Il disastro di Reggio nella gestione dei Pinqua: tra revoche e risorse irrimediabilmente perdute

di PINO FALDUTO – Il fallimento dei PINQuA a Reggio Calabria non è un episodio isolato né un incidente amministrativo: è la prova materiale di un impianto nazionale profondamente sbagliato, costruito dai Governi Conte II e Draghi che, invece di approvare una Legge Obiettivo capace di centralizzare la progettazione e l’esecuzione delle opere strategiche, hanno scelto di scaricare sui Comuni italiani miliardi di euro del Pnrr, sapendo perfettamente che molte amministrazioni – soprattutto nel Sud – non avevano personale, competenze, strumenti e stabilità per gestire un piano così complesso e così vincolato nei tempi.

Questa impostazione ha prodotto ciò che chiunque conosce la macchina pubblica poteva prevedere: fallimenti, ritardi, revoche, perdita di risorse, con un danno enorme per territori che avrebbero avuto più bisogno degli investimenti previsti.

Reggio Calabria è diventata il simbolo di questo disastro annunciato.

I decreti di revoca dei PINQuA sono chiarissimi: assenza di obbligazioni giuridicamente vincolanti, nessun avanzamento, ritardi ormai irreversibili.

E soprattutto dimostrano quali quartieri e quali cifre sono state realmente perse.

Il primo progetto revocato è la Proposta PINQuA ID 399, che riguardava interventi di rigenerazione nelle aree urbane degradate (in particolare Arghillà). Finanziamento totale: 14.998.599,50 €.

Revocati i Lotti A e C: 4.999.533,17 €. Restituzione anticipazioni: 1.499.859,95 €. Il secondo progetto revocato è la Proposta PINQuA ID 496, che interessava Modena – San Sperato – Ciccarello – Gebbione – Ravagnese.

Finanziamento totale 10.000.000 €. Revocati i Lotti A e C: 6.666.666,66 €. Restituzione anticipata: 3.000.000 €. In totale, tra i due decreti, Reggio Calabria perde 11.666.199,83 € di finanziamenti, 4.499.859,95 € da restituire subito, più gli interessi passivi previsti dalla normativa.

È una perdita certificata, pesantissima e senza precedenti. Ma la responsabilità non è solo dei Governi che hanno costruito un modello destinato a fallire: è anche – e soprattutto – di un’amministrazione comunale che non ha mai avuto il coraggio di dire la verità.

Invece di ammettere che non esistevano le condizioni minime per rispettare i tempi del Pnrr, si è preferito andare avanti con una narrazione autoreferenziale fatta di annunci, rendering, conferenze stampa e post celebrativi, mentre da Roma arrivavano le prime segnalazioni di criticità.

La verità è che gli uffici non avevano personale, non avevano competenze specialistiche, non avevano una struttura stabile, e non avevano alcuna possibilità di reggere il ritmo imposto dall’Unione Europea.

Eppure è stato fatto credere ai cittadini che “andava tutto bene”, che Reggio Calabria stava correndo insieme al resto d’Italia.

Non era così. Non lo è mai stato.

Nel frattempo, in città si assisteva a un teatrino imbarazzante: Vice Sindaci sostituiti più volte, Assessori che entravano e uscivano a cadenza regolare, Dirigenti ruotati senza continuità, come se una macchina amministrativa potesse funzionare senza stabilità.

Gli unici dirigenti che non cambiano mai sono quelli del Contenzioso.

Un Comune che cambia continuamente la sua catena di comando non può gestire neppure l’ordinario: figuriamoci il Pnrr.

Era matematico arrivare a questo punto.

E mentre si perdevano fondi, mentre i decreti di revoca diventavano pubblici, mentre il Ministero chiedeva indietro milioni, la città si ritrovava un albero di Natale da 18 metri acquistato per 180.000 euro, trasformato nell’ennesimo grande evento mediatico, accompagnato da dichiarazioni trionfali, spettacoli, neve artificiale, mascotte e musica.

Lo scorso anno, gli atti ufficiali parlano chiaro: il Comune ha speso oltre 700.000 euro per “Reggio Città Natale”.

E anche quest’anno, per il Natale 2025, l’Amministrazione ha già programmato una spesa certa di 550.000 euro tra luminarie, eventi nei quartieri, attività nel centro storico e accensione dell’albero.

Tutto questo mentre Reggio Calabria viene collocata all’ultimo posto in Italia per qualità della vita, e mentre la città perde fondi strutturali, è costretta a restituire milioni, paga interessi e fallisce i progetti strategici del Pnrr.

In più, il Comune sta utilizzando somme consistenti di fondi comunitari e nazionali per finanziare feste, festini, luminarie e animazioni natalizie, iniziative effimere che non producono alcun risultato duraturo di crescita economica e turistica, come certificato dalla collocazione di Reggio Calabria all’ultimo posto nelle graduatorie nazionali sulla qualità della vita.

È un paradosso intollerabile: perdiamo fondi strutturali, restituiamo milioni, paghiamo interessi,

falliamo progetti chiave, mentre si celebrano “successi” perché viene acceso un albero di Natale.

Ma la scena più grave deve ancora arrivare.

Mentre l’amministrazione procede con enorme lentezza nell’utilizzo dei fondi europei e del Pnrr, quando si tratta di richiedere pagamenti ai cittadini diventa improvvisamente rapidissima ed efficientissima.

La Tari, tra le più elevate d’Italia, continua a crescere senza alcun miglioramento del servizio, e qualsiasi contestazione del contribuente si inserisce in un meccanismo regolato da norme che – per come sono strutturate – finiscono per creare uno squilibrio evidente a favore dell’Ente, rendendo molto complesso per il cittadino far valere le proprie ragioni.

Il risultato è chiaro:

lentezza totale quando si tratta di realizzare opere pubbliche, massima tempestività quando si tratta di applicare tariffe, notificare atti o attivare procedure di recupero.

È una dinamica che pesa sulle famiglie e sulle imprese, aggiungendo difficoltà a una città già schiacciata da inefficienze e fallimenti amministrativi.

E come se non bastasse, il Sole24Ore ha collocato Reggio Calabria all’ultimo posto in Italia per qualità della vita, confermando ciò che i cittadini sperimentano ogni giorno: inefficienza, immobilismo, incapacità di gestire il presente e progettare il futuro.

Il Consiglio Comunale è rimasto in silenzio, incapace di un’assunzione di responsabilità collettiva,

e la Prefettura non ha ritenuto necessario intervenire, nonostante un disastro amministrativo certificato da atti formali del Ministero.

Nessuna indignazione. Nessuna reazione. Nessun sussulto istituzionale.

E il problema, purtroppo, è che questo è solo l’inizio.

Se non si cambia immediatamente rotta, tutti gli altri interventi del Pnrr – scuole, rigenerazione urbana, mobilità, impiantistica sportiva, digitalizzazione – sono destinati a seguire lo stesso identico percorso, perché presentano gli stessi sintomi: ritardi, fragilità procedurali, assenza di progettazioni esecutive, mancanza di personale, uffici allo stremo.

L’Europa non valuta i post su Facebook. L’Europa valuta le opere eseguite.

E qui, di opere eseguite, non c’è praticamente nulla.

Il fallimento dei PINQuA non è un episodio tecnico: è la fotografia crudele di un modello istituzionale sbagliato e di un’amministrazione comunale impreparata, inefficiente e incapace, da anni impegnata a negare la realtà anziché affrontarla.

Lo Stato ha sbagliato nel metodo. Il Comune ha fallito nell’attuazione. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: una città ferma, ultima in Italia, priva di investimenti, obbligata a restituire risorse e a pagare gli interessi degli errori altrui.

Una città che non pretende competenza, verità e responsabilità continuerà a essere trattata come se non le meritasse.

Ma una città che apre gli occhi e inizia a dire le cose come stanno può ancora tornare a costruire il proprio futuro, senza inseguire illusioni e senza nascondere i fallimenti dietro un albero di Natale o un post celebrativo. (pf)

(Imprenditore, exassessore della prima Giunta di Italo Falcomatà)

Illegalità ambientali: il triste record della Calabria

di ANTONIETTA MARIA STRATI – La Calabria rimane, purtroppo, al vertice delle classifiche dell’illegalità: in tre anni, dal 2022 al 2024, nella nostra regione i reati ambientali sono cresciuti del 45%. È quanto emerso nel Rapporto Ecomafia 2025 di Legambiente, nel corso dell’iniziativa svoltasi a Ricadi in cui è stato ricordato il capitano di Fregata, Natale De Grazia, di cui ricorre quest’anno il trentesimo anniversario della morte e alla cui memoria è dedicato il Rapporto dell’Associazione.

La regione resta stabile al quarto posto nella classifica complessiva dei reati ambientali (7,9% del totale nazionale), dopo Campania, Puglia e Sicilia, con 3. 215, reati, cresciuti in tre anni, dal 2022 al 2024 di circa il 45%. Particolarmente preoccupante, tra le filiere illegali è il ciclo illegale dei rifiuti, nella cui classifica la Calabria sale dal terzo al secondo posto, con ben 1. 137 reati, segnando un incremento record sempre nel triennio 2022-2023-2024 del 230%.

L’incontro, moderato da Enrico Fontana, responsabile dell’Osservatorio nazionale Ambiente e Legalità di Legambiente ed introdotto da Anna Parretta, presidente Legambiente Calabria, si è svolto con gli appassionati interventi di Franco Saragò, presidente del circolo Legambiente Ricadi; Antonino Morabito, dell’Ufficio Nazionale Ambiente e Legalità di Legambiente; Andrea Carnì, dell’Università degli Studi di Milano, il colonnello Giovanni Misceo, Comandante del Comando regionale Carabinieri Forestale Calabria e Sicilia, Sebastiano Venneri, Responsabile Territorio di Legambiente Nazionale; Silvio Greco, biologo marino, ex Assessore all’Ambiente della Regione Calabria  e Camillo Falvo, Procuratore Capo della Repubblica di Vibo Valentia. Presenti in sala numerosi rappresentanti delle forze dell’Ordine e delle istituzioni e una numerosa cittadinanza.

Hanno portato il loro saluto, il comandante della Capitaneria di porto-Guardia costiera di Vibo Valentia, Guido Avallone, il maggiore Matteo Raggio, della Stazione navale della Guardia di Finanza di Vibo Valentia e Nicola Coturi, dirigente scolastico dell’Istituto superiore di Tropea. Ricadi ha costituito la prima tappa della carovana della giustizia e della memoria, in omaggio al Capitano Natale De Grazia, morto tra il 12 e il 13 dicembre del 1995 mentre indagava sugli affondamenti sospetti nel Mediterraneo di navi con il loro carico di rifiuti, che proseguirà nelle tappe di Massa Carrara, Policoro e La Spezia per poi concludersi il 12 e 13 dicembre a Reggio Calabria. Un’iniziativa che ha avuto l’obiettivo di ricordare, ma anche di gettare luce, attraverso la voce di alcuni dei protagonisti, su un periodo buio della storia italiana nel quale cominciavano i traffici di rifiuti anche tossici tra Nord e Sud e, in Calabria la ‘‘ndrangheta iniziava ad accumulare immense fortune inquinando i nostri territori anche grazie all’impunità assicurata dall’assenza di adeguate sanzioni. Soltanto con l’approvazione della legge n. 68 del 19 maggio 2015 sono stati inseriti nel Codice penale i delitti contro l’ambiente. 

Anche grazie a questa riforma di civiltà, l’attività di contrasto è cresciuta, come dimostrano i dati del Rapporto Ecomafia 2025, superando a livello nazionale il muro dei 40mila illeciti penali.

