Sindaci non ci stanno. La possibile scomparsa dei piccoli Comuni non s’ha da fare e non soltanto per questioni meramente campanilistiche. I piccoli Comuni sono gelosi della propria identità, della propria storia.

La fusione porterebbe alla perdita dell’identità e dell’appartenenza insieme al patrimonio dei valori condivisi, la perdita della rappresentanza politica e la scomparsa del municipio come valore storico – identitario.  Se l’accorpamento dei piccoli Comuni per il legislatore non mette a rischio i servizi ai cittadini, ma li rende almeno in potenza più efficienti, per i Sindaci, invece, l’aggregazione fa aumentare i costi. Tutto questo rende problematica ed incerta la fusione dei comuni perché molti cittadini non vedono di buon occhio il cambiamento. Cosa si dovrebbe fare allora? Con un decreto legge il Governo dovrebbe stabilire che i Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti sono obbligati a gestire in forma associata i servizi essenziali con i Comuni viciniori. Il problema prioritario non è però solo quello dei costi, ma anche la capacità di offrire al cittadino servizi migliori e opportunità di vita più efficiente.

Numeroso il gruppo dei primi cittadini dei piccoli comuni italiani contrari all’aggregazione. Hanno finanche manifestato a Roma davanti a Montecitorio gridando: «Non è così che si risparmia. Mille anni di storia non si cancellano con un decreto. Ogni territorio deve mantenere la propria autonomia». Il 9 aprile 2015, poi, 324 Sindaci provenienti da tutta Italia, si sono riuniti a Napoli all’adunanza dei “Sindaci ribelli”, convocata dall’Asmel contro l’accorpamento coatto dei Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, previsto dalla legge Delrio del 2014.

Era presente anche il nostro sindaco Gioacchino Lorelli con la fascia tricolore, il quale venne intervistato da una giornalista della Rai e l’intervista mandata in onda nel TG Regionale delle ore 14,00. I Sindaci si sono riuniti nell’Auditorium del Consiglio Regionale della Campania per far sentire le ragioni dei 5700 Comuni italiani con meno di 5000 abitanti che rischiano di perdere l’autonomia delle principali funzioni amministrative. Secondo loro i piccoli Comuni hanno tutto l’interesse a mettersi in rete per accorpare i servizi, ma non le funzioni. Hanno fatto ricorso al Tar della Campania contro l’accorpamento coatto delle funzioni comunali. Secondo i Comuni ricorrenti la norma è “Anticostituzionale perché lede il principio di autonomia degli enti locali, garantito dalla Costituzione Italiana” e “irragionevole in quanto i dati Istat sulla spesa dei Comuni evidenziano che i piccoli comuni hanno una spesa annua di 852 euro pro capite a fronte della media nazionale di 910 euro e della media dei grandi comuni pari a 1250 euro”. Per i sindaci a Napoli riuniti non è affatto vero che con la fusione diminuiscono le spese. Un risparmio vero potrebbe arrivare invece dalla gestione associata dei servizi.

Ma veniamo a San Pietro in Amantea in provincia di Cosenza. Nu truppiellu e case abbandonate, le porte e le finestre sono chiuse, le strade deserte, nell’aria solo il fruscio delle foglie degli alberi di Nmienzu u largu e Nmienzu u puritu, i cani di Ciccio Grassullo che scorazzano per Via del Popolo e quelli di Peppino Prati che abbaiano in lontananza. Non si vedono neppure gli anziani seduti sugli usci delle case che scrutano il passaggio dei rari passanti. Tutto intorno regna un silenzio spettrale. Fra qualche decennio anche San Pietro in Amantea diventerà un paese fantasma come del resto tanti altri paesi del Nord, del Centro e del Sud Italia.

È un vero peccato che sia destinato a scomparire. Eppure oggi il paese è curato nei minimi particolari. I vicoli e le strade sono pulitissime. La raccolta differenziata dei rifiuti funziona a meraviglia. È un paese molto accogliente. È veramente emozionante l’atmosfera che si respira in questo borgo. Ti puoi sedere tranquillamente sulle panchine sotto i secolari pioppi o sui gradini della Chiesa di San Bartolomeo Apostolo e non pensare a niente. L’amministrazione comunale ha recuperato, restaurato e riqualificato un edificio in Via del Popolo, la vecchia casa di don Achille Lupi, e riconvertita in centro sviluppo innovazioni gastronomia calabrese e ristrutturato la vecchia chiesa di San Bartolomeo Apostolo in parte distrutta dal terremoto del 1904 e riconvertita in sala polifunzionale e centro espositivo arte orafa calabrese, sperando che qualche privato faccia altrettanto.

San Pietro in Amantea che nel censimento del 1951 contava 1705 abitanti, oggi gli abitanti sono poco più di 500. E’ nella lista dei paesi destinati a scomparire. Eppure San Pietro ha attraversato periodi floridissimi. C’erano un tempo non lontano tantissime cantine, botteghe artigianali, trappiti, palmenti, forni, telai, forge, falegnamerie, sartorie maschile e femminile, negozi di genere alimentare. Le terre erano fertilissime. Producevano in grande quantità grano, mais, fichi, uva, olive.

Aveva ed ha 4 chiese, due in campagna. Quella della Madonna delle Grazie è molto conosciuta dagli abitanti dei paesi vicini e meta di pellegrinaggi e richiamo quando si celebra la festa del 2 luglio anche per quelli che sono andati via. Oggi la campagna, purtroppo, non viene considerata più una risorsa. È vissuta come luogo di bellezza ma non della produzione e per molti è diventata luogo di isolamento. (fg)