CARO CANDIDATO PRESIDENTE OCCHIUTO
LA SANITÀ DIMENTICATA GRIDA GIUSTIZIA

di FRANCESCO RAO – Appresa la Sua recente dichiarazione, inerente alla questione “sanità in Calabria”, prima di accendere il mio computer e scrivere la presente riflessione, ho scelto di riflettere qualche ora. Vede, quando Lei afferma che i calabresi vorrebbero avere una sanità dignitosa, il suo ragionamento non fa una piega. Identica circostanza vale quanto puntualizza la durata del commissariamento della sanità calabrese.

Le confesso che, spesso, rifletto sulle lungaggini che avvolgono le ali dello sviluppo della nostra Calabria; sinceramente, pensando ai 12 anni intercorsi, penso a quante persone umili sono state costrette a compiere viaggi della speranza, perché puntualmente qualcosa nella nostra sanità pubblica non funzionava. Penso allo stato d’animo del personale medico e paramedico, spesso costretto ad imitare i criceti quando invece avrebbe voluto esprimere tutta la professionalità e tutto l’impegno per curare bene i propri conterranei, mettendo a frutto la bellezza di una professione che in molti hanno scelto come missione di vita.

Penso ad una sanità privata, che nel massimo rispetto delle norme costituzionali, ha gradualmente superato la percentuale di erogazione di servizi drenando a sé i fondi di una sanità pubblica che giorno dopo giorno non poteva erogare servizi per i motivi che Lei conosce molto meglio di me, in quanto l’azione ispettiva di un deputato della Repubblica non è uguale a quella esercitabile da un comune Cittadino a tutti i livelli istituzionali.

Penso al crescente divario tra Nord e Sud, nel quale anche la nostra Calabria ha impegnato ingenti somme per coprire le spese sanitarie convenzionate dei nostri calabresi “costretti” a richiedere ed ottenere prestazioni fuori Regione. Penso alle migliaia di persone anziane calabresi, che per difficoltà economica e per penuria di un servizio odontoiatrico erogato dal Sistema sanitario Nazionale, hanno i lineamenti del viso deformati e ormai oltre a limitarsi a praticare una corretta masticazione dei cibi non esprimono più nemmeno un sorriso, perché nella loro umiltà soffrono a vedersi senza denti.

Penso a migliaia di bambini e adolescenti, figli di nuclei familiari che non riescono a raggiungere la fine del mese in piena serenità, perché i pochi soldi guadagnati a volte non bastano per far fronte al minimo indispensabile e si trascurano per necessità tanto le cure odontoiatriche quanto la famosa indicazione dei medici riferita alla prevenzione. Potrei portare alla Sua cordiale attenzione molte altre circostanze che, probabilmente, farebbero arrossire più Lei che noi calabresi, costretti ad un prendere o lasciare, posto sull’unico piatto a nostra disposizione da un sistema politico-istituzionale ormai concentrato più alle proiezioni delle percentuali che ai problemi reali.

So perfettamente che un deputato, nell’esercizio della propria funzione, secondo quanto stabilito dall’art. 68 della Costituzione, gode della massima autonomia nell’esprimere opinioni. Questo principio costituzione, con deferente rispetto, durante i miei studi lo avevo inteso come un’azione ampliativa resa dal Costituente al Parlamentare, affinché il proprio dire divenisse particolarmente ampio e profondo da consentire la piena percezione di quanto affrontato nelle fasi delle proposte, del confronto e durante le discussioni parlamentari. Con una certa amarezza, sono a confidarLe che nella classe politica odierna, non intravedo quell’azione educativa e quel forte sentimento che i rappresentanti delle Istituzioni dovrebbero trasmettere ai Cittadini come una vera e propria azione pedagogica tesa a rendere la virtù un modello edificante e affrancando la propagazione della mediocrità e della violenza.

Lei, oggi, oltre ad essere un deputato della Repubblica, è il candidato in pectore alla carica di presidente della Regione Calabria. Comprendo benissimo che vuole farsi conoscere ed apprezzare dai calabresi. Comprendo anche i modelli di comunicazione pervasiva, impostati con un timer che intravede nella frase ad effetto una maggiore permeabilità del pensiero manifestato. Vede, io non sono un deputato. Non potrò mai esserlo. Se avessi avuto tale privilegio, non avrei fatto dormire i dirigenti nazionali, regionali, provinciali e locali della sanità calabrese.

Il loro telefono e le loro caselle di posta elettronica le avrei invase di richieste e sulla scorta delle vigenti leggi avrei preteso entro i termini indicati dalla legge risposte certe, nelle quali, oltre ai dati avrei preteso nomi e cognomi dei responsabili unitamente ai nomi e cognomi di chi ha nominato quelle persone e ricoprire specifici ruoli. Potrà considerarmi un populista, ma posso garantirLe che non sono tale perché la mia formazione personale è stata imbastita su quel principio di meritocrazia che intravede nella bandiera tricolore e nelle Istituzioni la bellezza della nostra Repubblica Italiana, retta da una Costituzione che ancora oggi è tra le più lungimiranti ed attuali al mondo.

Come anticipatoLe in premessa, prima di scriverLe questa lettera aperta ho riflettuto a lungo soprattutto su come Lei ha definito i vari commissari giunti in Calabria, su mandato del Governo, per governare la Sanità. Vede, definire gli appartenenti alle forze di Polizia (Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato) “cani da guardia”, è lesivo dell’immagine e del prestigio delle Istituzioni. Avrà sicuramente diritto ed occasione per entrare nel merito delle attività svolte dai vari Commissari straordinari incaricati a gestire l’emergenza sanitaria in Calabria, utilizzando gli strumenti che la Costituzione assegna ai Parlamentari ossi sottoponendo al ministro competente interrogazioni o interpellanze e, qualora Lei ritenesse il compito svolto non in linea alle indicazioni del governo, e soprattutto utile a garantire cure e prestazioni mediche ai calabresi, la denuncia alle Autorità competenti non dovrà essere un’idea da scartare, ma un’azione da praticare chiedendo il supporto dei Calabresi a sottoscrivere denunce alla Procura di Catanzaro e invitando i 404 sindaci della Calabria a costituirsi parte civile.

Prima di inviarLe i miei più cordiali saluti, Le chiedo scusa per aver dato forma e carattere ai miei sentimenti, alle mie emozioni ed il mio malessere, scrivendoLe questa lettera. Vede, chi ha giurato davanti alla bandiera ed alla presenza del Comandante di un Reparto, scegliendo di servire la patria, mettendo la propria vita e quella dei propri familiari in pericolo a seguito di quanto può accadere nell’esercizio della funzione svolta, non può essere additato come un “cane da guardia” ma sino a prova contraria e solo a seguito di una Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, passata in giudicato, è un rappresentante delle Istituzioni che merita rispetto e stima. (fr)

SBARRA: IL CORAGGIO DEL MEZZOGIORNO
PER RISCATTARE LO SVILUPPO CALABRESE

di LUIGI SBARRA – Unitariamente a Siderno, nel cuore della Locride, a rinnovare l’impegno coerente di Cgil, Cisl, Uil sulle tante criticità dell’estremo Sud della nostra penisola, a sostenere la voglia di riscatto della comunità calabrese che non vuole perdere le opportunità del Recovery Fund e dei piani di sviluppo e crescita previsti dal Governo.

È stato un segnale importante, fortemente sostenuto dalla Cisl, l’approvazione dell’emendamento al decreto Semplificazioni che ‘blinda’ il capitolo Mezzogiorno nel Pnrr prevedendo che il 40% delle risorse, anche nei bandi, sia indirizzato al Sud. Avviare il motore sociale e produttivo delle nostre zone deboli significa, infatti, far ripartire l’intero Paese: un obiettivo che riguarda tutti e che deve vedere ogni soggetto sociale e istituzionale coinvolto nel cantiere dello sviluppo. Quello che serve ora è una attivazione rapida ed efficace degli investimenti pubblici, con un controllo stringente su crono-programmi, trasparenza, legalità, qualità e stabilità del lavoro.

La ripartenza economica e sociale attraverso un vero governo della transizione digitale, ambientale, energetica va concertata, anche e soprattutto al Sud, per garantire il pieno utilizzo delle risorse senza la polverizzazione dei progetti, per assicurare tempi certi di realizzazione, buona qualità della spesa e condizioni chiare che leghino le dotazioni finanziarie a forti incrementi occupazionali.

Questo è per la Cisl un punto centrale. È ora di smetterla con gli incentivi a pioggia per imprese che non si impegnano a investire nel Sud, ad assumere a tempo pieno giovani, donne, disoccupati meridionali. Basta con le multinazionali che una volta incassati benefici fiscali e benefit, scappano via, come sta facendo in maniera inaccettabile la Whirpool a Napoli che, senza vergogna, rompe i patti e si defila in cerca di paradisi fiscali e di purgatori contrattuali, dove applicare il peggior dumping salariale, senza alcun rispetto per la dignità delle persone.

