Massimo Palanca compie oggi 70 anni e domani gli sarà conferita solennemente la cittadinanza onoraria di Catanzaro. Sergio Dragone, giornalista e scrittore, gli ha dedicato uno dei più bei capitoli del suo libro “La leggenda del Catanzaro” (Media&Books) che vogliamo riproporre come tributo al più iconico calciatore giallorosso di tutti i tempi.
di SERGIO DRAGONE – Quando Emidio Lazzarini, figlio di un calzolaio di Ascoli Piceno, confeziona nei primi anni Cinquanta un paio di scarpe da calcio speciali per un suo amico, non immagina lontanamente che le sue “pantofole” sarebbero state indossate da campioni come Lev Jascin, Johan Cruiff, Marco Van Basten, Garrincha, Ferenc Puskas, Luisito Suarez, Gigi Riva, Gianni Rivera e Sandro Mazzola.
La leggenda assegna a John Charles, il gigante buono della Juventus, il merito di avere coniato il fortunato nome di “pantofola d’oro” dopo avere indossato gli scarpini su misura creati appositamente per lui da Emidio: scarpe in morbidissime pelli di vitello che fasciano il piede e permettono di accarezzare il pallone.
E sicuramente Lazzarini non immagina che la sua produzione sarebbe stata messa in crisi a metà degli anni Settanta da un campione di periferia, con un 37 di numero forse più adatto ad una ballerina che non a un calciatore. Con l’aggravante di essere un conterraneo. Si perché, nonostante la leggenda narri che le “pantofole d’oro” siano realizzate tutte su misura, in realtà il grosso della produzione prevede misure standard.
Come nella favola di Cenerentola, nessuna misura standard si adatta al piedino di Massimo Palanca, attaccante del Catanzaro, da poco affacciatosi alla vetrina del calcio italiano. Pippo Lupini, l’uomo di fiducia di Lazzarini, non sa che pesci prendere.
Usare uno scarpino della linea bambini è davvero troppo. Bisogna lavorare su un prototipo originale. «Se Palanca – che lui chiama affettuosamente “Topolino” – ha un “piedino di fata”, vuol dire che costruiremo per lui uno scarpino degno di una fata».
Lui con uno scarpino da favola. Lui che da ragazzino era costretto a usare per le partite le stesse scarpe con cui andava a scuola. Lui che sul campo dell’oratorio di Porto Recanati aveva indossato di nascosto le scarpe del fratello Gianni, tre numeri più grandi e chiodi per tenere fermi i tacchetti, procurandosi piaghe e sanguinamenti.
In quel piede numero 37, fasciato dalla creazione di Emidio, è racchiusa la fantastica favola del ragazzo marchigiano che volle farsi re, il monarca del calcio di provincia. In quel piede numero 37, protetto dalla “pantofola d’oro”, c’è il segreto di tredici gol realizzati direttamente dalla bandierina, record assoluto a livello europeo. Palloni micidiali, calciati alla perfezione, che si abbattono come gli uccelli di Alfred Hitchcock – l’immagine suggestiva è di Federico Buffa – sui malcapitati portieri. “El gol olimpico”, come lo chiamano in Sudamerica, è prerogativa di pochi geni. In Europa solo il serbo Dejan Petkovic riesce a contendere, inutilmente, il primato all’attaccante giallorosso che così entra nella storia del football internazionale.
Una bella storia che inizia a Porto Recanati, non lontano dal promontorio del Conero, nell’agosto del 1953, anche se Massimo “deve” nascere a Loreto, dove c’è l’ospedale più vicino. Quinto di otto figli, cresce a contatto diretto con il calcio perché il padre, custode del campo sportivo, occupa una modesta abitazione ricavata fra i due spogliatoi. Il rumore del pallone che batte sul campo sterrato è la sua prima ninna nanna. E poi papà Renato è stato un onesto giocatore del Porto Recanati e il fratello Gianni avviato ad una significativa carriera di difensore tosto nel Pescara, poi nel Palermo e nel Taranto.
Massimo è magro da fare paura. Il pallone di cuoio con cui gioca in cortile è talmente pesante che quasi non riesce a trascinarlo. Inventa con la fantasia partite fantastiche in cui sogna di essere l’ala sinistra della Juventus, la sua squadra del cuore. Qualche volta costringe una delle sorelle a piazzarsi tra improvvisati pali e fare finta di essere il portiere avversario, sorbendosi terrificanti cannonate. Così piccolo e inafferrabile, così piccolo ma dotato di un sinistro terribile, che fa male. Inevitabile che quel ragazzino passi dall’oratorio di don Ennio Borgogna ad una delle squadre dilettantistiche locali, l’Adriatica, e che presto si segnali tra i più bravi.