Ai fenomeni criminali nella gestione dei rifiuti è stata dedicata l’ampia riflessione che ha accompagnato il ricordo delle inchieste costate la vita al Capitano De Grazia, avviate dalla Procura presso la Pretura di Reggio Calabria dopo la denuncia presentata nel 1994 da Enrico Fontana e Nuccio Barillà, all’epoca referente regionale di Legambiente, sull’incrocio di traffici illeciti di rifiuti radioattivi via terra e via mare verso zone non controllate in Calabria. Si sviluppò allora un’inchiesta sul traffico di rifiuti tossici e radioattivi e sulle navi affondate nel Mar Mediterraneo, anche al largo delle coste calabresi. Un fenomeno purtroppo diffuso: in un documento del 2001, della Direzione investigativa antimafia, si parla della scomparsa tra il 1995 al 2000 nei mari del mondo di ben 637 navi, di cui 52 nel Mediterraneo. Legambiente, comparando varie fonti, ha contato dal 1979 al 2001 almeno 88 navi che giacciono nei fondali del Mare Nostrum. L’inchiesta aveva nel Capitano di fregata Natale De Grazia un punto di riferimento essenziale. La sua morte, avvenuta mentre era in missione di lavoro verso La Spezia, è stata attribuita nel 2013 a unaprobabile “causa tossica”, come ha accertato una perizia disposta dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’illegalità nel ciclo dei rifiuti e rimane ancora oggi avvolta nel mistero, insieme ai tanti interrogativi senza risposta sull’oggetto delle sue indagini.

«Con la carovana per la verità e la giustizia partita da Ricadi –ha dichiarato Enrico Fontana, responsabile dell’Osservatorio nazionale Ambiente e Legalità – avanziamo come Legambiente tre proposte precise: la ricostruzione e l’analisi dell’ampia documentazione esistente sulle navi affondate nel Mediterraneo e sulle connessioni con i traffici illegali di rifiuti pericolosi e radioattivi, desecretando ciò che non è realmente funzionale alla sicurezza dello Stato, da parte dell’attuale Commissione d’inchiesta sull’illegalità nel ciclo dei rifiuti e gli altri illeciti ambientali e agroalimentari; la definizione di un programma di ricerca sui relitti affondati al largo delle coste del nostro Paese dal parte del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, in collaborazione con l’Ispra, utilizzando le migliori tecnologie oggi disponibili; l’impegno della Commissione europea, in collaborazione con l’Unep, per estendere la ricerca a tutto il bacino del Mediterraneo».

«Alla figura importantissima di Natale De Grazia, Legambiente è legata con tutta la forza dei propri valori associativi di tutela dell’ambiente, della salute, degli ecosistemi marini e di difesa della legalità – ha detto Anna Parretta, presidente di Legambiente Calabria –. Al Capitano Natale De Grazia, al suo voler aggiustare le cose storte, quelle insopportabili, che non piacciono a nessuno di noi, la Calabria deve moltissimo».

«Dalla storia e dalla memoria – ha proseguito la presidente Parretta – dobbiamo trarre preziosi insegnamenti: serve un cambiamento che coinvolge tutti, per realizzare un’economia sana e circolare, avere una regione libera dai rifiuti e liberarci dalle illegalità e dalle logiche criminali». 

«Chiediamo alla Regione Calabria ed al presidente Roberto Occhiuto di agire con determinazione effettuando, oltre alla mappatura delle discariche abusive, anche l’imprescindibile passaggio di procedere alla caratterizzazione delle centinaia di discariche comunali esistenti in Calabria, ai fini della bonifica, proseguendo il percorso avviato nel 2009, interrotto e mai inesplicabilmente ripreso», questo l’appello della presidente di Legambiente Calabria.

Soddisfazione per l’esito dell’incontro, che dà il via ad una serie di altri appuntamenti in memoria di Natale De Grazia, è stata espressa da Franco Saragò, presidente del Circolo Legambiente Ricadi: «abbiamo voluto riaccendere i riflettori, senza fare allarmismi, sia sulla ricerca di verità per le navi dei veleni sia sulle tante discariche comunali mai bonificate».

«Vi è la necessità – ha evidenziato – di comprendere, in modo inequivocabile, se le tante navi, di cui si è molto parlato nel recente passato, siano indenni o meno da fenomeni di malaffare o siano pericolosi fonti di inquinamento».

«Al contempo – ha concluso Saragò – è necessario procedere con la messa in sicurezza e bonifica delle oltre 400 discariche comunali, in molti casi non custodite e accessibili a tutti. In ultimo chiediamo l’aggiornamento delle mappe catastali demaniali, con riferimento alle aree marine, oggetto di rapida e continua trasformazione a causa dell’erosione costiera, per limitare il fenomeno del cosiddetto abuso edilizio “legalizzato”». (ams)

Autonomie e pre-intese allargano il divario Nord-Sud

di ERNESTO MANCINI  – Il 18 e 19 novembre scorsi il Ministro Roberto Calderoli, regista dell’intero dossier sull’autonomia regionale differenziata, si è recato nei capoluoghi delle regioni Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, per sottoscrivere, coi rispettivi Governatori, le cosiddette “preintese” su tale autonomia. A ciò è stato ufficialmente delegato dalla Presidente del Consiglio Meloni.

Si tratta di accordi che proseguono formalmente il percorso Governo/Regioni verso l’autonomia differenziata nonostante la sentenza della Corte Costituzionale n. 192/24 che ne aveva demolito la legge asseritamente regolatrice (legge n 86/2024).

La stampa e gli altri media hanno dato ampio risalto alle firme e agli incontri istituzionali senza tuttavia spiegare granché nel merito di questi accordi.

Le preintese sottoscritte, peraltro identiche nel contenuto per le quattro regioni, coinvolgono gran parte del Nord Italia, con l’eccezione del Friuli-Venezia Giulia e della Valle d’Aosta, estranee a questa procedura di autonomia differenziata perché in regime di autonomia speciale.

La Regione Emilia-Romagna, anche a seguito di pressione dei Comitati contro ogni autonomia differenziata, ha assunto, con la nuova amministrazione De Pascale, una posizione politica fortemente contraria al progetto governativo di Calderoli, revocando le pre-intese firmate durante l’amministrazione Bonaccini.

Dalle preintese ora sottoscritte risulta che il Governo e le regioni del nord mirano ad ampliare l’autonomia regionale rispetto allo Stato centrale in materia di protezione civile, ordinamento delle professioni, previdenza complementare e integrativa, nonché sanità.  Per le funzioni degli altri 12 settori, possibile oggetto di autonomia differenziata, si dovrà attendere la definizione dei L.e.p (livelli essenziali delle prestazioni).

Il caso della sanità regionale differenziata

Per quanto riguarda il settore sanitario, le preintese stabiliscono testualmente quanto segue: a) autonomia differenziata nella “gestione del sistema tariffario di rimborso, remunerazione e compartecipazione degli assistiti” (art. 3 allegato 2 lettera “a”).

Al riguardo gli accordi prevedono che le Regioni con autonomia differenziata possano gestire in modo indipendente il sistema tariffario di rimborso, remunerazione e compartecipazione degli assistiti. Ciò significa che tali Regioni potranno fissare autonomamente i corrispettivi per tutte le prestazioni sanitarie, pubbliche e private accreditate, svincolandosi dalle indicazioni statali che oggi garantiscono uniformità e congruità dei tariffari sul territorio nazionale.

Questa pretesa autonomia, incidendo direttamente sui valori economici delle prestazioni – fondamentali per i bilanci regionali e – delle aziende sanitarie – può generare un vantaggio significativo per le Regioni dotate di maggiori poteri e risorse, a scapito di quelle che restano vincolate ai parametri nazionali.

D’altra parte, la leva tariffaria può diventare uno strumento competitivo per attrarre operatori e investimenti sanitari, con il rischio di accentuare le disuguaglianze territoriali e compromettendo ulteriormente l’uniformità dei livelli essenziali di assistenza e perciò, in definitiva, del Servizio Sanitario Nazionale.

Ovviamente non va negata la capacità di maggiore attrazione che una Regione riesce ad ottenere rispetto ad altre ma ciò va fatto in condizioni di parità di poteri e non certo di differenziazione e privilegio.

b) Autonomia differenziata nella “programmazione degli interventi sul patrimonio edilizio e tecnologico delle aziende del sistema sanitario regionale” (art. 3 allegato 2 lettera “b”).

La disposizione attribuisce alle Regioni del Nord una piena autonomia nella pianificazione delle strutture sanitarie consentendo di operare in deroga agli standard nazionali che continuerebbero invece a vincolare le Regioni del Centro-Sud.

In pratica, le Regioni differenziate possono superare i parametri nazionali relativi a rapporto posti letto/abitanti, classificazione degli ospedali, dotazione tecnologica, indici di congruità ed ogni altro parametro.

Ciò conferirebbe a queste Regioni una libertà quasi totale nella configurazione della rete ospedaliera regionale, con conseguenze negative sulla uniformità dei livelli essenziali di assistenza (Lea), sull’equità nell’accesso ai servizi e sulla coerenza complessiva della programmazione sanitaria nazionale che, a questo punto, rischierebbe di perdere ogni reale carattere “nazionale”.

c) Autonomia differenziata nella “individuazione di sistemi di governance delle aziende sanitarie e degli enti del servizio sanitario regionale” (art. 3 allegato 2 lettera “c”).

La completa autonomia sui sistemi di governance consentirebbe alle Regioni del Nord di definire regole proprie e differenziate rispetto alle altre Regioni per l’organizzazione dei vertici direzionali aziendali, delle strutture interne (dipartimenti, strutture ospedaliere, distretti, presìdi), nonché per la pianificazione, programmazione, definizione di obiettivi strategici e piani annuali o pluriennali.

In pratica, questa autonomia creerebbe una diversificazione profonda tra Nord e Centro-Sud nell’insieme di regole, strutture, processi e strumenti con cui le aziende sanitarie (ASL, ASST, AO, IRCCS, ecc.) vengono dirette, controllate e rese responsabili del loro operato. Il risultato sarebbe un sistema frammentato, dove la gestione e la responsabilità delle aziende sanitarie non sarebbero più uniformi a livello nazionale né tra di loro confrontabili, mettendo a rischio la coerenza complessiva del Servizio sanitario e l’equità nell’accesso ai servizi su tutto il territorio.

c1) Autonomia differenziata nella “istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi” (art. 3 allegato 2 lettera “c” seconda parte).

I fondi sanitari integrativi sono strumenti che si affiancano alle prestazioni garantite dal Servizio Sanitario Nazionale. Si tratta, in sostanza, di forme di assistenza sanitaria privata di tipo assicurativo, che copre prestazioni non erogate dal SSN ovvero erogate con tempi lunghi ed inaccettabili (visite specialistiche, diagnostica, odontoiatria, ricoveri, interventi chirurgici, ecc.). Ne beneficiano principalmente i cittadini che possono permettersi di sostenere i costi di adesione ed i premi assicurativi.

È vero che i fondi integrativi sono previsti dalla normativa nazionale (art. 9 del d.lgs. 502/1992), ma non certo per le Regioni. La legge infatti stabilisce che i fondi possono essere istituiti da enti, associazioni, società di mutuo soccorso, casse professionali o organismi di origine contrattuale o aziendale. L’istituzione diretta di tali fondi non rientra invece tra i compiti delle Regioni cui spetta garantire un servizio sanitario universale e pubblico, non certo un opposto sistema mutualistico-assicurativo.

d) Autonomia differenziata nella “allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e finalità della spesa sanitaria, in deroga ai vincoli di spesa specifici per le politiche di gestione della spesa sanitaria”

art. 3 allegato 2 lettera “d”).

Le preintese attribuiscono alle Regioni con autonomia differenziata la possibilità di allocare liberamente le risorse sanitarie, derogando ai vincoli di spesa fissati dallo Stato.

Ciò aumenterebbe le disparità territoriali: le Regioni più ricche potrebbero investire in ospedali e tecnologie di eccellenza, mentre quelle più povere faticherebbero a garantire perfino i servizi essenziali.