Il Mezzogiorno, con i sui gap infrastrutturali, con l’aumento della povertà, con le tante famiglie monoreddito, intercetta e amplifica tutte le criticità economiche, sanitarie e sociali. Riscattare il Sud alla crescita, alla coesione significa da sempre, e in questo momento più che mai, realizzare la migliore politica di sviluppo per tutto il Paese. Ma, questo processo di ricostruzione, ha bisogno di riforme concrete per cambiare la pubblica amministrazione, velocizzare i tempi della giustizia, tagliare le tasse a chi investe stabilmente nel sud, puntare ad un grande piano per la formazione delle nuove competenze. Solo agendo con determinazione su questi fronti, solo facendo vera convergenza, potremo raggiungere i livelli di crescita auspicati dal Governo nei prossimi anni.

Dalla nostra abbiamo due opportunità straordinarie. La prima: un’Europa che finalmente parla il linguaggio della solidarietà e della coesione. Il Recovery Plan guarda al Sud del continente ed il nostro meridione è la punta di lancia di questa sfida comunitaria. La seconda occasione è la “pax politica”, che assicura al Parlamento e al Governo Draghi una stabilità essenziale per le riforme. L’auspicio è che questa coesione duri e sappia agganciarsi stabilmente alla progettualità sociale, attraverso un nuovo patto ed una vera politica di concertazione che metta in priorità la ripartenza delle realtà deboli. 

In quest’ottica, la Calabria è la quintessenza della questione meridionale, e dunque il distillato di tutte le problematiche nazionali. Lavoro, sanità, infrastrutture, politiche industriali, povertà, legalità: non c’è voce che non trovi in questi territori le ferite più profonde. Sono nodi da sciogliere insieme, all’interno di un Patto per la Calabria che muova un pezzo importante del Next Generation Italia sul territorio, per sbloccare infrastrutture e investimenti produttivi, politiche sociali e occupazionali, fiscalità di sviluppo e strategie industriali.

Vanno riscattate le aree interne, rilanciata la portualità e le reti viarie, avviato un grande piano per il risanamento idrogeologico. E, poi, bisogna sbloccare le assunzioni pubbliche, stabilizzare il precariato storico, ammodernare le scuole, gli ospedali ed i servizi pubblici, con una guerra ad ogni forma di criminalità e malaffare. Questo serve alla Calabria e al Sud. Bisogna estendere il perimetro delle responsabilità e pretendere dalle amministrazioni regionali e locali il massimo della trasparenza, della rapidità decisionale, della competenza.

Lo diremo con forza a Siderno: il Mezzogiorno è il terreno dove si combatte una battaglia morale ed economica che non possiamo perdere. Il costo sarebbe altissimo, da ogni punto di vista. Fallire significherebbe marginalizzare un terzo della popolazione, cristallizzare un’economia perpetua della sopravvivenza e “meridionalizzare” l’intero Paese, condannandolo a bassi tassi di crescita e sviluppo. Tutto questo il sindacato non può permetterlo. Per questo siamo mobilitati, in Calabria e nel resto del Paese. Va aperta una stagione di riforme e di investimenti che non lasci indietro nessuno e punti ad unire il Paese con il protagonismo dei lavoratori. 

Luigi Sbarra è Segretario Generale Cisl.

Il testo è la lettera che il segretario della Cisl ha inviato al Direttore del Quotidiano Del Sud / L’Altravoce dell’Italia Roberto Napoletano, in occasione della manifestazione di Siderno.

[Courtesy Il Quotidiano del Sud]

ARCO JONICO, DIVERSAMENTE CALABRESI
L’ALTRO DIVARIO CHE SEPARA LA REGIONE

di DOMENICO MAZZA – Si parla tanto di mancata equità fra Nord e Sud della nazione, nonché di tutto ciò che, a questo insano andazzo, è collegato. Si discute di un Paese che ha generato figli e figliastri che sottrae, sempre più, ad un Mezzogiorno depresso per devolvere ingenti somme verso un Nord, già oltremodo sviluppato e per questo portato ad una eccessiva saturazione.

Poco però, se non nulla, si dice sull’invisibilità, la trasparenza, l’inconsistenza che l’Area Jonica Magnograeca, sconta rispetto all’altro versante della Regione.

Un sistema di trasporti pubblici che, da un lato, offre una parvenza di civiltà: autostrada, linea elettrificata e a doppio binario, treni veloci, aeroporto internazionale, un porto reso crocevia del Mediterraneo, ecc. Dall’altro versante, una strada (e già tale appellativo sa d’eufemismo) olocausto infernale, con più croci che lampioni, con svincoli ed accessi abusivi e, per buona parte del suo lungo tragitto, non superiore ai 6 metri d’ampiezza e con punte di traffico che, in alcuni casi, superano finanche l’A2. Una ferrovia monobinario, ancora non elettrificata, e risalente al periodo dei Borbone. Una sanità che non rispetta neppure il minimo sindacale dei Lea (meno di un posto letto ogni 1000 abitanti contro i 3 su 1000 del resto della Regione), nessun presidio di Giustizia tra Taranto e Crotone, ed un numero di forze dell’ordine ridotto ad un terzo di quelle che dovrebbero esserci.

Tutto ciò, ed altro ancora, ha contribuito notevolmente a generare quell’appendice periferica, ormai in cancrena, che è lo Jonio rispetto alle aree del centralismo. Una periferizzazione che oltre la geografia ha creato un ritardo culturale che, da Sibari in giù, si taglia con il coltello.

Si avverte quanto le popolazioni e anche gli Amministratori, ad ogni livello di rappresentanza, (non tutti per fortuna, ma sicuramente la stragrande maggioranza) si sentano in una posizione di disagio, ancor prima culturale che geografica, rispetto alle aree dei Capoluoghi storici. Non si spiegherebbe, altrimenti, la mancanza di visione, di progettualità, di politiche che riverberino benessere alle popolazioni.

Non è pensabile di poter assistere, sullo Jonio, alla celebrazione di ordinaria amministrazione presentandola con effetti di straordinarietà, pur nella consapevolezza di aver mescolato il nulla al niente, quando dall’altro lato vengono partoriti progetti sinergici e dalla lungimirante parvenza. E non è neppure giustificabile l’atteggiamento arrendevole delle popolazioni e degli Amministratori, che si dilettano a manifestare rabbia sui social senza poi però alla protesta far seguire la proposta.

Senza una riorganizzazione regionale che sia foriera di un nuovo ed equilibrato bilanciamento, prima culturale e di conseguenza su basi  territoriali caratterizzate da affinità e comuni interessi, l’Arco Jonico, Sibarita e Crotoniate, andrà sempre più verso una deriva in cui il territorio non potrà considerarsi parte di una Regione, ma, giocoforza la sua parte diversa: i diversamente calabresi.

La politica, il civismo, le casacche di tutto l’Arco costituzionale sono chiamate ad un’operazione non più differibile: schiarirsi le idee, smettendola con proclamazioni di vacuità e studiando le modalità per portare fuori dal baratro della depressione un territorio ormai alla canna del gas. Il prossimo Consiglio regionale, qualunque sia il colore che lo caratterizzerà, non potrà permettersi il lusso di continuare a tenere nell’indigenza un quarto della popolazione calabrese.

Un corpo non funzionerà mai alla perfezione se ogni organo ed ogni arto non saranno messi in condizione di generare sincronie contribuendo, ognuno per la sua parte, all’armonizzazione dell’insieme.

Se questa Regione continuerà ad essere madre con taluni e matrigna con altri, allora non sarà più il caso di chiamarla Regione, ma guazzabuglio malriuscito di un’amalgama pensata solo per tutelare sacche di accoliti a danno di intere collettività. (dm)

[Domenico Mazza è co-fondatore del Comitato per la Provincia della Magna Graecia]

SIGNORILE: IL NO AL PONTE SULLO STRETTO
CI È COSTATO ALMENO 8 MILIARDI L’ANNO»

di SERGIO DRAGONE – «Io sono convinto che il Ponte sullo Stretto si farà, prima o poi, perché è la logica della convenienza ad imporre tale scelta. Non farlo sarebbe un suicidio, non solo e non tanto per Calabria e Sicilia, quanto per il Mezzogiorno, il Paese e per l’intera Europa». Claudio Signorile, ministro dei trasporti dal 1982 al 1987, è da sempre uno strenuo e netto sostenitore del Ponte sullo Stretto. Non a caso. A lui si deve nel 1985 la firma della concessione alla Società Ponte di Messina. «Sì – ricorda – c’era Bettino Craxi presidente del Consiglio e Nicolazzi era ministro dei lavori pubblici. Fu il primo passo, importante, ma quanto tempo si è perso».

