di FRANCO CIMINO – «Sei andato al Politeama stasera?».
«Sì, ci sono andato. Non manco mai, stasera poi non vi avrei rinunciato neppure morto».
«Hai visto Apuleio?»
«Apuleio chi?»
«Apuleio! Era con Lucio, ha rappresentato la sua Metamorfosi».
«Ma quale Apuleio e quale Lucio? E cos’è questa metamorfosi».
«Ma l’ha detto la Santacroce. È nel suo Festival d’Autunno!».
Ma quale Santacroce e quale autunno e quale festival! E quale Apuleio, o Lucio, come lo chiami tu. Io stasera ho visto solo un grande uomo sul palcoscenico. Per lui sono andato e di lui mi sono deliziato.
È entrato in scena dal buio, una valigia di cartone e due robe di pezza addosso, capelli folti lunghi e bianchi e quello sguardo di eterno bambino che ha conosciuto il mondo e con quella voce melodiosa te lo vuole raccontare. Settanta minuti di dominio assoluto, non di monologo, si badi, ma di dominanza del palco e della platea sulla quale ha incollato quel suo sguardo profondo e ipnotizzante.
Infatti, il suo non è stato un monologo anche per quella sua capacità di far parlare insieme più personaggi e un asino, che a sua volta parla con sé stesso e con gli altri. E ammonisce, attraverso la metamorfosi subita, a non farsi dominare dalle passioni e dal principio di forza. Passioni e forza fisica, che annullano la ragione e lo spirito, e l’anima schiavizzano. Ma che, invece, sono le energie vitali che portano l’uomo a percorrere le fasi diverse della vita, fino a quella maturità che è sede di sapienza e coscienza.
Una lezione di diciotto secoli fa che si rivela oggi come la più attuale. Attuale, perché sullo scenario planetario e sulla collettivizzazione delle emozioni, stasera viene portato alla ribalta la necessità di una “metamorfosi” profonda che cambi l’uomo, nella sua individualità, dall’interno. Perché, probabilmente. è solo questa “ metamorfosi-rinnovamento” che può cambiare il mondo e fermarlo in tempo prima che definitivamente rovini. Stasera ho visto tutto questo attraverso la fatica di un gigante.
Un vero gigante. Del teatro. Un artista autentico. Uomo di spettacolo straordinario. Che spettacolo farebbe anche senza un testo molto bello come quello che dalle mani dell’antico autore, al Politeama, è passato alle sue, diventando un racconto snello e veloce nei passaggi da una situazione a un’altra, da un personaggio a un altro, dall’asino alla persona e viceversa.
Francesco Colella è questa grandezza. Lui, a me personalmente, ricorda l’indimenticabile Pino Michienzi, personalità artistica completa e versatile, capace di fare, come Francesco, spettacolo anche leggendo il menù di una trattoria o l’elenco telefonico di una volta. Stasera, il “grand’attore”, è stato un autentico mattatore, lo spettacolo nello spettacolo. Lui Apuleio e Colella. Lui Teatro e letteratura. Lui la commedia e la novella.
L’ironia e la drammaturgia. Poesia e filosofia. A Francesco riesce tutto questo perché è teatrante nato. Perché se non avesse fatto l’attore avrebbe fatto l’attore. Se non avesse fatto teatro, si sarebbe trasformato in una tavola del palcoscenico. Francesco è un attore colto, perché ha studiato e studia. Ama la parola e la parola conosce. Conosce le parole e tante ne dice in quel meccanismo dell’affabulazione che solo i grandissimi, come Vittorio Gassman, possedevano.
E con la quale facevano teatro senza il Teatro. Rappresentazione scenica senza un testo organico e organizzato. L’attore e le sua parole, spesso improvvisate. Solo le luci sul volto. E la magia si muove fino all’ultimo posto in sala.Tutto questo è Francesco. O meglio anche questo è Francesco. Perché in lui c’è di più. È catanzarese fino al midollo, orgoglioso di esserlo, in quella sua catanzaresità che commuove per la fanciullezza che si porta dietro, con i vicoli e le scuole, il cortile e i campetti di pallone, le ginocchia sbucciate e le liti tra amici. E quella ragazza lì che non si è accorta del nostro amore segreto. E quell’amico che ce l’ha rubata senza conoscere il nostro mai svelato. Quella catanzaresità che è il dialetto e il Morzeddru. È i Coculi. La Grecia. Lo stadio. La sua curva e la piazzetta antistante, sempre vuota se non è domenica delle partite in casa.
È Marina, il porto che non c’è ancora e le pinete che dominavano il territorio. Gli studenti che, marinata la scuola, e asciutti del corteggiamento non riuscito, aspettavano, nelle lunghe mattinate di sole, i “marinari” che tornavano, spesso a reti vuote. O i vecchi del mare non più “ navigato, che, con le mani ruvide e gli occhi della nostalgia, sulla spiagge riparavano “a rizza”, come le nonne di allora facevano con gli abiti sdruciti dei bambini e le camicie con collo e polsini consumati dei nostri padri. Catanzaresità, che è memoria della Città, nostalgia, rimpianto anche, sogno che ritorna e speranza che combatte la rabbia e il senso di abbandono.
Catanzaresità, che è amore vero. Quello per i figli, per il luogo, per gli amici, per i giallorossi, per le nostre estati. L’amore per la propria donna o il proprio uomo. Amore per gli ideali vissuti e nuovamente accesi. È amore del figlio per il padre e per la madre. Un amore grato. E, perciò, doppiamente infinito. Francesco Colella, il ragazzo buono e umile, generoso e profondo, è grande anche di questo. E stasera lo ha nuovamente dimostrato.
La metamorfosi, che ci trasmette come sollecitazione, è quella di cambiare dal profondo, per tornare, o diventare, catanzaresi veri, uomini e donne che amano la Città. Tutti i giorni. E la servono anche da un posto lontano. Perché Catanzaro non è un punto geografico.
È l’anima del nostro mondo. Grazie Francesco. Resta bello, come sei. (fc)