Inoltre, la libertà di spesa potrebbe spingere alcune Regioni a privilegiare settori più redditizi, trascurando servizi fondamentali come prevenzione, assistenza territoriale e consultori.

Ne deriverebbe un rischio concreto di perdita dell’uniformità dei livelli essenziali di assistenza, con conseguente violazione del principio di uguaglianza garantito dalla Costituzione.

I profili di illegittimità

Tutte le funzioni sopra elencate sono particolarmente strategiche per la materia di rilievo costituzionale “sanità – tutela della salute ex art. 32 Cost.”.  Per le scelte di autonomia differenziata ad esse relative entrano in gioco i seguenti profili di illegittimità delle preintese sottoscritte.

2.1 Violazione dei princìpi cardine della Riforma Sanitaria sui rapporti Stato/Regioni

Le intese presuppongono che lo Stato possa perdere, per ciascuna delle funzioni indicate, le proprie prerogative di coordinamento e di garanzia dell’uniformità del Servizio sanitario nazionale. Ciò contraddice l’impianto complessivo della legge di riforma sanitaria istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (legge 833/78 e successivo riordino ex D.lgs. 502/92) che di nazionale non avrebbe più nulla.  Il sistema risulterebbe infatti frammentato tra le Regioni del Nord e quelle del Centro-Sud, con una sostanziale estromissione dello Stato da ogni competenza relativa all’organizzazione sanitaria nel Nord.

Alla consueta obiezione secondo cui la sanità sarebbe già differenziata tra Nord e Sud, si può agevolmente rispondere che il modello proposto, lungi dal colmare tale divario, rischia di amplificarlo ulteriormente. Invece di promuovere politiche volte ad avvicinare le condizioni delle diverse aree del Paese, si adotta una logica che, di fatto, esaspera le disparità esistenti andando esattamente nella direzione opposta rispetto a quella che sarebbe dovuta.

Non va dimenticato, inoltre, che l’attuale maggiore efficienza complessiva delle regioni del nord-Italia rispetto alle altre è dovuta a maggiore capacità organizzative e di innovazione pur in un quadro di parità e non di disparità dei poteri con le regioni meno efficienti. Non è perciò con l’autonomia differenziata che si risolvono i problemi di diversa efficienza, che anzi li si aggrava.

2.2 Violazione dell’art.  32 Costituzione sui compiti della Repubblica per la tutela del diritto alla salute.

Ancora più grave è la contraddizione con l’art. 32 della Costituzione, che attribuisce alla Repubblica – e dunque a Stato, Regioni, Enti locali – oggi Asl del territorio locale) – la tutela del diritto fondamentale alla salute. Questo equilibrio istituzionale verrebbe seriamente compromesso se uno dei soggetti costituzionalmente titolari della materia, lo Stato, fosse escluso dall’esercizio del ruolo di sovraordinazione funzionale per una parte rilevante del Paese.

In altri termini, pur essendo contitolare insieme alle Regioni della materia “tutela della salute” ai sensi del nuovo Titolo V, lo Stato si troverebbe nell’impossibilità di esercitare poteri di indirizzo, coordinamento o pianificazione generale su una parte significativa del territorio nazionale. La sua contitolarità sarebbe solo formale, priva dei poteri necessari a garantire un indirizzo unitario sulle funzioni più rilevanti.

2.3 Violazione dell’art. 97 Costituzione sul buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Il sistema differenziato nelle funzioni strategiche in sanità produce un’asimmetria istituzionale molto grave perché si avrebbe frammentazione normativa, caos amministrativo, ostacoli all’attività di cittadini, imprese e associazioni che si troverebbero diversi poteri sulla medesima funzione a seconda dei territori di riferimento.

Una simile disomogeneità contrasta con l’art. 97 Cost., che impone alla Pubblica Amministrazione di operare assicurando “buon andamento” mentre le soluzioni ora prospettate creano una situazione esattamente opposta di disordine e frammentazione.

2.4 Violazione del principio di unità ed indivisibilità della Repubblica, del regionalismo cooperativo e solidale a favore del regionalismo competitivo ed egoistico.

Le fratture sopra descritte causate dell’autonomia differenziata non verrebbero meno se anche fossero concesse a tutte le altre regioni del centro-sud i medesimi poteri ora riconosciuti alle regioni del nord; se, in altri termini, ci fosse un autonomismo spinto ma tuttavia paritario per ciascuna regione rispetto alle altre.

In primo luogo, infatti verrebbe comunque annullata la funzione statale di indirizzo, coordinamento e sovraordinazione (funzionale) rispetto al sistema sanitario complessivo. In secondo luogo, le regioni sarebbero l’una contro l’altra armata come piccole repubblichette del tutto svincolate da un sistema nazionale unico caratterizzato da cooperazione e solidarietà come vuole la Costituzione in ogni passo delle sue norme. Anche chi, come il sottoscritto, è per un’autonomia regionale ampia  non può che contrastare qualsiasi autonomismo che pur non differenziato eliminerebbe comunque la funzione statale di indirizzo e coordinamento ai fini dell’uniformità, quanto meno tendenziale, del sistema.

2.5 Violazione del principio di non frammentarietà

Nella nota sentenza n.192/24 la Corte Costituzionale ha avuto modo di riaffermare il c.d. “principio di non frammentarietà” , secondo cui “quando la funzione attiene agli interessi dell’intera comunità nazionale, la sua cura non può essere frammentata territorialmente senza compromettere la stessa esistenza di tale comunità, o comunque l’efficienza della funzione” (Sentenza Corte Costituzionale 192/24 in più passaggi ed in particolare al punto 4.2.1.).

Ciò significa che la funzione di sovraordinazione, coordinamento ed indirizzo dello Stato nella sanità, come del resto in ogni altra materia di pubblica amministrazione, non può valere per una parte del Paese (regioni del centro-sud) e non per un’altra (regioni del nord). Una simile concezione crea inefficienza e, come si diceva, disordine e caos.

Conclusioni

L’analisi critica fin qui condotta si è concentrata esclusivamente sull’autonomia regionale differenziata in ambito sanitario, evidenziando, pur in maniera sintetica e tutt’altro che esaustiva, gli effetti fortemente negativi che tale impostazione produrrebbe in questo specifico settore. Tuttavia, occorre considerare che il progetto Calderoli/regioni del Nord investe ben altri 12 settori di primaria rilevanza costituzionale – tra cui, ad esempio, istruzione, ambiente, trasporti ed infrastrutture, – il che amplificherebbe a dismisura le ripercussioni negative, rischiando di compromettere in modo irreversibile l’unità e l’indivisibilità della Repubblica e dunque l’esistenza della stessa.

Di conseguenza, appaiono fondate le preoccupazioni di chi da tempo denuncia il carattere profondamente eversivo di tale progetto che va pertanto contrastato con fermezza e con tutti gli strumenti a disposizione. Oltre che eversivo il sistema Calderoli è stato giustamente definito nel dibattito di questi anni “predatorio”, “secessionista”, “incostituzionale nell’anima”.

Non si tratta di esagerazioni retoriche; queste valutazioni corrispondono pienamente alla realtà dei fatti.

Stante lo spazio editoriale limitato ho potuto trattare, peraltro in sintesi e solo parzialmente, le preintese in materia sanitaria escludendo perciò ogni analisi critica sulle altre funzioni oggetto dei recenti accordi (protezione civile, professioni, previdenza complementare integrativa). Lo farò in altro momento avvertendo fin da ora che anche nelle altre funzioni le criticità sono altrettanto gravi e non meno dannose di quelle qui esposte per la sanità.

Partire, restare, tornare: il futuro della Calabria dipende dalle scelte che fanno i suoi giovani

di ORLANDINO GRECO – La Calabria è una terra che, più di altre, restituisce la complessità dell’Italia di oggi: una regione che certamente perde popolazione, ma non nei numeri amplificati che qualcuno vorrebbe far circolare per convenienza o interesse.

È vero: molti giovani calabresi scelgono di partire verso altri territori. Eppure, la Calabria continua a esprimere un elettorato vivo, numeroso e molto più determinante di quanto spesso si voglia far credere.

Quando si parla di partecipazione elettorale, infatti, si dimentica un dato cruciale: quasi un calabrese su cinque vive all’estero. Su una popolazione di circa 1.800.000 abitanti, gli iscritti all’AIRE sono quasi 394.000, pari al 21–22%. Una delle percentuali più alte d’Italia. Questo non significa che il voto calabrese “svanisca”: semplicemente si sposta, prosegue altrove il proprio cammino.

La diaspora calabrese si inserisce in un fenomeno nazionale più ampio, ben fotografato dalla Fondazione Migrantes: oggi oltre 6,4 milioni di italiani vivono nel mondo. I protagonisti di questa mobilità sono in prevalenza giovani — il 37% degli espatriati ha tra i 25 e i 34 anni – ma anche donne (circa il 46%) e persone di età diverse. E non si tratta solo di emigrazione internazionale: dal 2014 al 2024 oltre un milione di italiani si sono spostati dal Sud al Centro-Nord, alla ricerca di occasioni di lavoro, studio e stabilità.

A questi numeri si aggiunge una platea ancora più ampia di meridionali – stagionali, precari, lavoratori a tempo – che vivono lontano dalla Calabria senza cambiare residenza, perché il legame con la propria terra resta forte. È un elettorato “invisibile”, difficile da stimare ma reale, che continua a partecipare, a modo suo, alla vita civile e politica della regione.

Questa realtà si intreccia con la grande questione demografica. La Calabria non è la regione italiana che emigra di più: nelle classifiche complessive si colloca attorno al sesto-settimo posto. E se guardiamo all’emigrazione verso l’estero, dopo la Sicilia, le regioni che registrano il maggior numero di partenze sono Lombardia e Veneto: territori economicamente forti ma che oggi vedono una crescente mobilità verso altri Paesi, alla ricerca di realizzazione professionale. Il saldo demografico nazionale è negativo da anni e la fascia più colpita rimane quella giovanile.

I dati nazionali lo confermano: quasi metà dei nuovi iscritti all’Aire ha tra i 18 e i 34 anni; un altro 30% si colloca fra i 35 e i 49. I giovani e i giovani-adulti sono la spina dorsale della nuova diaspora italiana.

Eppure, sul fronte della natalità, la Calabria mostra un quadro meno drammatico rispetto ad alcune regioni del Centro-Nord che, negli ultimi anni, hanno registrato crolli molto più severi. Il problema esiste – riguarda tutto il Paese – ma in Calabria il calo è meno brusco, segno che un certo equilibrio resiste, nonostante le difficoltà.

Come ha ricordato il Presidente Sergio Mattarella, la natalità è «un tema vitale per il futuro del Paese». Non riguarda solo le cifre: riguarda la speranza, la progettualità, la fiducia collettiva. Papa Francesco lo ha detto con una frase che vale più di mille grafici: “La generazione dei figli è l’indicatore principale della speranza di un popolo”.

L’Italia ha oggi bisogno di un impegno comune: politiche familiari più solide, servizi accessibili, sostegni concreti che rendano possibile ciò che non può essere scaricato solo sulle famiglie. Avere figli non può essere una sfida individuale, ma una responsabilità condivisa.

Ed è proprio qui che la Calabria può ritrovare una nuova direzione. La situazione è seria, nessuno lo nega, ma i numeri mostrano chiaramente che il declino riguarda gran parte del Paese e che una certa narrazione, spesso interessata, tende a descrivere la Calabria come un caso disperato – quando invece non lo è affatto.

Si pensi a certe affermazioni superficiali o strumentali di alcuni esponenti politici, pronti a definire la Calabria “la peggiore d’Italia”. La realtà è ben diversa: la Calabria non vota meno, non parte più degli altri, e anzi possiede una delle più ampie comunità di cittadini votanti residenti all’estero.

E chi parte, chi torna, chi resta, continua a scrivere ogni giorno il destino di una regione che – nonostante tutto – ha ancora molto da dare.