Claudio Signorile è ancora oggi una delle personalità più significative del Meridionalismo, di cui ha una visione moderna e attuale, proiettata verso il futuro in un’ottica internazionale.

– Professor Signorile, da dove nasce questo suo ottimismo al punto da affermare che il ponte si farà ?

«Il mio non è ottimismo. È una netta convinzione che ho solo rafforzato negli anni. Sarà la convenienza generale dell’Europa a dettare la costruzione del ponte, superando resistenze e tentennamenti. Il ponte si farà. L’ordine del giorno approvato dalla Camera con cui s’impegna il Governo a reperire le risorse è un passo importante. Ma bisogna fare presto e bene».

– Cosa direbbe ad uno scettico per convincerlo a sposare la causa del ponte?

«Gli direi innanzitutto che il Ponte non è solo un ponte. Sembra una banalità, ma non è così. Il Ponte come io lo immagino è un sistema complesso, infrastrutturale, economico e sociale che determinerà straordinari effetti positivi sull’intero Meridione. Non è solo un ponte perché sarà il centro di complesse relazioni economiche, politiche e sociali nel cuore del Mediterraneo. Io insisto sulla visione mediterranea perché l’area è crocevia di culture e interessi economici, nonché l’area in cui si registrerà in futuro uno dei più alti tassi di sviluppo».

– Calabria.Live ha aperto un dibattito su un aspetto trascurato, il valore simbolico dell’opera.

«È un’intuizione giusta la vostra, che condivido pienamente. Aggiungerei però all’aspetto simbolico anche il valore identitario del ponte. Identitario di un Meridione che abbandona l’isolamento e si tuffa senza paura nel futuro. Capisco la gelosia con cui i siciliani custodiscono la loro cultura isolana, ma bisogna avere il coraggio di affrontare nuove sfide, di guardare nuovi orizzonti. Ma come si fa a non vedere i vantaggi derivanti dal ponte? Con l’alta velocità il porto di Augusta, faccio solo un esempio, si collegherà rapidamente al porto di Amburgo, nel cuore dell’Europa, aprendo tante prospettive».

– Nell’intervento con cui ho aperto su Calabria.Live il dibattito sul Ponte sullo Stretto l’esempio del ponte sull’Øresun, in Scandinavia. Lo ritiene calzante?

«Assolutamente si. L’Øresun è la dimostrazione del potere rivoluzionario che un’opera del genere può sprigionare. Voi avete sottolineato che l’Øresun ha generato risorse per 12 miliardi di euro in dieci anni contro i 4 miliardi necessari per la sua costruzione. Ebbene, Il Ponte sullo Stretto, per la sua capacità di proiettarsi nel centro del Mediterraneo, avrà un potere ancora più forte, recuperando in un arco temporale relativamente breve il costo iniziale. Sapete quanto è costata all’Italia la mancata realizzazione del Ponte sullo Stretto? Almeno 8 miliardi all’anno. Un’enormità, un autentico suicidio».

– Professor Signorile, lei ostenta ottimismo, ma avrà pure qualche elemento di preoccupazione?

«Sono preoccupato dei tempi, del rischio che si perdano le nuove opportunità derivanti dalla ripartenza economica europea. Sono preoccupato dalla lentezza con cui avanza la consapevolezza dell’estrema utilità dell’opera. I siciliani sono un po’ indietro. I calabresi, anche grazie a dibattiti come questo, cominciano a riflettere seriamente. Ma non si possono rinviare le decisioni all’eternità.Le due Regioni direttamente interessate mi sembra abbiano un atteggiamento timido. Sono convinto però che siamo alla vigilia di decisioni importanti. Il ponte si farà». (drs)

ALLARME COVID, AL VOTO IL 26 SETTEMBRE
NON SI PUÒ RISCHIARE RINVIO A PRIMAVERA

di SANTO STRATI – L’arco temporale fissato a suo tempo tra il 15 settembre e il 15 ottobre per l’election-day che dovrebbe riguardare anche il voto regionale calabrese si sta drasticamente assottigliando con l’avanzare del pericolo di nuove varianti e l’incremento costante di contagi. Al Ministero dell’Interno stanno, difatti, vagliando l’ipotesi di anticipare al 26 settembre rispetto alla data ottimale prevista per il 10 ottobre: sono due settimane che possono risultare significative in caso di una nuova ondata post-vacanziera di covid-19. Anzi, una prima ipotesi ventilava la data del 19 settembre, ma giacché a Roma i rientri dalla vacanze tradizionalmente si concludono non prima del 10 settembre, è sembrato un azzardo convocare i comizi elettorali a così poca distanza dal “ritorno al quotidiano”. Se così sarà, dovrà prenderne atto il presidente facente funzioni Nino Spirlì che entro il 25 agosto dovrà indire i comizi elettorali e fissare la data del 26 settembre. È fin troppo evidente che la Calabria non è in grado di sopportare alcun altro rinvio, tipo se ne riparla in primavera: la Regione dev’essere governata nella pienezza delle funzioni (da destra o da sinistra, lo decideranno gli elettori) e non si pensi di prolungare una situazione ormai al collasso.

Un anticipo, anche in questo caso, di quindici giorni, che non sono da sottovalutare a fronte di una campagna elettorale che ogni giorno riserva nuovi colpi di scena. In due settimane si fanno e si disfano accordi che sembravano inossidabili, si cementano nuove intese, si rompono rapporti. E quest’ultimo sembra sarà lo sport più voga quest’estate, visto che la composizione delle liste, in tutti gli schieramenti, ad esclusione di quello civico di Luigi De Magistris, sta compromettendo amicizie di lunga data e favorendo vicinanze insospettabili. Non avviene in casa De Magistris perché, per la maggior parte si tratta di neofiti del voto (ad esclusione dell’ex pd Giudiceandrea) che hanno poco da litigarsi: l’entusiasmo della partecipazione è una sufficiente prebenda per l’impegno di mettersi in lista. Al contrario, a destra e sinistra con i rispettivi centri c’è aria di bufera tra gli uscenti che “pretendono” di essere riconfermati (se convinceranno gli elettori, naturalmente), quelli rimasti fuori nella passata tornata elettorale del 26 gennaio 2020, e il cosiddetto nuovo che avanza, ovvero la truppa dei nuovi arruolati che, inspiegabilmente, è convinta di avere migliaia di voti dalla loro parte.

La visita-lampo di Enrico Letta che, di fatto, inaugura la campagna elettorale del centrosinistra calabrese (quale?) non riteniamo porterà segnali di pace né tantomeno sarà d’aiuto alla neo-candidata Amalia Bruni che raccoglie, in maniera quasi paritaria, sorrisi e malumori in una sinistra che continua a non riconoscersi nell’attuale commissariamento di Stefano Graziano, ultimamente supportato dal neocommissario di Cosenza Francesco Boccia. Un’accoppiata che continua a suscitare maldipancia in lungo e in largo e non lascia intravvedere grandi spazi di manovra per una coralità d’intenti «contro le destre». Quest’ultimo leit-motiv avrebbe senso se, per pura combinazione, il segretario dem riuscisse in una doppia missione impossibile: prima di tutto sbarazzarsi della intoccabile coppia Boccia-Graziano (con le ovvie conseguenze a via del Nazareno, in direzione) e quindi trovare l’intesa con De Magistris per presentare una coalizione apparentemente unitaria, alla quale Mario Oliverio non potrebbe fare più l’annunciata guerra. Oliverio ha provato in tutti i modi di avere un abbocco con il segretario dem, ma ogni tentativo è risultato vano, tanto che l’ex presidente ha lanciato provocatoriamente le sue liste e la sua candidatura che equivale a un drenaggio sicuro di voti a sinistra. Con il pretesto del libro di Drosi, Mario Oliverio ha lanciato una campagna elettorale sui generis, dove appare come il padre della patria, ovvero il padre nobile di una sinistra abbandonata, trascurata e vilipesa da Roma, e quindi l’unico in grado di convogliare gli smarriti compagni verso una meta comune. Nell’ipotetico quanto pressoché improbabile (ma non impossibile) accordo Letta-De Magistris, la posizione di Oliverio, indubbiamente, non potrà restare ingessata, in cambio di qualche generosa disponibilità. Allo stato attuale, Oliverio ha la forza di mandare in Consiglio regionale almeno due suoi rappresentanti che, in caso di corsa solitaria, andrebbero a costituire elementi di spicco della minoranza, ma il problema è che Oliverio dovrebbe “accontentare” più dei due papabili consiglieri che le sue liste potrebbero ottenere e le scelte obbligate (con relative esclusioni) alimenteranno nuovi dissapori e nuove lacerazioni a sinistra. Dall’altra parte, De Magistris potrebbe accettare di “sacrificarsi” in nome di una “legittima battaglia unitaria contro le destre”, ma dovrebbe uscirne da quasi vincitore: un incarico istituzionale di peso (ci sono circa 600 nomine di organismi pubblici da rinnovare), ma soprattutto un’opzione di peso in regione: difficilmente accetterà il sindaco di Napoli di mettersi da parte a favore della Bruni, chiederà, forte della valenza dei consensi che apparentemente porta in dote, una figura “nuova” che superi la logica del “nominato/a” ma risponda a un consenso espresso dal territorio (primarie?). E qui ritorna in primo piano Anna Falcone, la battagliera avvocata cosentina che sta conducendo un’indovinata campagna elettorale a favore di De Magistris con la sua Primavera della Calabria. Potrebbe essere la figura nuova su cui puntare o, in subordine, una vicepresidente espressione del territorio. In tale situazione – molto fantascientifica, sia chiaro – Germaneto si tingerebbe di rosa, in caso dell’insperata vittoria della sinistra: la Calabria sarebbe la prima Regione italiana guidata interamente al femminile.