Con la scuola e con i libri le cose non vanno tanto bene. Strappa con i denti la licenza media e per fare contenti i genitori si iscrive al Centro di Avviamento Professionale di Recanati. Fa furore nell’Adriatica, ma c’è sempre l’oratorio nel suo destino. In estate sul campetto dei salesiani si disputano infuocate sfide. Ad una di queste assiste, quasi per caso, il presidente del Passamonti, la squadra di calcio di Camerino che milita in serie D. Si chiama Eligio Santacchi e passa le sue vacanze a Porto Recanati. Quel ragazzino minuto gioca da dio e lo incanta. Il mattino dopo è già a colloquio con Renato Palanca per trattare il cartellino del figlio. A settembre del 1970, uno spaurito Massimo arriva a Camerino dove l’accoglie, quasi come un figlio, l’intera famiglia Santacchi. Eligio lo coccola, cerca di non fargli sentire la nostalgia di casa, ma soprattutto è attento al peso del ragazzo. Davvero troppo leggero per giocare al calcio a livelli superiori. E così Santacchi, appena può, porta il giovane Palanca in montagna per stimolargli l’appetito.
Massimo esordisce a diciassette anni in serie D con il Passamonti che però retrocede in Promozione. Tra i dilettanti diventa titolare inamovibile e si afferma come attaccante dotatissimo, capace di numeri straordinari, tanto da guadagnarsi l’interesse del Frosinone, in serie C. A “raccomandare” il ventenne Palanca è Gabriele Guizzo, esperto attaccante del Frosinone e grande estimatore del talento di Porto Recanati. Il primo provino non funziona molto e l’allenatore frusinate, Umberto Mannocci, alza le spalle. Mannocci ha grande esperienza, ha allenato in serie A il Messina e la Lazio, finisce col fidarsi di Guizzo. Massimo viene acquistato per quattordici milioni di lire. Un azzardo. Che sarà ripagato a suon di gol. Ben diciotto che lo consacrano capocannoniere del torneo. In una sola partita, contro la Casertana, ne fa quattro davanti agli occhi emozionati di papà Renato. È nata una stella.
È a questo punto che nel destino di Massimo spunta la Calabria. Ma non quella giallorossa, quella amaranto. A metà del girone di ritorno, il presidente del Frosinone, Domenico Franceschi, annusato l’affare, stipula con la Reggina un accordo di massima che prevede il passaggio di Palanca al club dello Stretto. Siamo nell’aprile del 1974. Il giocatore non ne sa nulla e quando apprende del precontratto salta su tutte le furie. Dirà si alla Reggina, ma solo se gli amaranto manterranno la serie B. Nessuna preclusione, ovviamente, per la società, ma solo il forte desiderio di approdare al calcio professionistico. Anche il Catanzaro ha adocchiato il capocannoniere della serie C, ma Ceravolo preferisce il profilo basso, è informato dell’accordo con la Reggina e decide di stare alla finestra.
È il destino che sceglie per Massimo la strada giusta. La Reggina retrocede per differenza reti e il patto tra Franceschi e Oreste Granillo diventa carta straccia. Ceravolo come un falco s’inserisce nella trattiva e chiude l’affare per centoventi milioni di lire. In un solo anno, il valore di Palanca è aumentato di dieci volte. Catanzaro lo tenta. È un club che ha già assaporato la serie A, una tifoseria appassionata, un tecnico giovane e ambizioso come Gianni Di Marzio. E poi l’ingaggio non è male per quei tempi, un milione di lire al mese.
Fine luglio 1974. Il primo approccio con la nuova realtà non è esaltante. A cominciare dal rocambolesco viaggio in treno da Roma Termini a Lamezia Terme, su un treno da terzo mondo e un caldo bestiale. Ancora peggio il primo incontro con Di Marzio, nella villa a mare del direttore generale Gaetano Scuderi. Massimo gli si presenta con una cascata di riccioli e una barba incolta. Non sembra un calciatore, semmai un componente di un gruppo beat. Tende la mano al mister, ma questi la ritira sdegnato: «Ti saluterò quando avrai tagliato barba e capelli». Il ragazzo ha un carattere orgoglioso, non gli piace quella intromissione nella sua vita privata e gioca per tutto il campionato con barba e capelli lunghi. Di Marzio dimentica presto quella strana presentazione. Massimo Palanca disputa undici campionati con il Catanzaro tra A, B e C, segna 115 gol, a cui bisogna aggiungere 21 reti in Coppa Italia, conquista tre titoli di capocannoniere (in B, in C e in Coppa Italia), uno di vicecapocannoniere in A, due promozioni nella massima serie, una in B. Con un cameo indimenticabile: la tripletta rifilata all’Olimpico alla Roma, il 4 marzo del 1979.
Un campionario infinito di prodezze balistiche, magistrali punizioni e calci d’angolo, rovesciate spettacolari, assist strabilianti per i compagni, perfino colpi di testa vincenti. Per Massimo si sprecano i soprannomi altisonanti: O Rey, come Pelè. O il Cruyff dei poveri. O l’Imperatore della Ovest. Per Sandro Ciotti, mitica voce di Tutto il calcio minuto per minuto, è «uno dei migliori sinistri d’Europa». Il segreto in quel piede numero 37 fasciato di pelle. È la leggenda del ragazzo che volle farsi re. (sd)
(Courtesy Media&Books)