(Consigliere regionale)

Giustizia minorile: torni la cultura della rieducazione dei giovani detenuti

di MICHELE CONIA – Torni la cultura educativa è l’appello – che sottoscrivo continuamente – lanciato da Antigone Defence Children International Italia e Libera”, sottoscritto da decine di associazioni e personalità,  auspicando che sia rivisto l’approccio punitivo della giustizia minorile e siano promossi maggiori  percorsi educativi e riabilitativi. Ho firmato anche la petizione “Inumane e degradanti” lanciata da Antigone e rivolta a Governo e Parlamento per denunciare le condizioni di sovraffollamento e altre situazioni di fragilità nelle carceri italiane. Coerentemente con i principi e le norme della “Convenzione Onu sui diritti dell›Infanzia e dell›adolescenza” e le “Linee guida del Consiglio d›Europa per una giustizia a misura di minorenne”, mi unisco all’appello dell’abolizione del Decreto Caivano e alle altre richieste: dall’assunzione di educatori, mediatori culturali e assistenti sociali, alla  formazione adeguata della polizia penitenziaria basata sui principi e le norme relative ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; dalla chiusura immediata della sezione IPM (istituti Penitenziari per Minorenni) nel carcere per adulti di Bologna alla costituzione di sezioni a custodia attenuata, come previsto dal D. Lgs. n. 121/2018 fino al monitoraggio della salute psico fisica e all’adeguata presa in carico per garantire sempre il superiore interesse delle persone minorenni.

L›approccio punitivo  a cui si fa sempre più ricorso è sbagliato in generale, ma lo è ancora di più quando parliamo di minori detenuti: serve, invece, più scuola, più lavoro, più supporto. Il Decreto Caivano (D.L. 123/2023)  approvato nel settembre 2023 ha trasformato la giustizia minorile in senso repressivo, si fa sempre più ricorso alla custodia cautelare, ha ridotto le misure alternative e i numeri parlano chiaro. Incrociando i dati di un recente report dei Radicali e di Nessuno Tocchi Caino si apprende che 9 IPM (Istituti Penali per Minorenni) su 17 sono in sovraffollamento, circa l’80% dei giovani è in custodia cautelare, quindi in attesa di giudizio, e la maggior parte dei reati contestati riguarda furti e rapine, non delitti gravi contro la persona; sono spesso trasferiti più volte, da un istituto all’altro, interrompendo relazioni educative e percorsi di formazione.

I numeri sono eloquenti  e inducono ad una riflessione: con l’introduzione del decreto Caivano si è passati da 392 ragazzi reclusi nell’ottobre 2022 a 586 nel giugno 2025, una cifra simile non si raggiungeva da oltre dieci anni; nel mese di gennaio 2024 i giovani detenuti in misura cautelare erano 340 contro i 243 dell’anno precedente. Ma, oltre all’aumento delle pene e la possibilità di disporre la custodia cautelare, in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti, secondo le nuove disposizioni, i direttori degli IPM possono ora decidere di trasferirli nelle carceri per la popolazione adulta, con conseguenze significative sulla recidività in un contesto molto più grande  e duro, che è quello del circuito detentivo per adulti. Questa disposizione, sempre esistita, aveva prima bisogno di diversi passaggi per venire realizzata. Infatti, il sistema della giustizia minorile, prevedeva che chi avesse commesso un reato da minorenne, potesse rimanere in un carcere minorile fino ai 25 anni di età.

Da giurista riconosco che la giustizia penale minorile italiana costituisce da 35 anni un modello virtuoso per l’intera Europa  e per questo ritengo sia dirimente rimettere al centro il bene supremo dei ragazzi e delle ragazze che commettono un reato in una fase così cruciale del proprio percorso di crescita.  L’analisi del contesto sociale ci pone di fronte a nuove sfide, emergenze come il disagio giovanile, l’aumento delle fragilità psicologiche, l’isolamento sociale, la povertà educativa e i fenomeni legati alla devianza minorile  richiedono un impegno ancora più strutturato, attento e tempestivo. Le disuguaglianze economiche, educative e sociali fotografate dal report “Senza filtri” della  XVI edizione dell’Atlante dell’Infanzia, che si fanno più pesanti in questa fase cruciale della crescita, rischiando di compromettere il loro futuro, ci inducono ad un’attenta riflessione e in prima persona, anche  come amministratore, avverto la necessità di  colmare questi divari e garantire a tutte le adolescenti e a tutti gli adolescenti l’opportunità di studiare, fare sport, frequentare luoghi di svago e di cultura. Contro la povertà educativa, l’isolamento e forme di marginalità sociale, per abbattere la dispersione occorrono ascolto, tutela e promozione dei diritti dei più piccoli e dei più giovani nelle nostre comunità. I giovani  e le giovani non sono solo il nostro futuro ma soprattutto  il nostro presente. Alla volontà punitiva invito a  rispondere  con il fondamentale principio dell’interesse superiore del fanciullo, fatto proprio dall’art. 3 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989 e quindi con una giustizia che crede nei ragazzi e nelle ragazze, nelle loro possibilità, nel loro futuro. Loro non sono quello che hanno commesso. (mc)

(Avvocato, sindaco di Cinquefrondi (RC) e consigliere metropolitano della città metropolitana di Reggio Calabria, delegato ai Beni Confiscati, Periferie, Politiche giovanili e Immigrazione e Politiche di pace)

Permane il caso Nord-Sud. È l’in-cultura all’italiana

di ENZO SIVIERO – Il tema del rapporto Nord Sud non riguarda la sola Italia. Si tratta di un atteggiamento culturale (o meglio in-culturale…) che attraversa le genti e i luoghi perdendosi nella notte dei tempi.

Ma il “caso Italia” merita una particolare attenzione, sia per l’avvenuta globalizzazione sia per il fiume di denaro che l’Europa ha stanziato per il nostro Paese, proprio a partire dalle acclarate diseguaglianze che ci connotano. Tanto palesi da orientare l’Europa come ben noto, a riservare una quota del 40% proprio al Sud. Ormai manca poco alla conclusione dei lavori, ma molto resta ancora da fare. Si sa che in Italia tutto è difficile e farraginoso con ostacoli latenti gestiti dai No a prescindere… tanto che ci si aspetta uno slittamento con ulteriori rimodulazioni. E perché non pensare in grande? In fondo, l’ingegneria visionaria ha fatto la storia dell’umanità! E, negli ultimi anni, in tutto il mondo si è visto un vistoso incremento di realizzazioni infrastrutturali, quali mai si sarebbero potute immaginare solo pochi decenni fa. E l’Italia? Molto è stato fatto e molto è in itinere, o comunque già programmato, soprattutto al Sud, ancor oggi bisognoso di investimenti volti al decollo futuro.

Con questa premessa si intende fare chiarezza sui diversi punti di vista tra Nord e Sud, con un occhio non miope verso, o meglio oltre, il Mediterraneo. Se è vero come nessuno può negare che l’Italia è il molo naturale verso il Mediterraneo, ad una visione strategica che interessa già l’oggi (e siamo già notevolmente in ritardo) ma soprattutto le prossime generazioni, non può negarsi che sia l’Africa il vero futuro dell’Europa! Ed è ovvio che, da questo come da molti altri punti di vista, in questa prospettiva geopolitica è l’Italia a giocare il ruolo principale, utilizzando quel “ponte liquido” che è il Mediterraneo, come è stato nel passato più o meno recente e com’è oggi ancor più pregnante, visto anche il raddoppio del Canale di Suez. Non a caso Turchia (e lo stesso Egitto…) unitamente a Russia e Cina stanno pressoché spadroneggiando nel Mare (non più) Nostrum approfittando di un’Europa intrinsecamente debole, incapace di una politica unitaria visti gli interessi contrastanti di taluni, non pochi, suoi membri. Ebbene, il Sud è indiscutibilmente il vero trampolino di lancio verso l’Africa, così come l’Africa si proietterà verso l’Europa tramite il Mezzogiorno. In una prospettiva geostrategica, gli investimenti al Sud sono vieppiù necessari certamente per lo stesso Sud, ma anche e soprattutto per il Nord che avrebbe tutto da guadagnare per la propria vocazione oggi mutata dovendo guardare a Sud per le proprie  esportazioni verso il nuovo immenso mercato africano sia per ricevere e far transitare le merci verso il Centro e il Nord Europa, anziché come avviene oggi riceverle dai porti tedeschi e olandesi ben attrezzati per accogliere le navi in transito nel Mediterraneo.

Ma vi è di più in una prospetto ancora più ampia, guardando a Est con le vie della seta (One belt one road) la Cina approda al Pireo con la prospettiva di raggiungere tramite i Balcani, e nuove infrastrutture ferroviarie ormai in esecuzione, il centro Europa. E, così, l’Italia (non solo il Sud) resterà tagliar fuori. Altro che Marco Polo o Matteo Ricci!

Immaginando anche collegamenti stabili Tunisia-Sicilia (TUNeIT) e Puglia-Albania GRALBeIT) che, da oltre un decennio, vengono proposti da chi scrive senza alcun riscontro in Italia da parte di chi ci governa, (ma molto bene accolta dalle due parti Tunisia a sud e Albania a est), l’ingegneria visionaria (ma non troppo…) che, come detto ha fatto la storia del progresso, il Sud e l’Italia stessa sarebbero la cerniera tra tre continenti: Africa, Europa, Asia. Ovvero una eccezionale piattaforma logistica ben più importante a livello globale, andando oltre il Mediterraneo. Capace di collegare idealmente Città del Capo attraverso i corridoi infrastrutturali pan africani e Pechino tramite le vie della seta.