Intanto, si preparano i probabili futuri “reggenti” dei dem calabresi: il deputato Nicola Carè (eletto nella circoscrizione Africa, Asia, Oceania, Antartide) con toccata e fuga dai dem a Italia Viva e ritorno e Luca Lotti (dem, fintamente ex sodale di Matteo Renzi). Qualunque soluzione, allo stato attuale, potrebbe offrire qualche seria opportunità di rifondare il partito in Calabria. È particolarmente rilevante che Carè voglia tornare in Calabria a occuparsi del territorio e “ricostruire” il partito. È il momento del ritorno alla “terra dei padri” e il deputato calabro-australiano, originario di Guardavalle (CZ), potrebbe rappresentare un’interessante novità per rivitalizzare una sinistra avvilita, stanca e demotivata. Apprezzato a Roma, avrebbe qualche possibilità di successo nel lavoro di coesione e ricucitura dei tanti strappi della sinistra.

Se Atene piange, Sparta non ride. Così, il sale grosso sparso a piene mani da Giorgia Meloni, dopo la delusione del CdA Rai, nei confronti della “vittoriosa” coalizione di centro-destra in Calabria, rimettendo in discussione la scelta di Roberto Occhiuto a candidato Governatore, non fa salire la pressione alla Lega che, in Calabria, nonostante gli sforzi e le transumanze in vista, vede decrescere ogni giorno i consensi. Wanda Ferro, clamorosamente battuta da Oliverio nel 2015, pensa sempre alla rivincita e si tiene pronta a qualsiasi evenienza, o almeno lo lascia intendere, perché a destra tutti sanno che, in realtà, le minacce della Meloni hanno un solo obiettivo: ridimensionare ulteriormente il peso della Lega in Calabria e conquistare ampi spazi di territorio fino a insidiare agli azzurri il ruolo di partito più votato. Per la verità, c’è anche un altro fine nella speciosa dichiarazione di “guerra” alla coalizione, ovvero un avviso di sfratto “mascherato” al vicepresidente Spirlì che ha ricevuto il mandato direttamente da Salvini (e sono due!). Spirlì non piace a gran parte della coalizione ed è malsopportato dai fans di Occhiuto, i quali hanno dovuto, al pari del candidato presidente, accettare l’imposizione del bis di Spirlì alla vicepresidenza. Spirlì, naturalmente, ha declinato qualsiasi invito a candidarsi e sondare di persona il consenso a suo favore (chi glielo fa fare?  Il rischio di flop è molto ampio…) e conta di tornare “regnare” in quel di Germaneto per grazia e volontà di Salvini.

L’avviso di sfratto ha naturalmente un concreto aspirante: l’attuale assessore al Lavoro e al Turismo Fausto Orsomarso. Sarebbe lui la merce di scambio per il ritiro delle minacce della candidatura disfattista di Wanda Ferro. Orsomarso è più che convinto delle ottime chances di successo di tale opzione e sta ipotecando la poltrona di vice all’ottavo piano di Germaneto. Al facente funzioni – al quale toccherà indire le elezioni che sanciranno la fine del suo interregno – probabilmente andrebbe un assessorato minore, sempre in base ai voti raccolti dalla Lega in Calabria e sempre che non ci siano sorprese sulla pressoché sicura vittoria di Occhiuto. Si accettano comunque scommesse. (s)

LO SCANDALO DELL’AEROPORTO DI REGGIO
PICCOLI AGGIUSTAMENTI, NESSUN RILANCIO

di SANTO STRATI – Sono trascorsi due anni dalla pomposa e superba presentazione dell’arrivo di 25 milioni per l’Aeroporto dello Stretto, frutto di un’abile mossa del deputato reggino Francesco “Ciccio” Cannizzaro nel tradizionale assalto alla diligenza della legge finanziaria. Un emendamento subito passato col risultato – straordinario – di avere una paccata di milioni immediatamente disponibili. Peccato che alla orgogliosa soddisfazione dell’allora presidente Sacal (la società che ha preso in gestione i tre aeroporti calabresi)  Arturo De Felice e di Ciccio Cannizzaro, siano seguiti due anni di vuoto totale, per scoprire, a qualche settimana dal secondo anniversario del proclama, che sono stati programmati solo piccoli, modestissimi, interventi di manutenzione che non serviranno certo a far rilanciare lo scalo. Ma se la Sacal – che continua a non voler rendere pubblico il piano industriale – ha delle evidenti e pesanti responsabilità, forse sarebbe il caso di rinfacciare alla Città Metropolitana di Reggio un atteggiamento di remissiva indifferenza, quasi a tenere lontano un fastidioso problema. Cosa ha fatto e cosa sta facendo la Metrocity per la popolazione della provincia reggina (e i dirimpettai cugini messinesi che ne trarrebbero vantaggio)? Poco, pochissimo, con scarsa attenzione a un problema enorme: che senso ha il progetto turistico della MetroCity se viene a mancare l’aeroporto? Come si può continuare a ignorare che l’azione della Sacal è stata unicamente rivolta a far crescere il traffico aeroportuale di Lamezia, trascurando sia Crotone sia Reggio, dimenticando l’obiettivo primario che era quello di fare rete tra i tre scali in modo da ottimizzare risorse, traffico e occupazione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’Aeroporto dello Stretto non genera traffico perché i passeggeri vengono demotivati da orari impossibili, la struttura è obsoleta, l’intero impianto aeroportuale è vecchio e, soprattutto, incoerente con il progetto del Parco lineare Sud che la Città di Reggio sta portando avanti. In particolare, andrebbe rivista la collocazione dell’aerostazione in prossimità della stazione ferroviaria (ora in disuso) che potrebbe costituire un punto di snodo rilevante nella mobilità da e verso l’aeroporto.

Nelle passate settimane c’è stato uno scambio epistolare tra il presidente della Sacal Giulio De Metrio e il sindaco Giuseppe Falcomatà. De Metrio contestando notizie «ingenerose e fuorvianti» sulla Sacal aveva affermato nella sua lettera che «per esperienza di settore ero e sono convinto che l’aeroporto abbia significative potenzialità di traffico inespresse, che è venuto il momento di cogliere dopo anni di incuria» e indicato le prime aree di intervento: «rimozione delle limitazioni operative, che in tutti questi anni hanno tenuto lontane dall’aeroporto le compagnie aeree più performanti e con prezzi al pubblico competitivi; riqualificazione delle infrastrutture aeroportuali, inserite in un quadro paesaggistico con pochi rivali al mondo, ma ridotte nel tempo in uno stato indecoroso; stimolo alle compagnie aeree a volare nel nostro aeroporto; attivazione di accessibilità su gomma, ferro ed acqua all’aeroporto, al momento lontana da un livello accettabile; promozione del decoro e dei servizi urbani intorno all’aeroporto (e direi anche in città) oggi molto migliorabili se si vogliono attrarre sia turisti che businessman; promozione e sviluppo del territorio, con una discontinuità visibile in campo culturale, sociale, turistico, economico».
C’è da sottolineare che per atterrare a Reggio è necessaria una particolare abilitazione dei piloti che le società di trasporto aereo si guardano bene dall’attivare (bisogna spendere qualche soldo) ed è questa una risibile scusa per motivare l’assenza dallo scalo di numerose compagnie. In realtà non servirebbe molto se la Regione (o la Città Metropolitana) volessero investire offrendosi di pagare la formazione “aggiuntiva” abilitante ai piloti delle varie RyanAir (per fare un esempio), ma è che manca proprio una visione strategica dell’utilizzo dello scalo. Solo i cittadini di Reggio e di Messina hanno chiaro cosa costa l’Aeroporto che non vola, in termini di tempo, di mobilità, di servizi.