È chiaro, quindi, che con questi presupposti il Ponte sullo Stretto di Messina e la conseguente Metropoli dello Stretto evocata con grande enfasi dallo stesso Piero Salini, AD di WEBUILD (che io ho battezzato metropoli del Mediterraneo possibilmente estesa a nord fino a Gioia Tauro e a sud fino a Milazzo e le Eolie, e ancora verso Taormina le gole dell’Alcantara e l’Etna, ma inglobando anche i Nebrodi e i Peloritani in un unico grande scenario che affonda le radici nei miti e nella storia ) sarebbe un tassello fondamentale di un disegno più complesso da sviluppare nei prossimi decenni, capace di dare prospettive concrete per i nostri giovani (soprattutto del Sud) perché restino a costruire il proprio futuro a partire dai loro luoghi di origine. Senza contare che il crescente indebitamento che ricadrà sulle generazioni future, potrebbe non essere sufficiente a ridare al Sud e all’intera Italia quella lucentezza che merita. Non limitiamoci al sole, al mare, alla cultura e al turismo. Il Sud È il nostro futuro. Da questo punto di vista (e non solo…) il ponte di Messina va visto come asset strategico per l’Italia che guarda al Mediterraneo. Ormai tutti (o quasi…) si  sono convinti che il futuro dell’Italia passi dal Mediterraneo per proiettarsi verso l’Africa. È del tutto evidente che, in questo quadro geostrategico, il ruolo della Sicilia e dell’intero Meridione è cruciale e con esso il Ponte sullo Stretto di Messina diventa fondamentale e improcrastinabile. Del resto, il collegamento stabile tra Calabria e Sicilia è da decenni sancito dall’Unione Europea come parte del corridoio Berlino-Palermo, più di recente ridenominato Helsinki La Valletta. Ne consegue che i tentennamenti dell’Italia verso quest’opera, con ricorrenti “stop and go” puramente politici, sono del tutto incomprensibili a livello europeo. Ora finalmente è giunta la conferma della necessità di un collegamento stabile. E le attività connesse al riavvio dei cantieri sono ormai una certezza. Del resto, giusto per tornare su cose note ma su cui i “No Ponte”insistono ricorrentemente senza pudore, il ponte a campata unica ha avuto da tempo il placet tecnico, ma uno stop politico da parte del governo Monti ha generato un pesante contenzioso da parte del contraente generale Eurolink, fortunatamente annullato con la ripresa del contratto iniziale. Ebbene, voglio qui richiamare a futura memoria ciò che scrivevo un paio di anni fa in merito alla discussione allora in atto in Parlamento prima delle elezioni. “Ma ecco spuntare l’ennesimo ostacolo. Archiviata la proposta “assurda” di un tunnel , “non volendo” incomprensibilmente accettare la soluzione più logica di aggiornare il progetto definitivo già approvato (tempo pochi mesi) e spingendo per indire una nuova gara, si da credito ad una soluzione già bocciata da decenni come esito degli studi di fattibilità propedeutici all’indizione della gara internazionale (vinta da  Eurolink ). Ovvero un Ponte con piloni a mare così giustificato “presumibilmente costa meno”. Affermazione priva di riscontro oggettivo. Certamente censurabile in un documento ufficiale. Tanto più che, per valutarne la realizzabilità, sono necessari studi e indagini molto estesi e costosi! Ma tant’è! Se non vi è consenso politico, c’è sempre qualche “tecnico” pronto ad avallare i voleri del ministro di turno! Ma quel che più indigna è il fatto che non viene spiegato in linea tecnica il perché si sarebbe dovuto spendere altri 50 mln per studi di fattibilità già sviluppati nel passato (con non marginali profili di danno erariale), studi che semmai andrebbero aggiornati. E come giustificare gli oltre 350 mln spesi dallo Stato per il progetto definitivo a campata unica? Va ricordato che il progettista è la danese Cowi e la verifica parallela indipendente  sviluppata dalla statunitense Parson, società con decine di migliaia di dipendenti e con acclarata esperienza su ponti di grande luce, a livello mondiale. Ma vi è di più: abbandonando il progetto iniziale, l’ulteriore ritardo nell’inizio dei lavori per la realizzazione dell’opera è valutabile in almeno 5 anni. Orbene procrastinare nel tempo una infrastruttura strategica come questa (del valore di 5 mld per il solo Ponte), significa penalizzare ulteriormente il Mezzogiorno. Mentre il costo dell’insularità è stimato in oltre 6 mld (ovvero un Ponte all’anno). I livelli occupazionali sono valutati in decine di migliaia. E il solo indotto fiscale conseguente agli investimenti sulla “metropoli della Stretto” consentirebbe un rientro in pochi anni dei costi che lo Stato dovrebbe sostenere. Va da se (ma non sembra così chiaro a taluni contrari all’opera) che sarebbe ridotto drasticamente l’inquinamento dello Stretto senza contare gli attuali rischi per la sicurezza conseguenti alle possibili collisioni dei traghetti. L’amara conclusione è che si sarebbero “buttati” centinaia di milioni per ripartire da capo, ignorando le conseguenze di un ulteriore ritardo. Perché queste decisioni “masochistiche”? La quasi totalità dei tecnici “qualificati” e non asserviti alla politica la pensano allo stesso modo. “Ma ora il vento è cambiato! Il Governo in carica ha riavviato l’iter  procedurale e realizzativo. E nonostante qualche ulteriore stop della magistratura contabile (cui si sta dando puntuale risposta), possiamo  concludere con un perentorio finalmente ci siamo! (es)

(Sintesi dell’intervento alla tavola rotonda del 29/11 nell’ambito del convegno CONNESSIONI MEDITERRANEE a Reggio Calabria)

Qualità della vita: Reggio di nuovo ultima nella classifica del Sole 24 ore

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Reggio è ultima, per il secondo anno consecutivo, per la qualità della vita. È quanto emerso dalla 36esima edizione del Rapporto Qualità della Vita 2025 de Il Sole24Ore, dove si registra per la Città dello Stretto (in 107esima posizione) un peggioramento anche degli indicatori: nel 2024 la provincia era oltre la 100ª posizione in 16 indicatori su 90, nel 2025 è oltre la posizione 100 in 27 dei 90 indicatori.

Un dato desolante, considerando che, recentemente, Reggio si collocava all’ultimo posto (105) nel dossier di Legambiente realizzato in collaborazione con Ambiente Italia e Il Sole 24 Ore, per performance ambientali e qualità dei servizi, con trasporto pubblico, piste ciclabili, uso efficiente del suolo e gestione dei rifiuti tra i dati peggiori d’Italia.

E i dati del quotidiano fotografano una Reggio “ultima degli ultimi”, in cui la posizione  107 della graduatoria generale è la somma del 107° posto per «Affari e lavoro», del 107° per «Ambiente e servizi» e del 101° per «Ricchezza e consumi».

«Un territorio a basso reddito – spiega il quotidiano economico – in cui le famiglie con Isee sotto i settemila euro sono il 40,6% del totale, il reddito medio pro capite è poco più alto di 15mila euro, più basso della pensione di vecchiaia (21mila euro), ma l’inflazione (2%) è il doppio di quella nazionale. Ancora: Reggio Calabria è nelle ultime 15 posizioni in quasi tutti gli indicatori di «Affari e lavoro». È trentesima per start up innovative e 22ª per pensioni di vecchiaia che sul territorio rappresentano una misura di welfare non convenzionale per molte famiglie. Infatti, anche se per quoziente di natalità Reggio Calabria è 7ª in classifica, i giovani, e non solo, scappano. Il saldo migratorio totale è meno 2,5 (Reggio è 106ª, penultima in classifica) frutto anche di un fenomeno segnalato dall’Istat nel 2025 e qui ben presente: emigrano anche i pensionati che vanno al Nord a raggiungere i figli, precedentemente emigrati, per fare da baby sitter ai nipoti e cercare una sanità più efficiente di quella reggina (la provincia è 102ª nell’emigrazione ospedaliera)».

Una Città di forti contrasti, dove alla bellezza dello Stretto «fanno da contraltare periferie in cui il degrado è visibile a occhio nudo: strade dissestate, incuria diffusa, auto vecchie e rumorose. Una situazione simile a quella della provincia, dei tre territori che la compongono: la Locride sullo Jonio, la Piana di Gioia Tauro sul Tirreno, l’Aspromonte che li divide appoggiandosi su Reggio Calabria».

Ma non è solo Reggio ad aver registrato delle criticità: Vibo Valentia (102esima posizione) è ultima per retribuzione dei lavoratori dipendenti (13.300 euro contro i 34.300 di Milano, 21mila euro di differenza) e per durata media dei procedimenti civili (121 giorni a Gorizia contro più di mille; la media in Italia è 345).

Malissimo Crotone (105esima posizione) per l’offerta culturale (a Pescara 103 spettacoli ogni mille abitanti, nel capoluogo pitagorico soltanto 5) e Cosenza per quota di export sul Pil (ultima a distanza siderale da Arezzo che guida la classifica) e valore aggiunto pro capite.

Crotone è ultima in classifica per qualità della vita delle donne, altro parametro per il quale Vibo è messa molto male. La qualità della vita degli anziani è pessima ancora a Vibo Valentia e Reggio Calabria (105esima). Crotone è terz’ultima in Italia per qualità della vita dei bambini, mentre è ultima per mortalità evitabile. Riguardo all’emigrazione ospedaliera, invece, la peggiore tra le calabresi è Cosenza (103esimo posto). Cosenza si posiziona 100esima, mentre Catanzaro, tra le cinque province, è quella più in alto: è al 92esimo posto.

I dati emersi da Il Sole24Ore devono far riflettere, soprattutto se, nelle prime 30 posizioni, ci sono solo regioni settentrionali. Bisogna arrivare alla 39esima posizione per trovare una regione del Sud, ovvero Cagliari.

«Il dato conferma – scrive il quotidiano – una spaccatura che, in 36 edizioni della Qualità della vita, non ha accennato a sanarsi, nonostante i punti di forza del Sud nella demografia, nel clima, nel costo della vita decisamente più accessibile e i fondi (inclusi quelli del Pnrr) che, negli anni, hanno contribuito a dare una spinta alle imprese e al Pil del territorio in questione: le ultime 22 classificate, infatti, continuano a essere province meridionali».

Dati, quelli del quotidiano economico, che andrebbero presi con le pinze, in quanto – come scritto proprio sulle sue pagine – il costo della vita al Sud è decisamente più accessibile nel Mezzogiorno che al Nord. Ovviamente, questo non significa che le criticità non ci siano anzi, quanto emerso dalla classifica de Il Sole24Ore dovrebbe essere la bussola per la Regione per individuare le criticità e cercare di porvi rimedio attraverso veri interventi e piani capaci di migliorare la qualità della vita non solo a Reggio, ma in tutta la Calabria. Leggere di Crotone, per esempio, che “fallisce” per quanto riguarda l’offerta culturale è desolante, considerando che la città di Pitagora era un centro di riferimento politico, religioso e culturale per l’intero territorio della Magna Grecia. E stesso discorso vale anche per il fallimento per quanto riguarda la qualità del lavoro delle donne, della qualità della vita per i bambini. Dati, questi, che dovrebbero suggerire alla politica di prestare più attenzione alla città pitagorica. Anzi, l’attenzione e l’impegno dovrebbe essere equo e uguale per tutte le province, per per aree interne e qualsiasi angolo della Calabria.

Tornando alla classifica del quotidiano, in prima posizione troviamo la provincia di Trento, già incoronata regina dell’Indice di Sportività 2025 e di Ecosistema Urbano, Trento svetta in un podio tutto alpino di teste di serie dell’indagine: Bolzano è al secondo posto e Udine al terzo.

La top 10 della classifica quest’anno è popolata da territori del Nord Italia, in un mix tra grandi città come Bologna,4 ª, e Milano, 8 ª, e province di piccola taglia come Bergamo (5 ª, vincitrice nel 2024), Treviso (6 ª, con il record di posizioni risalite: +18), Verona (7 ª), Padova (9 ª, che ritorna tra le prime 10 dopo 30 anni di assenza: era nona nel 1994) e Parma (10 ª). A trionfare, come già in passato, è in particolare il versante Nord-Orientale della penisola.

Le città metropolitane registrano un miglioramento diffuso rispetto all’edizione 2024: solo due su 14, Bari e Catania, calano di posizione rispetto all’indagine dell’anno scorso, mentre altre due (Firenze, 36ª, e Messina, 91ª) risultano stabili. La competitività di questi territori sul piano degli affari e del lavoro, ma anche l’attrattività su quello degli studi e dell’offerta culturale, contribuiscono dunque a mitigare la presenza di disuguaglianze accentuate che rende queste aree più esposte alla polarizzazione interna. A guidare la risalita con un avanzamento di 13 posizioni è Roma, che si piazza 46ª, mentre Genova sale di 11 gradini arrivando al 43° posto. In miglioramento anche le già citate Bologna, che rimane tra le prime dieci ma a +5 sul 2024, e Milano (+4), che torna in top 10 piazzandosi all’8° posto. Torino sale di una posizione (57ª).  La prima area metropolitana del Mezzogiorno, inteso nella sua accezione più ampia che comprende anche le isole, è Cagliari, che sale di cinque posizioni e si piazza 39ª, seguita da Bari (67ª, ma in calo di due posizioni), Messina (91ª), Catania (96ª, in calo però di 13 posizioni), Palermo (97ª) e Napoli (104ª). (ams)

Non nuovi Enti intermedi ma rimodulazione degli ambiti vasti

di SANDRO FULLONE E DOMENICO MAZZA Le posizioni esternate alla stampa da alcuni Amministratori delle Serre vibonesi, relativamente alla possibilità di traghettare le proprie Comunità dalla Provincia di Vibo a quella di Catanzaro, hanno aperto a una serie di interventi della Politica e della società civile sulla tematica. L’argomento, senza dubbio, rappresenta un nervo scoperto e non certo riconducibile alla sola area dell’Istmo e delle Serre. In tutta onestà – ci sia consentito – quella dell’autonomia territoriale, fino a un lustro fa, era diventata lettera morta. Poi, l’intuizione del Comitato Magna Graecia: non già pensare a nuovi Enti intermedi, ma una rimodulazione, equa e coerente, degli attuali assetti amministrativi regionali. Una lettura geopolitica degli ambienti calabresi, fondata su aree a interesse comune e omogeneità territoriali. I requisiti fondamentali, altresì, che dovrebbero stare alla base della costituzione degli ambiti vasti e che il deviato regionalismo calabrese ha sistematicamente ignorato. Invero, le posizioni del Comitato non sono state dettate dell’estemporaneità. Al contrario, hanno sviscerato risultati frutto di studi scientifici e di ricerca sociale. Vieppiù, hanno analizzato, ponderato e descritto un metodo che darebbe lustro e dignità a ogni contesto intermedio della Regione. Non è un caso, infatti, che oggi molti si ispirino, nel tentativo di risolvere annose questioni di carattere territoriale, all’idea Magna Graecia. D’altronde, non rappresenta un mistero che le banali e impalpabili ripartizioni provinciali degli ultimi decenni abbiano lasciato le richiamate questioni del tutto insolute, se non addirittura peggiorate.