La Sacal, assegnataria del bando unico voluto da Mario Oliverio, è una società a capitale misto pubblico-privato, ma non è presente in alcun modo nella compagine societaria né il Comune di Reggio né la MetroCity. Si allargherà il capitale ad altri soci? Adesso che la Sacal ha una forte crisi di liquidità (con iniezioni di fondi freschi garantite dalla Regione) sarebbe un’operazione di dubbia valenza finanziaria. E allora si dovrebbe ricorrere a chiedere alla Sacal la rinuncia a gestire lo scalo reggino e provvedere a un nuovo bando. Ma è pura illusione. Basta scorrere le note scritte da De Metrio a Falcomatà: «Torno a notare però con dispiacere che, anche dal suo staff e non è la prima volta, vengono diffuse notizie che mal si conciliano con quanto avviene tra di noi. Sarei stato… convocato, messo in mora, audito da comitati, pressato, invitato a maggiore incisività, e…chissà quant’altro? Si fa leva su progettualità sicuramente disinteressate che sbocciano simpaticamente gratis e fuori tempo massimo con tutto il corredo di valorizzazioni. Nulla di tutto ciò è avvenuto in mia presenza. Quando ho ritenuto, mi sono cortesemente reso disponibile, contando sulla correttezza dei rapporti, e non immaginando la diffusione di informazioni strumentali.

«Nonostante la crisi epocale – ha scritto De Metrio al sindaco di rReggio –, SACAL si è impegnata e continua a farlo senza sosta dal primo giorno nello sviluppo del sistema aeroportuale calabrese ed in particolare dell’Aeroporto dello Stretto, attraverso iniziative industriali e rapporti con interlocutori opportuni, fuori da sterili campanilismi, anzi cercando di curarli quando possibile. Mi auguro che i rapporti con gli stakeholder continuino a svilupparsi positivamente, così come sono cominciati, nella convinzione che si comprenda che non esistono bacchette magiche che risolvano problemi con radici lontane, che non esistono giudici e giudicati, ma solo attori che devono incidere in modo sistemico ognuno nel proprio ambito per avvicinare la Calabria al mondo».

Belle parole che confliggono con la scelta dei “piccoli” interventi di manutenzione predisposti con i famosi 25 milioni della Finanziaria. Progetti che non convincono il viceministro alle Infrastrutture, il leghista  Alessandro Morelli, il quale è in visita a Reggio in questi giorni. Morelli  ha espresso a nome del Ministero le sue perplessità: «ho visto un elenco di 9 piccoli progetti che dubito seriamente possano servire a rilanciare lo scalo reggino. Come già detto in più occasioni, l’obiettivo condiviso da istituzioni, società di gestione ed ente controllore deve essere migliorare l’accessibilità all’Aeroporto di Reggio Calabria per renderlo appetibile e competitivo a livello nazionale e internazionale. Questo significa garantire un accesso ferroviario diretto possibilmente all’interno dell’aerostazione, implementare le attuali linee viarie di accesso, e sviluppare i collegamenti via mare tra Messina e l’Aeroporto dello Stretto. Ci sono ben 25 milioni di euro a disposizione da quasi 3 anni: è bene che siano impiegati, in modo virtuoso, per rendere possibili soluzioni di questo tipo, e non per interventi di dubbia rilevanza, peraltro con l’esborso di ingenti quantità di denaro pubblico».

Il viceministro Morelli ha anche fatto presente di voler predisporre un tavolo tecnico «con tutti gli attori interessati, per ragionare su interventi seri atti a migliorare l’accessibilità dell’Aeroporto, utilizzando le risorse già disponibili e stanziandone delle altre se necessario».
Una società privata ha presentato un progetto per il rifacimento dell’intera area aeroportuale con una spesa complessiva di 32 milioni, ovvero appena 7 in più rispetto a quelli disponibili per “reti da pollaio e nuova pavimentazione col linoleum dell’aerostazione” (come qualcuno ha definito gli interventi previsti). Pensate che qualcuno abbia voluto analizzare, valutare o discutere questo progetto? La risposta è ovvia. Inutile chiedersi perché Reggio (ma tutta la Calabria) non riesce – è il caso di dirlo – a decollare. (s)

PNRR, CALABRIA: ILLUSIONI E PROMESSE
80% AL NORD E SOLO 20% AL MEZZOGIORNO

di SANTO STRATI – A conti fatti, l’«equa» ripartizione delle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vedrà assegnare l’80% al Nord e un misero 20% al Sud. Altro che superamento del divario economico, territoriale, culturale, sanitario, industriale, etc: qui si tratta proprio di sottrazione autorizzata di risorse ai danni delle popolazioni meridionali, con un’evidente ripresa anche dell’emigrazione “povera” verso le regioni ricche. Non solo fuga di cervelli, inevitabile vista la mancanza di opportunità e di occasioni di lavoro per i nostri laureati e ricercatori che si formano a Cosenza, Catanzaro, Reggio (tre Atenei che hanno dimostrato di saper “produrre” eccellenze), ma anche il richiamo di manovalanza dal Sud (muratori, elettricisti, carpentieri, etc) necessaria al Settentrione per realizzare infrastrutture, ospedali, scuole, edifici pubblici, impianti di pubblica utilità etc. Visto che saranno insufficienti le forze lavoro dei migranti che sono già integrati nel processo produttivo e industriale del Nord, secondo alcune stime saranno almeno 500mila i giovani che il Recovery Plan costringerà a lasciare il Sud nei prossimi sei anni (quelli della durata del piano). Ai quali, per la cronaca, è bene sottolineare, andrà aggiunta l’emorragia giovanile dal Sud degli ultimi venti anni: un milione e mezzo. L’equivalente di una città come Milano, due terzi di una regione come la Calabria. Di cosa stiamo ancora a discutere?

Al Sud, se si esclude l’ipotesi Ponte sullo Stretto, per la cui realizzazione (?) al primo anno ci potrebbero essere 25mila nuovi posti di lavoro, non s’intravvedono grandi opportunità di occupazione. Del resto se la ripartizione delle risorse finanziarie rimane quella da più parti messa in evidenza (a partire all’economista pugliese Vincenzo Viesti che per primo ha lanciato l’allarme) c’è poco da illudersi: 175 miliardi andranno al Nord, 35 miliardi al Sud, con buona pace della ministra per il Sud Mara Carfagna che con un emendamento ha fatto portare la quota minima delle risorse destinate alle regioni meridionali dal 34 al 40%. La matematica non è un’opinione: se fosse realmente il 40%, il Sud avrebbe oltre 80 miliardi a disposizione, come si arriva a 35? Ovvero meno della metà? E pensare che, sulla carta, appaiono “appena” 22 dei 35 miliardi stimati.

Qualcosa, evidentemente non torna. L’autonomia differenziata richiesta a gran voce da Lombardia, Veneto ed Emilia, cacciata fuori dalla porta, rientra in maniera furba dalla finestra. E se della Calabria – come, purtroppo, abbiamo scritto fin troppe volte – non interessa niente alla politica romana, diversa è la situazione dell’intero Mezzogiorno, ovvero di un terzo d’Italia che si sente “dimenticato” e trascurato. E ha un bel ripetere l’ex premier Giuseppe Conte che «se non parte il Sud non parte l’Italia»: da buon meridionale, però ormai integrato nel Palazzo, sa bene che le intenzioni e le promesse portano consenso anche se poi non vanno a termine. E così sta accadendo.

Ecco perché la manifestazione di ieri dei tantissimi sindaci della Rete Recovery Sud accorsi in piazza Montecitorio a Roma, pur essendosi rivelata un flop di presenze, assume il tono di un preavviso chiaro al Governo di Mario Draghi. Non ci può essere sviluppo se non vengono attuate le condizioni minime per superare il divario sempre più forte tra Nord e Sud.

Ernesto Magorno con alcuni sindaci alla manifestazione del 21 luglio

Unico parlamentare calabrese presente il sen. Ernesto Magorno che è anche sindaco di Diamante (CS), il quale ha sottolineato a Calabria.Live che è tempo che la rete dei sindaci del Recovery Sud cominci a fare sul serio, facendosi sentire nelle stanze del potere. E gli altri parlamentari calabresi? E i sindaci della Calabria? Scarsa organizzazione per quanto riguarda i sindaci (ricordiamo la folta partecipazione alla manifestazione dell’Anci lo scorso novembre con la delegazione ricevuta da Conte) ma nessuna giustificazione per deputati e senatori della regione che hanno clamorosamente snobbato l’iniziativa, forse perché promossa dal Movimento 24 Agosto – Equità territoriale che fa capo a Pino Aprile.

È bello che a perorare la causa del Sud sia stato il sen. (ora del gruppo Misto) De Falco, il famoso comandante del «torni a bordo, cazzo!» dello sciagurato naufragio della nave Costa ai comandi di Schettino, ma, a quanto pare, anche ai parlamentari calabresi interessa poco della Calabria e del Mezzogiorno, come al resto di Camera e Senato. Se ne ricordino gli elettori quando torneranno alle urne. (s)

DA DRAGHI I SINDACI DEL RECOVERY SUD
INTOLLERABILE SCIPPO AL MEZZOGIORNO

Quante sono le risorse destinate al Sud dal Recovery Fund? È necessario fare chiarezza ed è quanto chiederanno a gran voce i sindaci del Recovery Sud  che oggi si riuniscono a Roma per incontrare (si spera) il presidente del Consiglio Mario Draghi. I sindaci della Rete Recovery Sud saranno in piazza, a Montecitorio, per chiedere l’equità territoriale tra Nord e Sud. E, a tal proposito, il senatore di Italia VivaErnesto Magorno, che ha confermato la sua partecipazione, ha rivolto un appello «a tutti i Primi Cittadini calabresi e al neo Presidente Anci Calabria, Marcello Manna, affinché la Calabria possa essere presente con il maggior numero di Sindaci possibile. È un momento cruciale e dobbiamo essere uniti. Ora come non mai».

È una questione spinosa, ma soprattutto intollerabile: si profila un ulteriore scippo al Sud che nessuno può permettere. Ricordiamo che la grande dotazione finanziaria destinata all’Italia – la più importante in Europa – è stata “generosa” giusto per garantire azioni destinate a ridurre il divario nord-sud: proprio l’esistenza di una situazione economica e sociale molto precaria nelle regioni meridionali ha giustificato l’incremento degli aiuti. Che, a conti fatti, apparentemente non supereranno neanche i 30 miliardi, altro che quota di riserva del 34% garantita da una legge del Governo Conte per gli investimenti nel Mezzogiorno.

In realtà, la ministra per il Sud, Mara Carfagna, ha ottenuto, grazie a un emendamento al “decreto semplificazioni”, che i bandi del Pnrr siano vincolati a impegnare il 40% delle risorse in progetti legati alle Regioni del Mezzogiorno.

«È un vero e proprio vincolo di destinazione territoriale fissato con una norma. Le risorse ci sono e, oggi, ci sono anche le norme di tutela della loro effettiva destinazione territoriale – ha spiegato la ministra per il Sud, ricordando che  la quota Sud del Piano e del Fondo complementare (“il famoso 40% delle risorse territorializzabili, circa 82 miliardi”) si compone di «interventi infrastrutturali definiti e geograficamente collocati”, ma anche di “misure ad assorbimento, come il Superbonus, per i quali abbiamo usato criteri di riparto molto prudenziali, basati su dati storici».

«L’assegnazione delle risorse – ha aggiunto la ministra per il Sud e la Coesione territoriale – sarà accompagnata da un monitoraggio puntuale dell’effettiva localizzazione degli interventi, svolto al massimo livello dalla Cabina di Regia. In caso di scostamento, è prevista l’adozione di misure compensative e correttive».

La Carfagna, infatti, ha auspicato che «le tante discussioni e polemiche dei mesi e delle settimane scorse, le giuste preoccupazioni ma anche le incomprensibili (per il momento che stiamo vivendo) strumentalizzazioni, lascino ora il passo a un impegno comune e condiviso», quando, in realtà, quello che viene chiesto è soltanto «l’equità territoriale tra Nord e Sud» sulle risorse del Recovery, concetto che sarà ribadito a Roma, in piazza Montecitorio, nella manifestazione dei sindaci della rete del Recovery Sud, composta da circa 600 primi cittadini del Sud». Non ci saranno, ovviamente, tutti, ma sarà una rappresentanza alta, con l’auspicio che non si risolva tutto come nel precedente incontro di Conte con i sindaci calabresi lo scorso novembre che si è fermato a belle dichiarazioni d’intenti e grandi promesse (poi regolarmente disattese, come da copione).

«Una richiesta più che legittima – ha dichiarato la Carfagna –, sopratutto se il Mezzogiorno è stato, nuovamente, protagonista dell’ennesimo scippo: del 70% di 209 miliardi previsti, sono stati ridotti a 82 e, sicuri, ne arriveranno 35, mentre altri «47 saranno messi a gara in ambito nazionale, con bandi che metteranno in competizione le amministrazioni di tutto il paese».

Una gravissima mancanza, che è stata scoperta grazie al docente universitario dell’Università di Bari, Vincenzo Viesti, e che ha innescato una vera e propria indignazione, Davide Carlucci, sindaco di Acquaviva delle Fonti (BA), a nome dei 600 amministratori meridionali, ha presentato alla Commissione Europea una petizione, chiedendo «di modificare il Piano nazionale di ripresa e resilienza presentato dal Governo Italiano, favorendo un’equa suddivisione territoriale dei fondi», che ha ottenuto l’importante risultato che «il Parlamento Europeo vigilerà sull’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, per verificare se sarà rispettato il Mezzogiorno nella distribuzione dei fondi».

«La scelta del Governo italiano – si legge – di destinare al Sud il solo 40% teorico delle risorse del Pnrr, rischia invece di creare i presupposti per un’ulteriore gravissima divaricazione. 80 miliardi di euro (di cui solo 22 certi, come ha dimostrato l’economista Gianfranco Viesti) sembrano una cifra enorme. Non lo sono, se si considera quanto sia cronico e difficile da sradicare il nostro deficit di sviluppo».

«La quota di fondi destinata al Mezzogiorno – ha scritto la rete Recovery Sud – distribuita in Italia in netta difformità rispetto ai criteri europei, che ritenevano più meritevoli di sostegno le regioni ad alto tasso di disoccupazione e a basso Pil procapite, potrebbe ora ridursi al lumicino. La ragione è semplice: i fondi destinati ai territori saranno assegnati attraverso bandi che i Comuni meridionali (decimati nel personale, spesso colpiti dal dissesto e privati di risorse grazie al sistema della spesa storica introdotto dal federalismo fiscale) con difficoltà riusciranno a intercettare».

«La ministra Carfagna  – ha proseguito la Rete – ha annunciato che la quota destinata al Sud sarà blindata con una norma ad hoc, ma al momento è solo un annuncio e abbiamo subito troppi artifici e ritardi sulla nostra pelle (spesa storica, Lep, definanziamento di opere, riproposizione come nuove di altre opere già finanziate, ecc) per poter fidarci anche della più sincera delle promesse. Ecco perché è importante essere presenti dopodomani a Roma. Per evitare che un governo a trazione nordista possa vanificare ciò che chiede l’Unione Europea, ovvero che dalla pandemia si risollevi l’intera Italia, e non solo una parte, e che si riducano drasticamente le condizioni di disuguaglianza in cui versa l’Italia da un secolo e mezzo».

A sottolineare come la quota del 40% al Sud delle risorse del Pnrr «rischia di creare un’ulteriore divaricazione nei livelli di sviluppo a discapito del Sud, e acuire le difficoltà socio-economiche delle aree depresse le cui condizioni si sono vieppiù deteriorate a seguito della Pandemia da Covid 19», è stato Nicolò de Bartolo, responsabile Enti Locali del Coordinamento Cambiamo! della Provincia di Cosenza.

«La spesa nazionale per interventi a favore del Sud – ha sottolineato de Bartolo – è scesa dallo 0,47% del Pil degli anni Novanta allo 0,15% del 2015. I fondi europei hanno sostituito soltanto in minima parte le politiche di riequilibrio. Al Sud e alla Calabria che evidenzia più disparità  delle altre regioni  del Sud, deve essere dato ciò di cui ha effettivamente bisogno: a cominciare dal personale competente necessario ad elaborare progetti di sviluppo , come richiede il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza».

Per Francesco Bevilacqua, coordinatore regionale di Cambiamo!, «circa 87 miliardi di euro dovrebbero essere destinati a Regioni, Comuni, Province, città e Metropolitane del Sud, e, sicuramente, i Comuni sono i maggiori investitori pubblici e, dunque, è necessario che sappiano che cosa dovranno fare, con quante risorse e quali sono le regole per amministrarle».

A ribadire la necessità di una forte presa di posizione «per evitare che i fondi del Pnrr, che sono già stati ridotti al Sud, finiscano in prevalenza al Centro-Nord», il sindaco di Marcellinara, Vittorio Scerbo, sottolineando che «bisogna fare il modo che le istanze dei Comuni del Sud siano messe in grande risalto per quanto concerne, in primo luogo, i fondi da destinare alla progettazione e soprattutto all’assunzione di nuove professionalità tecniche da mettere a disposizione degli enti, a partire da quelli piccoli: le gravi criticità emerse per il reclutamento dei 2800 tecnici per gli interventi previsti dalla politica di coesione dell’Unione europea e nazionale per il ciclo di programmazione 2021-2027 hanno dimostrato, per ora, che i Comuni sotto i 3mila abitanti sono stati tagliati fuori dall’assegnazione di tali figure».