La tripartizione storica: un sistema che ha generato processi di centralizzazione a scapito delle aree periferiche

Il vecchio inquadramento calabrese della tre Province storiche (CZ-RC-CS) aveva dimostrato tutti i suoi limiti già all’indomani dell’avvento della Regione. Il riparto dei fondi destinati alla nascita del regionalismo, come apparato dello Stato, aveva generato la proliferazione di aree di figli e aree di figliastri. Il vecchio Pacchetto Colombo rappresentò lo specchietto di tornasole di una Regione sostanzialmente divisa a tre teste. E, mentre Catanzaro e Reggio litigavano per il mantenimento dello status di Capoluogo regionale, Cosenza si inseriva nel dibattito facendo man bassa di tutto. In quel marasma istituzionale le aree che fino ad allora avevano interpretato il vero motore economico della Regione (prima fra tutte il polo industriale Crotonese) iniziarono un lento declino, diventando sempre più marginali rispetto ai consolidati sistemi centralisti. Crotone, il Vibonese, la piana di Gioia e la Sibaritide furono relegate a periferie di Catanzaro, Reggio e Cosenza. Lamezia, Castrovillari, Paola, invece, si inquadrarono in un rapporto succursale con i relativi Capoluoghi. Risultato? Ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti: mugugni, lamenti, spoliazioni diffuse di servizi e status amministrativi presenti solo nelle nomenclature, ma a siderali distanze dalla percezione reale dei relativi ambiti.

Inutile pensare a nuove Province. Serve un ridimensionamento degli ambiti vasti, rispettando le omogeneità territoriali

In un contesto come quello calabrese, già eccessivamente provato dalla risicata condizione demografica della Regione, pensare all’istituzione di nuove Province sarebbe un’idea folle ancor prima che inattuabile. Tuttavia, le spinte autonomiste provenienti dal contesto sibarita e dagli ambienti centrali della Regione meritano di essere prese in debita considerazione. Certamente, pensare di poter risolvere un problema come quello delle autonomie – che non è sentito solo nella piana di Sibari, ma impatta un po’ tutto il tessuto regionale –, con l’istituzione di nuovi Enti, rappresenterebbe soltanto un binario morto. Piuttosto, è la politica regionale che dovrebbe farsi carico di trovare una soluzione che guardi a una rinnovata mappatura della Regione. Non si può lasciare un tema del genere al chiacchiericcio social e a ragionamenti campanilistici e di pancia che, a oggi, hanno generato solo arretratezza, miseria e involuzione culturale. Il riassetto delle Province e più in generale degli Enti immediatamente sottoposti alle Regioni, dovrebbe essere lo zenit dell’agenda politica di Classi Dirigenti che aspirino a considerarsi coerentemente europee. Va da sé che l’attuale condizione calabrese imponga, per una ottimizzazione della gestione territoriale, una ripartizione organica finalizzata a inquadrare la Regione come area da settorializzare in quattro ambiti: Nord Ovest, Nord Est, Centro e Sud. Ognuno dei richiamati ambienti geografici godrebbe di un’estensione territoriale e demografica che consentirebbe una declinazione coerente e strutturata dell’intero Sistema Calabria. Intanto, i quattro contesti territoriali sarebbero molto simili fra loro. Quanto detto, inoltre, consentirebbe di equiparare ogni ambito con criteri di pari diritti e pari dignità istituzionale. Chiaramente, l’impianto immaginato, dovrebbe fondarsi sulla esistenza di uno o più sistemi urbani a riferimento geopolitico dell’intero contesto. L’asse Cosenza-Rende da un lato e quello di Corigliano-Rossano e Crotone dall’altro, consentirebbero una organizzazione ottimale dei due ambienti nord. Le città di Catanzaro, Lamezia e Vibo, potrebbero inquadrarsi come chiave di svolta per immaginare la nascita di un contesto metropolitano, diffuso e policentrico, tra l’area dell’Istmo e quella delle Serre. Reggio-Villa, Gioia e Locri-Siderno, completerebbero coerentemente le polarità di riferimento nel quadrante geografico dello Stretto. Le descritte Aree Vaste godrebbero di una demografia compresa tra i 400 e 500mila abitanti ciascuna. Ognuno dei contesti avrebbe competenza diretta sulle due Aree Interne comprese nei rispettivi ambiti. Savuto e Alto Tirreno-Pollino per quanto riguarda Cosenza; Jonio Federiciano e Sila Graeca-Marchesato per l’Arco Jonico; la Presila Piccola e le Serre per l’area centrale; l’area Grecanica e quella Aspromontana per l’ambiente Sud. Un inquadramento fedele, quindi, a quelle che sono le raccomandazioni e le disposizioni europee in termini di gestione degli ambiti vasti. Quattro ambienti intermedi che rilancerebbero l’apparato burocratico calabrese. Vieppiù, riformando la Regione nel suo impianto e superando una visione centralista che l’ha, storicamente e innaturalmente, suddivisa a tre teste; anche, successivamente la istituzione delle due impalpabili Province costituite nel ‘92.

Avviare campagne di sensibilizzazione per favorire i processi di Unione e Fusione dei Comuni

Chiaramente, non basterà la sola riorganizzazione degli ambiti vasti a individuare questa Regione come contesto efficiente e sistematico. Una popolazione di circa 1.8 milioni d’abitanti e una parcellizzazione municipale di 404 Comuni impongono una riflessione attenta e accurata. Da questo punto di vista, il grido d’allarme proveniente da alcuni Amministratori della Locride non è da sottovalutare. Anzi, una Politica attenta dovrebbe suffragare e sostenere un dibattito volto a ottimizzare il numero delle Municipalità regionali portando l’attuale media abitativa – di poco superiore ai 4000 ab. circa – ad, almeno, un inquadramento urbano composto dal doppio degli abitanti. Non già, tuttavia, calando dall’alto progetti come si è malamente fatto nel recente tentativo di sintesi amministrativa in val di Crati. Piuttosto, accompagnando le popolazioni calabresi verso un processo di consapevolezza e crescita sociale non più procrastinabile. In questo alveo, superando sterili e inutili difese campanilistiche, bisognerà riprendere l’argomento della fusione a Cosenza. A ruota, dovrebbero seguire le sintesi amministrative della Sibaritide (grande Sybaris), del Crotonese (grande Kroton), della Locride (la nuova Epizefiri), di Vibo (la nuova Valentia) e della Piana di Gioia. Senza dimenticare le fusioni tra piccoli Comuni in ognuna delle Aree Interne comprese nella mappatura regionale. Laddove i processi di fusione risultassero inattuabili, un Establishment responsabile dovrebbe invogliare processi di unione finalizzati alla ottimizzazione e controllo unitario dei servizi di base tra Comunità. Solo così la Calabria potrà risalire la china e avviare un processo di revisionismo storico che la inquadrerebbe come fulcro indiscusso del nuovo ambiente geopolitico euromediterraneo.

Vieppiù, la consacrerebbe come porzione integrante del nuovo ecosistema geografico nella Macroregione Mediterranea di prossima costituzione.

Ogni altro minuto passato a cincischiare, proponendo progetti e visioni superate dal tempo e dai fatti, contribuirà ad affievolire il peso politico di questa Regione rispetto ai macrocontesti europei.

Avviarci a narrare una Calabria che rappresenti realmente il paradigma di una terra straordinaria, rimettendo al centro i cittadini e suffragando le loro istanze di cambiamento ed emancipazione, dovrebbe essere un imperativo. Il momento delle agognate riforme strutturali, è adesso.

È necessario osare! Non c’è più tempo da perdere. (sf e dm)

(Comitato Magna Grecia)

Svimez, il Sud cresce ma perde i suoi giovani

di ANTONIETTA MARIA STRATI – È una stagione ricca di contrasti, quella che sta vivendo il Sud. Se da una parte cresce come non mai l’occupazione, dall’altra è inesorabile l’esodo dei giovani che svuota il Mezzogiorno di competenze e futuro. È questo il quadro emerso dal Rapporto Svimez, presentato a Roma dal direttore Luca Bianchi.

Tra il 2021 e il 2024, quasi mezzo milione di posti di lavoro è stato creato nel Mezzogiorno, spinto da PNRR e investimenti pubblici. Ma negli stessi anni 175 mila giovani lasciano il Sud in cerca di opportunità. La “trappola del capitale umano” si rinnova: la metà di chi parte è laureato; le migrazioni dei laureati comportano per il Mezzogiorno una perdita secca di quasi 8 miliardi di euro l’anno. I giovani che restano, troppo spesso, trovano lavori poco qualificati e mal retribuiti. Con i salari reali che calano aumentano i lavoratori poveri: un milione e duecentomila lavoratori meridionali, la metà dei lavoratori poveri italiani, è sotto la soglia della dignità. Si evidenzia, inoltre, una emergenza sociale nel diritto alla casa.

Il PNRR sostiene la crescita e spinge fino al 2026 il Pil del Sud oltre quello del Nord. Il percorso di sviluppo avviato dal PNRR non può interrompersi nel 2026. Il Mezzogiorno sta dimostrando di poter essere protagonista della transizione industriale ed energetica del Paese, ma servono scelte politiche forti per consolidare i risultati raggiunti e dare continuità agli investimenti. Tra i segnali positivi nel Mezzogiorno sui quali costruire il futuro post PNRR: la crescita dei servizi ICT, la crescita dell’industria, il miglioramento dell’attrattività delle università meridionali. Ma la legacy del PNRR riguarda anche cambiamenti sociali e istituzionali che devono orientare il complesso delle politiche pubbliche: il miglioramento della capacità amministrativa dei Comuni; i primi segnali di convergenza Sud-Nord nell’offerta pubblica di asili nido e del servizio mensa nelle scuole; la standardizzazione e semplificazione degli iter amministrativi. 

Per la Svimez, dunque, la vera sfida «è consolidare questi segnali positivi in un percorso di sviluppo duraturo, che renda il diritto a restare pienamente esercitabile e la decisione di partire una scelta, non una necessità. Occorre agire su quattro leve: potenziare le infrastrutture sociali e garantire i servizi oltre il Pnrr; rafforzare i settori a domanda di lavoro qualificata; puntare sulla partecipazione femminile nel mercato del lavoro, nel sistema della ricerca e nella sfera politica e decisionale, dove rivestono un peso ancora marginale; investire sul sistema universitario come infrastruttura di innovazione».

È lo stesso Bianchi a ribadire come «il Mezzogiorno sta crescendo in questi ultimi anni grazie al PNRR. Ora la sfida è dare continuità a questo ciclo d’investimenti».

A fargli eco il presidente Adriano Giannola, evidenziando come «grazie al Pnrr persistenti segnali di ripresa dell’economia e del lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno che, tuttavia, non riescono a incidere e prevalere sulle dinamiche migratorie e sulle prospettive di vita delle giovani generazioni. Si conferma infatti che tanti giovani scelgono le Università del Nord soprattutto perché offrono qualificate prospettive di opportunità di lavoro anche, e sempre più, fuori Italia».