«Senza l’azione di coordinamento dell’Anci, e delle Anci meridionali soprattutto – ha concluso il sindaco Scerbo – anche quest’ultima opportunità di ripresa che può derivare dalle risorse del Pnrr rimarrà l’ennesima chimera per il riscatto del Meridione che vedrà drammaticamente aumenterà il divario di cittadinanza con le altre aree del Paese. In Calabria il 95% dei comuni è al di sotto dei 15mila abitanti, ebbene, ad oggi, senza i fondi del Pnrr, non ci sarebbero le risorse per progettare la rigenerazione urbana di questi territori: sarebbe un disastro!».

Anche  il tedesco Peter Jahr, a sostegno dei Popolari, ha ricordato che «l’Unione europea esiste anche per migliorare le condizioni di vita sul piano sociale rendendole uguali per tutti. È necessario ricordare al governo italiano che i fondi devono essere distribuiti con questa filosofia, dobbiamo esortare la commissione perché verifichi cosa si fa con i fondi stanziati».

Il laburista maltese Alfred Sant, invece, ha ricordato che «i piani dovrebbero contribuire al miglioramento della coesione economica e nazionale,  e le regioni meridionali devono recuperare molto terreno rispetto alle regioni del Nord. Tutto questo dovrebbe essere valutato nel contesto degli ultimi dati emergenti che mostrano le diseguaglianze economiche e sociali negli ultimi anni sono addirittura aumentate nell’Unione Europea e le regioni meridionali sono state le più colpite. Chiedo che la petizione resti aperta per un’ulteriore analisi, e vorrei chiedere alla commissione petizioni una lettera alla commissione europea per chiedere chiarimenti e un ulteriore follow up su questa situazione».

Angel Catalina Rubianes, della Dg Recover, ha sottolineato come «abbiamo ricevuto numerose lettere da portatori d’interesse che chiedono più risorse per il Sud.  Il regolamento prevede che le raccomandazioni specifiche per i Paesi siano rispettate e qui c’è una raccomandazione specifica per superare il divario infrastrutturale e per la coesione territoriale. Per il fondo di ripresa e resilienza l’unità di riferimento non sono però le regioni ma lo Stato membro. E molte misure, come la 3 e la 5, prevedono misure dedicate alle regioni del Sud. Inoltre, ci sarà un accordo operativo che sarà negoziato con il governo italiano che fisserà ulteriori dettagli sulla portata geografica di alcune misure contenute nel piano. E sono in corso negoziati per l’accordo di partenariato e i programmi operativi politica di coesione 2021-2027: ci saranno risorse specifiche per le regioni del Sud».

La Rubianes ha ricordato la scarsa capacità delle regioni del Sud ad assorbire le risorse europee, e la necessità di investimenti e risorse per il recupero delle acque reflue, molto importante per le regioni del Sud: «Noi siamo uno dei pochi comuni in Italia che, grazie a un investimento da 4 milioni di euro, già fa affinamento delle acque reflue. Questo dimostra che se siamo messi in condizione di presentare progetti, siamo in grado di intercettare i fondi. Ma non si vuole comprendere la gravità del problema. Nel Pnrr non abbiamo ritrovato progetti fermi dal 1971, come il completamento dell’autostrada Bari-Taranto, che arriva a 30 chilometri dal capoluogo ionico. E non vi è una riga sul grande Parco della transumanza che dovrebbe attraversare tutte le regioni meridionali, proposto da Recovery Sud. Dite al Governo italiano di ascoltare i Comuni meridionali, di dar loro urgentemente i fondi per affidare incarichi oppure si rischierà ancora una volta il flop».

Insomma, è fondamentale preservare e garantire le risorse del Recovery Sud al Mezzogiorno che «rappresenta il potenziale inespresso del nostro Paese» aveva dichiarato la sottosegretaria al Sud, Dalila Nesci che, dopo il nuovo emendamento che vincola i bandi del Pnrr a vincolare il 40% anche ai bandi, ha ribadito la necessità di «mettere gli enti locali nelle condizioni di operare. Poi, dovremo vigilare affinché i soldi siano spesi tutti e al meglio».

«Abbiamo risorse e opportunità – ha concluso – per superare, finalmente, il divario fra il Sud ed il resto del Paese. Il Sud ce la deve fare e ce la farà». (rp)

AVVISO AI MESTIERANTI DELLA POLITICA
OCCHIO AI PANDEMIALS, I NUOVI ELETTORI

di MAURO ALVISI – In Italia è nata una nuova “classe ultra economica” di nomadi intellettuali e creativi che crede e investe in una vita più libera e liberale. Dopo la reclusione coatta, frutto di una idea bolscevica, antieconomica e socialmente esplosiva della lotta al virus. Il Paese si sta riappropriando di una narrazione liberale, di una voglia di Nomadland da oscar elettorale. C’è voglia di on the road, di autostop del consenso, di salire a bordo di nuovi raggruppamenti. Soprattutto c’è voglia di partire con un partito che faccia ripartire.

Under 35 e over 55, Millenials in carriera e Boomers adultescenti, la minoranza e la maggioranza demografica italiana formano la nuova classe trasversale dei pandemials, i nuovi esploratori del consenso, futuri Indiana Jones delle urne. Altro che maggioranza silenziosa. Questa idea di voto liberale e liberante ha un potenziale devastante e non ancora intercettato. Sondaggi classici (come quelli condotti di recente da Antonio Noto) e monitoraggi scientifici del dialogo digitale (quelli che conduco da anni) arrivano alle stesse conclusioni. Fallite, con milioni di vittime, le narrazioni dell’idea fascista e comunista, è la nuova narrazione liberale a bussare prepotentemente alle urne. Una domanda politica non più latente che reclama una pronta offerta, distante dal giocare a fascisti e comunisti, coesa e chiara nei termini d’ingaggio. La pensa così un italiano su due. La voterebbe un italiano su tre. È un’Italia di nuovo alla “Viva l’Inghilterra” di Baglioni, non più figli dei fiori ma degli usciti fuori dal Covid19, che identifica stranamente la Perfida Albione come la più liberale delle nazioni, insieme ai Paesi Bassi e a quelli Scandinavi.

Questi tanti italiani ora si destano, come nell’inno di Mameli, vedono in Mario Draghi una forma tecnica efficace, quindi largamente incompiuta, dell’idea liberale. Donne e uomini europeisti (di recente lo sono diventati tutti) che non si sentono rappresentati dai vecchi schieramenti. Si collocano al centro con decisa inclinazione al centro destra, restando inclusivi anche di una minoranza liberale della sinistra, dove collocano Italia Viva e Calenda. Hanno di nuovo una visione neo rinascimentale e No Linkedin del loro Paese. Più cose sai più puoi fare, dare, vendere, comunicare e vivere. Despecializzati ma capaci di vera sintesi creativa, allenati dalla pandemia a riconoscere l’innata capacità adattiva italiana. Il mito della scalata sociale non li riguarda più. La pandemia li ha fortificati, nel loro stato di tardo adolescenza e di adultescenza, sono una fraternità di sconosciuti che fondano una sorta di nuovo nomadismo razionale del saper fare ed essere.

Plurilaureati o piccoli imprenditori, consulenti o barman, cuochi o scrittori, imprenditori o giornalisti, fotografi o insegnanti, commesse dei centri commerciali o grafici digitali e i tanti professionisti non riconosciuti. Gente che deposita i propri averi nel cloud e non in cassaforte, che quando si parla di politica cercano di nuovo la solidità di un partito. Sempre meno movimentisti e anti casta, con una paritetica distribuzione tra Nord, Centro e Sud del paese.

Figure politiche di alto rango come quella di Vincenzo Zoccano (già vice ministro a Famiglia e Disabilità nel governo Conte1), attivista da sempre per i diritti delle persone con disabilità e delle loro famiglie, il quale ha affermato:«Sull’importanza di rappresentare senso e consenso liberale di un universo di 7,5 milioni di persone con disabilità in Italia andrebbe riposta grande e maggiore attenzione. Una tematica trasversale, un indicatore di eccellenza civica e innovazione sociale, che tocca temi quali l’accessibilità ai servizi, al territorio e alle strutture, che assume un peso strategico in ambito turistico, economico e culturale, che traccia una linea di demarcazione tra Paesi avanzati e terzo mondo».

Occorre stanare allora questo nuovo nomadismo liberale, delineando l’identikit di molte potenziali personalità, nazionali e locali, capaci d’incarnarlo. Intanto sta per nascere una Fondazione che abbraccia Mediterraneo e Atlantico con un suo Centro Studi, attivo dal prossimo settembre, che lancerà in autunno un’Alta Scuola di Politica e Strategia di Governance del Territorio. Territorialità nel fare rete funzionale tra imprese e cittadini, comunicazione e informazione della rinnovata passione e strategia liberale sono i loro due pilastri. Rimettere le proposte e non le figure politiche al centro del vissuto democratico italiano, Euro Mediterraneo e Atlantico, con un programma articolato di riforme e un’agenda politica non a scadenza semestrale, a sostegno e sostenibilità di ogni emergenza ed eccellenza italiana Italia  da riposizionare come nuovo motore dell’Europa e nel mondo. Un impegno a tutto campo che non consegni l’idea liberale, cosi ambita e attesa, nelle mani di una tecnocrazia pseudo liberale, dove il voto non sia più l’ossessione quanto non lo sia mai più il suo continuo, quasi eterno rinvio. (ma)

[Mauro Alvisi è libero docente ed esperto di scenari socio-politici]

LE FRAGILI MOTIVAZIONI DEI NO-PONTE
TANTI PREGIUDIZI E SCARSA INFORMAZIONE

di ROBERTO DI MARIA – Capita spesso di leggere, nei giornali a diffusione nazionale, articoli contrari alla costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina. Opera, ricordiamolo ancora una volta, già appaltata ed inserita in un corridoio europeo TEN-T che, incredibilmente, nel 2013 è stata bloccata proprio dal governo italiano.

Tra le voci contrarie, ha trovato ospitalità sul quotidiano Domani del 12 luglio scorso Giorgio Meletti, che con il suo articolo (“La solita fiera di folli idee per spiegare la necessità del ponte sullo Stretto”) si è inserito a buon titolo tra le folte fila di esperti, o presunti tali, contrari all’opera.

Prendendo spunto dal voto della Camera dei Deputati che, a larghissima maggioranza, ha approvato una mozione finalizzata alla realizzazione dell’opera, Meletti non le ha mandate certo a dire. Prendendosela con tutti i parlamentari, fatta eccezione per Leu e per il Movimento 5 Stelle, (gli unici a votare contro), accusati di “propaganda”.

Nel merito, Meletti contesta la tesi, contenuta nella mozione, secondo cui le navi portacontainers provenienti dal Far East possano attraccare ad Augusta e qui trasferire sui treni il loro carico; tramite il Ponte sullo Stretto, questi convogli potrebbero raggiungere l’Europa continentale. Ciò eviterebbe alle navi una tortuosa rotta lunga tremila miglia per raggiungere Rotterdam, o un altro porto nordeuropeo, e trasferire lì i containers su ferro.

L’idea viene però definita sbrigativamente “stupida” da Meletti, perché “in un mercato libero nessuno lo farà mai”. Infatti, far viaggiare un container in treno costa molto più che in nave: “se non fosse così le merci arriverebbero in treno dalla Cina” afferma Meletti.

Peccato che le merci, in treno, dalla Cina arrivano, e già da parecchio tempo. Ma probabilmente Meletti ha seguito poco l’evoluzione dei flussi mercantili negli ultimi 10 anni. Si è iniziato a trasportare containers su ferro, dalla Cina verso l’Europa, nel 2011, anche se con soli 17 treni in un anno. Negli anni seguenti, però, il loro numero è salito esponenzialmente: si è arrivati a contare 379 treni nel solo mese di aprile del 2020!

Motivo? Il trasporto via terra risulta almeno due volte più veloce di quello via mare, anche se i costi sono, in effetti, superiori. D’altronde, a decidere il mezzo di trasporto non è soltanto il costo, ma anche il tempo, che ha anch’esso un valore; se il risparmio, in termini temporali, è consistente, il suo peso diventa determinante.

Tornando al trasferimento dei container dalle navi ai treni in Sicilia, occorre rammentare a Meletti qualche altro aspetto, che gli sarà sfuggito. Oltre al tempo risparmiato (da 5 a 6 giorni di navigazione in più, oltre all’attesa in rada che, per Rotterdam, può arrivare ad una settimana) bisognerebbe tenere conto anche di un altro fattore, a nostro avviso non secondario: le emissioni di CO2 , ossidi di azoto, particolato ed altri prodotti della combustione del “bunker” da trazione navale.

Che, per qualche migliaio di miglia in più non sono certo trascurabili, specie in un’epoca in cui lo sviluppo ecosostenibile viene posto alla base dei vari Piani di Ripresa post-Covid richiesti dalla UE ai paesi membri. Tuttavia, se lo hanno dimenticato gli ambientalisti italiani, unici in Europa a promuovere il trasporto marittimo anzichè quello su ferro (sullo Stretto, per opporsi al Ponte), possiamo forse rimproverare Meletti per questa svista?

Un’altra obiezione, contenuta nell’articolo di Meletti sul Domani, ha attirato l’attenzione di chi scrive: trasferire le merci su ferro ad Augusta e farle risalire la penisola fino a Milano, bloccherebbe l’intera rete Alta Velocità italiana. A conti fatti, Meletti arriva a stimare persino quanti treni compierebbero questo viaggio. Nel conto, il nostro giornalista considera anche i ”circa 70 giorni in cui il ponte sullo Stretto sarà chiuso a causa del vento” . Dato assolutamente destituito di fondamento, dal momento che il ponte è in grado di garantire il passaggio dei treni praticamente per 365 giorni l’anno, resistendo a venti che rarissimamente si manifestano nell’area.

Ma non è l’unico errore nella stima di Meletti. Il milione di containers considerato viene suddiviso in treni da 50 carri, uno per container. Ciò comporterebbe la necessità di instradare 20.000 treni l’anno, ovvero uno ogni 18 minuti “rendendo le linee ad alta velocità inutilizzabili dai treni passeggeri”.

Innanzitutto, rammentiamo a Meletti che essendo prescritta, lungo i corridoi TEN-T, la possibilità di realizzare treni fino a 750 metri, ed essendo la lunghezza di un container (1 TEU) pari a 7,5 metri, i treni conterebbero, ognuno, 100 containers anziché 50. Pertanto non sarebbero 20.000 l’anno, ma la metà. Il che produrebbe un “impatto” sulla rete AV, tanto cara a Meletti, di un treno ogni 36 minuti. Anche considerando l’inesistente chiusura del ponte ai treni per 70 giorni l’anno!

In realtà, le linee AV presentano una capacità di trasporto tale da sopportare persino il treno ogni 18 minuti indicato da Meletti, ma per tranquillizzarlo gli daremo un’altra informazione. Per collegare i porti del sud alla pianura padana non esiste solo la dorsale AV, ma anche quella adriatica.

La quale, già oggi, presenta le caratteristiche giuste (sagoma massima P/C80) per trasportare qualsiasi tipo di container. Non a caso, su questa linea si punta da almeno un decennio come corridoio merci in alternativa alla direttrice tirrenica. E persino il PNRR, tanto stitico per quanto riguarda le ferrovie meridionali, prevede il rafforzamento dei collegamenti diagonali tirreno-adriatico tra Paola e Sibari, al fine di avvicinare Gioia Tauro e la Sicilia al corridoio adriatico.

A proposito di Gioia Tauro, occorre ricordare a Meletti che il mercato del traffico merci via containers è talmente vasto, ancorchè in continua crescita, da non rischiare di tagliare fuori nessuno. Basti, in tal senso, un solo dato: Augusta avrebbe, nel momento di massima espansione, poco meno di 10 km di banchine. Se sommassimo ad essi i 4 di Gioia Tauro ed altrettanti di Taranto, arriveremmo appena a 18, a fronte dei 100 della sola Rotterdam. Ergo, la maggior parte del traffico container rimarrebbe appannaggio del nord Europa, anche se avessimo i 3 porti sopra citati riuniti in rete al massimo delle loro potenzialità.

Altro errore che abbiamo letto, a tal proposito, è quello che assegna alla portualità italiana soltanto la quota merci inerente il bel paese, pari ad un ventesimo di ciò che arriva nei porti nord europei. Un assurdo trasportistico, che dovrebbe invitare la Commissione Europea ed il Governo italiano a fermare, d’un colpo, tutte le opere previste nei sopra citati corridoi TEN-T, finalizzati proprio a collegare i porti italiani al centro dell’Europa. Non soltanto il Ponte (già fermato a suo tempo), ma anche il terzo valico di Genova ed il tunnel di base del Brennero. Che farsene, poi, della Verona-Trieste e della Torino-Lione AV/AC?

Tralasciamo altre affermazioni che si addentrano persino in valutazioni strutturali sulla capacità del Ponte di resistere a “tutto quel peso”, essendo certi che in 30 anni di studi e progetti fino al livello definitivo, qualcuno ci abbia già pensato; e con qualche titolo in più.

Consiglieremmo, tuttavia, a Meletti ed altri che soggetti che decidano di affrontare l’argomento “Ponte sullo Stretto” di approfondire un po’ di più il tema. Non deve essere facile, a giudicare dai 10 metri cubi di documentazione e studi contenuti nel progetto, anche relativi ai flussi di merci su scala internazionale.

Ma, se si vuole guardare con obiettività a domani (minuscolo e senza virgolette) quanto meno un’occhiata…  (rdm)

[Roberto Di Maria è un ingegnere dei trasporti]