I dati del Rapporto, infatti, ci dicono come tra 2021 e 2024 il Pil del Mezzogiorno aumenta dell’8,5%, contro +5,8% del Centro-Nord. A determinare questo scarto contribuiscono diversi fattori: la minore esposizione dell’industria meridionale agli shock globali; un ciclo dell’edilizia particolarmente favorevole legato prima al maggiore impatto espansivo degli incentivi edilizi, poi allo stimolo fornito dal Pnrr la chiusura del ciclo 2014-2020 della politica di coesione. A ciò si è aggiunta la ripresa del turismo e dei servizi, che ha rafforzato la domanda interna. E ancora: le costruzioni sono il motore principale: +32% nel Sud contro +24% nel Centro-Nord. Per il peso che riveste nella formazione del valore aggiunto dell’area, il contributo più rilevante alla crescita del Pil 2021-2024 del Mezzogiorno è venuto dal terziario: +7,4% l’aumento medio in Italia dei servizi, che raggiunge il +7,8% nel Mezzogiorno (+7,3% nel Centro-Nord). La crescita non si è limitata ai servizi tradizionali. Crescono le attività finanziarie, immobiliari, professionali e scientifiche che hanno goduto degli effetti di domanda di nuova progettualità pubblica e privata attivata dal Pnrr.

Nel biennio 2023-2024 l’effetto espansivo del Pnrr che è valutabile in circa 0,9 punti di Pil nel Centro-Nord e 1,1 punti nel Mezzogiorno. Gli investimenti attivati dal Piano hanno di fatto scongiurato il rischio di una stagnazione della crescita italiana.

Secondo le stime Svimez, l’Italia crescerà poco ma in miglioramento: +0,5% nel 2025, +0,7% nel 2026, +0,8% nel 2027. Grazie al completamento dei cantieri PNRR, il Sud dovrebbe continuare a superare il Centro-Nord nel biennio 2025-2026: +0,7% e +0,9%, contro +0,5% e +0,6% del Centro-Nord. Complessivamente, sulla crescita cumulata del biennio 2025-2026, la domanda di investimenti pubblici dovrebbe valere 1,7 punti di Pil nel Mezzogiorno e  0,7 punti nel Centro-Nord. Nel 2027 rallenta ciclo investimenti pubblici, riparte la domanda internazionale e il Centro-Nord torna a crescere più del Sud (+0,9% contro +0,6%).

Per il direttore Bianchi  «ora la sfida è dare continuità a questo ciclo d’investimenti. Bisogna migliorare la spesa delle politiche di coesione e ricostruire un quadro di politica industriale che valorizzi la grande impresa del Mezzogiorno e i tanti settori che stanno vincendo la sfida della competitività», mentre il presidente Giannola punta l’attenzione sui giovani, evidenziando «come l’emorragia di giovani italiani altamente formati investe anche il Centro-Nord che, pur perdendo capitale umano a vantaggio di poli stranieri, lo recupera ancora grazie alle migrazioni interne dal Sud. Al Mezzogiorno, quest’emigrazione qualificata infligge una perdita secca e impone una drastica segregazione ai giovani meno “ricchi e formati” che rimangono e alimentano il boom dell’occupazione soprattutto nel terziario dei servizi a basso valore aggiunto e precario; al contempo l’industria manifatturiera ristagna o perde colpi. Per trattenere le competenze nelle regioni meridionali e uscire dalla trappola dei bassi salari e del lavoro povero la priorità è garantire la qualità dell’occupazione e delle retribuzioni. Se è vero che nel periodo 2021-2024 il Sud cresce più del Centro-Nord, è altrettanto vero che in quegli anni contiamo ben 100mila poveri in più nel Mezzogiorno».

Dal Rapporto Svimez, infatti, emerge come «tra il 2021 e il 2024 il Mezzogiorno ha registrato un incremento dell’occupazione pari all’8%, contribuendo per oltre un terzo al milione e quattrocentomila nuovi occupati a livello nazionale. Il Centro-Nord ha aggiunto circa 900mila posti, il Sud quasi 500mila. Le politiche pubbliche hanno svolto un ruolo determinante: prima l’espansione degli incentivi edilizi, poi l’avvio dei cantieri Pnrr e l’aumento degli organici nella pubblica amministrazione hanno sostenuto occupazione in edilizia, servizi professionali e filiere manifatturiere legate agli investimenti pubblici».

Cresce l’occupazione giovanile, soprattutto nel Mezzogiorno. Nel triennio 2021-2024 gli under 35 occupati sono aumentati di 461mila unità a livello nazionale, di cui 100mila nel Sud. Il tasso di occupazione giovanile cresce più al Sud (+6,4 punti), ma resta molto più basso rispetto al Centro-Nord (51,3% contro 77,7%).

Nonostante il boom occupazionale, il Mezzogiorno non trattiene i giovani. Tra i due trienni 2017-2019 e 2022-2024 le migrazioni dei 25-34enni italiani sono aumentate del 10%: nell’ultimo triennio 135mila giovani hanno lasciato l’Italia e 175mila hanno lasciato il Sud per il Nord e l’estero. Un paradosso evidente: più lavoro ma non migliori condizioni di vita, né opportunità professionali adeguate alle competenze.

La conseguenza è che il Sud forma competenze che alimentano la crescita e l’innovazione altrove. I dati dicono che sono oltre 40mila i giovani meridionali che si trasferiscono ogni anno al Centro-Nord, mentre 37mila laureati italiani emigrano all’estero. Con l’emigrazione di questi laureati, una parte del rendimento potenziale dell’investimento pubblico sostenuto per la loro formazione viene dispersa. Il bilancio economico di questo movimento è pesante: dal 2000 al 2024 il Mezzogiorno perde di investimenti 132 miliardi di euro di capitale umano, contro un saldo positivo di 80 miliardi per il Centro-Nord. Poli esteri che attraggono giovani italiani altamente formati, il Centro-Nord che perde verso l’estero ma recupera grazie alle migrazioni interne di laureati da Sud, il Mezzogiorno che li forma e continua a perderli.

Nel Mezzogiorno, nel 2021-2024, sei nuovi occupati under35 su dieci sono laureati, contro meno di cinque nel resto del Paese. Tuttavia, la prima porta d’ingresso al lavoro rimane il turismo: oltre un terzo dei nuovi addetti giovani si colloca nella ristorazione e nell’accoglienza, settori a bassa specializzazione e bassa remunerazione. Al tempo stesso, crescono i giovani laureati nei servizi ICT e nella pubblica amministrazione, grazie al PNRR e alla riforma degli organici pubblici. La qualità delle opportunità resta però insufficiente: il mercato del lavoro meridionale continua a offrire sbocchi concentrati nei comparti tradizionali, con scarsa domanda di competenze avanzate.

Per trattenere i giovani, il Sud deve attivare filiere produttive ad alta intensità di conoscenza, rafforzare la base industriale innovativa e integrare formazione superiore, ricerca e politiche industriali. Senza un salto di qualità nella domanda di competenze, la mobilità giovanile continuerà a essere una scelta obbligata.

Un altro dato rilevato dalla Svimez sono i salari, che sono in calo, soprattutto nel Mezzogiorno: Dal 2021 al 2025 i salari reali italiani hanno perso potere d’acquisto, con una caduta più forte nel Sud: -10,2% contro -8,2% nel Centro-Nord. Inflazione più intensa e retribuzioni nominali più stagnanti accentuano il divario.

In Italia i lavoratori poveri sono 2,4 milioni, di cui 1,2 milioni al Sud. Tra il 2023 e il 2024 aumenta il numero dei lavoratori poveri: +120mila in Italia, +60mila al Sud. Non basta avere un’occupazione per uscire dalla povertà: bassi salari, contratti temporanei, part-time involontario e famiglie con pochi percettori ampliano la vulnerabilità.

Nel 2024 le famiglie povere crescono nel Mezzogiorno dal 10,2% al 10,5%. Centomila persone in più scivolano nella povertà assoluta, per effetto di un aumento delle famiglie che risultano in povertà assoluta anche se con persona di riferimento occupata.

Sono i Comuni ad aver dato lo stimolo più forte agli investimenti pubblici: raddoppiati nel Mezzogiorno tra il 2022 e il 2025 da 4,2 a 8 miliardi di euro. Oltre che alla maggiore flessibilità introdotta con la modifica del Patto di stabilità, tale dinamica va ascritta principalmente alla soddisfacente capacità dei Comuni nell’attuare le misure del Pnrr.

Il Pnrr destina 27 miliardi di opere pubbliche al Sud. Tre cantieri su quattro sono in fase esecutiva al Sud, in linea con il dato del Centro-Nord. Il 25% dei progetti al Centro-Nord è già alla fase del collaudo; il 16,2% al Mezzogiorno.

La Svimez, in collaborazione con l’Ance, ha realizzato un monitoraggio aggiornato a fine ottobre 2025 sullo stato di avanzamento dei cantieri delle infrastrutture sociali finanziate dal PNRR: interventi per un valore complessivo di circa 17 miliardi di euro affidati in larga parte a Comuni e Regioni per la realizzazione di opere nei servizi per la prima infanzia, nell’edilizia scolastica e nella sanità territoriale. Nel Mezzogiorno i cantieri PNRR per infrastrutture sociali dei Comuni sono in fase avanzata progetti per il 51,5% del valore complessivo delle risorse contro solo il 33% di quelli delle Regioni.

Le attività di assistenza tecnica offerta dai centri di competenza nazionale alle amministrazioni locali responsabili degli interventi ha consentito l’accelerazione e standardizzazione degli iter amministrativi. Con il Pnrr si sono ridotti i tempi medi di progettazione delle opere rispetto al pre Pnrr con una sostanziale convergenza Sud/Nord: nel Mezzogiorno da 20,4 a 7,1 mesi; nel Centro-Nord da 16,8 a 7,4.

«Grazie agli investimenti del Pnrr – scrive la Svimez – i Comuni del Mezzogiorno stanno realizzando un miglioramento nei servizi educativi per l’infanzia e per la scuola. I primi risultati sono già visibili: crescono i posti negli asili nido pubblici e aumenta la quota di alunni che frequentano scuole dotate di mensa, due indicatori fondamentali del diritto di cittadinanza all’istruzione».

Per Giannola «a conti fatti, il contributo decisivo alla crescita meridionale è venuto dall’edilizia, sostenuta in una prima fase dagli incentivi del vituperato – malgovernato Superbonus, poi dagli investimenti pubblici legati al PNRR, al quale hanno dato una spinta importante tra il 2022 e il 2025 gli investimenti dei Comuni, che sono raddoppiati. Come suggeriscono le nostre previsioni, il Sud continuerà a crescere più del Nord finché c’è il PNRR: alla fine di questo vero e proprio “intervento straordinario dell’Europa” che accadrà?».

S«e non è errato dire che le risorse del Pnrr – ha proseguito il presidente della Svimez – hanno prevalentemente mirato alla revisione e manutenzione di un sistema che non cresce da troppi anni, si conferma l’aspettativa che riprenda il deludente tratto delle Politiche di Coesione».

«Ma fare sviluppo – ha evidenziato – vuol dire cambiare, non limitarsi a “tenere assieme i pezzi”. Una valutazione che non riguarda solo il Sud, ma anche per molti versi il Centro-Nord, quindi l’intero Paese. Non a caso la Commissione Europea diagnostica l’Italia prigioniera nella “trappola dello sviluppo”. Eppure, avremmo potenzialità che non sfruttiamo adeguatamente, sintetizzabili in primis nella posizione privilegiata nel Mediterraneo, che offre vantaggi comparati per realizzare la “doppia transizione” programmata dalla UE».

«Mettere in campo sistematicamente e non per caso – ha concluso – tra le celebrate energie rinnovabili, la risorsa geotermica contribuirebbe e non poco alla nostra autonomia nella transizione energetica. Per le aree meridionali, che ne hanno in abbondanza, sarebbe un potenziale complemento alle mai avviate Autostrade del Mare, essenziali per realizzare la “Logistica a valore”, articolata in porti e retroporti attrezzati e favoriti dai privilegi fiscali delle Zone Doganali Intercluse».

Per la Svimez, poi, l’avvio delle pre-intese sull’autonomia differenziata può compromettere l’efficacia degli interventi del Pnrr: se da una parte c’è il Piano nato per ridurre i divari territoriali migliorare i servizi essenziali e rafforzare la capacità amministrativa delle aree più fragili, soprattutto nel Mezzogiorno, dall’altra c’è una riforma che rischia di aumentare le diseguaglianze, sottraendo risorse e competenze condivise e frammentando i diritti di cittadinanza.

Il risultato è una riforma nata per ricucire il Paese si sovrappone a un’altra che può accentuarne le fratture. Senza un quadro unitario, gli effetti positivi del PNRR rischiano di indebolirsi proprio ora che stanno emergendo. La contraddizione è ancora più evidente perché il Pnrr include tra le sue riforme la revisione organica del federalismo fiscale, pensata per garantire livelli essenziali delle prestazioni uniformi e ridurre i divari. L’autonomia differenziata va nella direzione opposta e rischia di compromettere l’efficacia stessa del Piano.

Il Mezzogiorno continua a presentare un marcato divario infrastrutturale rispetto al Centro-Nord. Ed anche gli indici di accessibilità alle infrastrutture esistenti mostrano come, a fronte di valori medi superiori nelle regioni settentrionali per strade e ferrovie, le regioni meridionali si fermano spesso intorno o al di sotto, con punte molto basse nelle città minori, con ritardi più profondi al Sud nel caso delle infrastrutture ferroviarie ad alta velocità, dei servizi sanitari e della rete impiantistica per la gestione dei rifiuti. Posto uguale a 100 l’indice medio di accessibilità Italia per le infrastrutture ospedaliere, il Mezzogiorno registra un valore pari ad appena 68 contro il 132 del Nord e il 118 del Centro.

La Svimez, poi, ha ribadito come il rilancio del Mezzogiorno passa dalle grande aziende. Nonostante il loro peso sia ancora limitato, è significativo: quasi 600mila addetti e 46 miliardi di valore aggiunto, concentrati in pochi poli industriali. Nei comparti a più elevata tecnologia l’incidenza occupazionale dei grandi impianti al Sud supera il 50% (30% nelle altre aree).

Tra i tanti dati, emerge, infine, come la partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Italia resta tra le più basse d’Europa, nonostante i segnali positivi registrati tra il 2021 e il 2024. Il tasso di occupazione femminile, pur in crescita, è ancora lontano dagli standard europei e presenta forti divari tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Persistono inoltre fenomeni strutturali di segregazione e precarietà: nel Sud le donne lavorano soprattutto in settori a bassa remunerazione e produttività, con contratti spesso temporanei o part-time involontari. A pesare sono anche le limitate opportunità di carriera, frenate da barriere culturali e dalla mancanza di adeguate politiche di conciliazione. Ne derivano ampi divari retributivi e una partecipazione femminile molto diseguale, soprattutto nelle aree più deboli per struttura produttiva e servizi di welfare. (ams)

Il valore ambientale ed economico del bello naturale e del paesaggio culturale in Calabria

di EMILIO ERRIGO  – La bellezza nel mondo antico valeva veramente molto. Il valore della bellezza lo ha sintetizzato molto bene, (Kahlil Gibran), il quale scrisse: «vorrei costruire una città presso un porto, su un’isola, e in quel porto erigere una statua non alla Libertà, ma alla Bellezza. Poiché la Libertà è quella ai cui i piedi gli uomini hanno sempre combattuto le loro battaglie, mentre la Bellezza è quella al cui cospetto tutti gli uomini alzano le mani verso tutti gli uomini, come fratelli».

La sete di bellezza e cultura sono bisogni interiori condivise da ogni popolo, in ragione di verità universali, riconosciute in ogni luogo e in ogni tempo, quali  inalienabili diritti dell’Uomo. 

Quanto vale il bello naturale e il paesaggio culturale della Regione Calabria?

Oggi come ieri, il naturale risulta sempre bello, agli occhi e ai sensi percepibili dall’essere umano. 

Il bello che madre natura ha donato alla Calabria, espresso in tutte le sue variabili forme ambientali, umane, urbanistiche, estetiche, storiche, archeologiche, artistiche e culturali, ha un immenso valore economico crescente.

Il bene del bello naturale ambientale si identifica in tutto ciò che può soddisfare un bisogno, per dirla secondo la dottrina economica più aggiornata dello Jering. 

Mentre il bene culturale vivendo e interagendo nell’ambiente è strettamente connesso con il contesto ambientale in cui è inserito sotto il duplice aspetto paesaggistico e panoramico. Quindi possiamo senz’altro affermare che il bene ambientale e il bene culturale si integrano e si rafforzano della bellezza rappresentativa del paesaggio culturale che è l’insieme di paesaggio fisico e di paesaggio umano.

Quantificare il valore economico complessivo del bello naturale e del paesaggio culturale, il vero Prodotto Interno Economico Vero (PIEV) della Calabria, consente di redigere e presentare un Bilancio di Previsione Pluriennale e, successivamente, il Rendiconto annuale dell’attività svolta a ogni livello amministrativo regionale, provinciale e comunale, attraverso i redigendi atti di pianificazione e gestione dei beni esistenti: il “bello naturale” e “paesaggio ambientale”.

Il bello naturale affonda le radici nel mondo antico, in tutte le civiltà che in tutte le epoche ci hanno precedute, mentre la sua evoluzione e valorizzazione si è manifestata più intensamente attraverso il paesaggio culturale, espressione più evidente dell’essere umana e modellatore della naturale bellezza e l’antropizzazione del bello naturale ambientale. La perfezione delle forme geometriche rendono il valore estetico ed artistico delle opere ingegneristiche e architettoniche  delle urbanizzazioni millenarie,  realizzate dall’uomo e modellate dalla natura antropizzata con i necessari interventi di completamento geologico ambientale.

Il bello naturale, in generale, e il paesaggio culturale in particolare, sono stati riconosciuti nella loro importanza, esaltati e valorizzati giuridicamente, già a partire da fine ‘800 e inizio ‘900, le leggi del  1939, la numero 1089 e 1497. L’articolo 734 del codice penale del 1930, già proteggeva in linea generale le bellezze naturali, il bene ambientale e culturale. Attraverso la costruzione dell’impianto normativo dedicato dalla legge c.d. Galasso, n. 431/1985, alla protezione, tutela, valorizzazione e salvaguardia del beni paesaggistici-ambientali pregiati, fasce costiere marittime, lacuali e fluviali, furono rese inedificabili molti ambiti territoriali vulnerabili alla cementificazione selvaggia. 

Con successivi decreti ministeriali venivano protetti e salvaguardati, il panorama quale quadro naturale dell’esistente ambientale, il paesaggio culturale, inteso quale elemento più espressivo dell’azione umana, valorizzante degli spazi della naturale bellezza riservati agli esseri viventi umani e animali. Inoltre, il verde naturale dell’ambiente forestale e boschivo, agricolo, le risorse idriche sorgive e sotterranee, le acque del mare, i fiumi e i laghi, in una espressione comprensibile per il lettore, “il creato divino”, attraverso il quale si rende visibile al mondo l’ambiente naturale.  

Gli esseri umani e gli altri esseri animali, comprese le risorse ittiche e biologiche marine,  hanno trovato vita e riparo dagli eventi dannosi e pericolosi  per la loro esistenza, hanno ricevuto dall”essere umano prima, la naturale e consuetudinaria protezione, poi dal legislatore la adeguata protezione e valorizzazione giuridica, attraverso regimi vincolistici di inedificabilità assoluta o relativa, di usi agricoli, forestali e boschivi regolamentati da piani di riserva integrali, l’istituzione di parchi nazionali e regionali, giardini storici, ville storiche, paesaggi urbani, aree marine protette, riserve naturali e tanto altro ancora che dir si voglia. Il bello naturale e il paesaggio culturale della Regione Calabria, ha un valore economico immenso, quantificabile in valore economico e finanziario, in ragione degli innumerevoli  usi consentiti dalla legge e regolamenti in vigore.

Leggete gli articoli 3, 9, 32, 41, 116 e 117 della Costituzione della Repubblica Italiana, se volete conoscere e comprendere quanto siano importanti  i valori ambiente, biodiversità, e gli ecostistemi a difesa delle generazioni presenti e future. Agli animali in Calabria viene riservata una forma di protezione speciale e cura particolare, che riflette culture millenarie.

Appare evidente che esistono in natura beni ambientali denominati pubblici, demaniali e patrimoniali, in ragione delle caratteristiche  e della loro prevista destinazione d’uso, estesa in generale alla fruibilità a titolo gratuito e libero a tutti i cittadini residenti e a titolo oneroso, a richiesta di quei consociati che intendono valorizzare e rendere riservata la presenza di persone  nelle aree e spazi dei beni pubblici. Basti pensare la fruibilità gratuita delle spiagge e altri beni appartenenti al pubblico demanio marittimo, mentre l’uso eccezionale in regime di Concessione demaniale marittima (stabilimenti balneari, strutture ricettive, esercizi commerciali aperti al pubblico, impianti sportivi, piscine e altri usi consentì) sono assoggettati a un pagamento di un previsto canone, c.d. demaniale marittimo, variabile negli importi a seconda della loro estensione in metri quadrati che si intende occupare, delle diverse utilizzazioni e destinazioni d’uso autorizzate attraverso gli atti amministrativi necessari.

Una svolta decisiva è arrivata con la legge 8 luglio 1986, n. 349, istituzione del Ministero dell’Ambiente e norme in materia di danno ambientale, l’art. 18 prevede e disciplina della risarcibilità del danno ambientale quale danno all’erario, inteso come danno pubblico. Danneggiare l’ambiente e le bellezze naturali in uno con il valore intrinseco del paesaggio culturale, equivale a danneggiare un bene dello Stato. Quindi, qualunque fatto dannoso che arrechi un affievolimento del valore economico del bene ambiente, obbliga l’autore del fatto al risarcimento economico-finanziario del danno causato.

Il territorio, i fiumi, i laghi, le fiumare, il mare, le coste, le spiagge, le foreste, i boschi, i parchi e giardini storici, i borghi, i monumenti i musei, le migliaia e migliaia di chiese cattoliche ed altri edifici religiosi e di culto, il patrimonio agricolo unico al mondo rappresentato dalla coltura del Bergamotto di Reggio Calabria, vero oro e profumo millenario della Calabria, insieme al cedro, mandarini e arance  e delle uve pregiate della nostra amata terra di Calabria, sono riserve auree, equiparabili alle miniere di oro, argento e diamanti. Quanto pensate possa valere il bello, la gioia e la felicità, nel camminare liberi tra le bellezze naturali incontaminate e respirare aria purissima delle foreste e boschi presenti nei tre Parchi Nazionali del Pollino, della Sila e dell’Aspromonte, e Regionale delle Serre ammirando le acque a cascata che dalle alture precipitano a valle  in continui strapiombi creando armonie incantevoli?  

Chi non conosce il bello naturale e il paesaggio culturale della nostra amatissima e bellissima  terra e mare di Calabria, non riesce a immaginare quanta sia grande il valore economico e ambientale di una Regione unica al mondo chiamata Calabria e ancora prima nell’antichità  “Italia”. Lo sapevate? (ee)

(Emilio Errigo è nato a Reggio di Calabria, studioso di diritto internazionale dell’ambiente e docente universitario di Diritto Internazionale e del Mare, e di Management delle Attività Portuali presso l’Università  degli Studi della Tuscia (VT)