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La fotografa Paula Jesus a Cosenza

La fotografa Paula Jesus a Cosenza

di MARIACHIARA MONACO – Un bambino che a bassa voce dice di esser solo, mi mostra le ferite e confessa di avere fame: tutto davanti ad un centro migranti finanziato dall’Ue. Cosa si può dire a un minore a cui è stata rubata l’infanzia?».

Inizia così il racconto di Paula Jesus, fotografa e documentarista, che a Cosenza presso il museo dei Brettii e degli Enotri, ha presentato uno dei suoi lavori, intitolato: “Rotta Balcanica e Pakistan: reportage dall’interno”.

Si tratta di un racconto intriso d’immagini e di testimonianze di persone che cercano rifugio e opportunità attraverso il mare, e di altre di cui si parla poco, che si affidano a vie terrestri altrettanto rischiose. Questi percorsi sono spesso costellati di ostacoli e pericoli , e chi li percorre affronta sfide significative. Perché  la migrazione via mare nel Mediterraneo è solo una parte della complessa rete di rotte migratorie che attraversano il continente europeo. La Rotta Balcanica, raccontata e percorsa dalla documentarista, merita attenzione e analisi, poiché continua ad essere uno dei principali corridoi di ingresso nell’Unione Europea. Solitamente i migranti partono dalla Macedonia del Nord per poi transitare tra i numerosi paesi della penisola balcanica, tra cui Serbia, Ungheria, Bosnia-Erzegovina e Croazia. Le persone in transito provengono principalmente dal Pakistan, dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Turchia (Kurdistan), dall’India e dalla Siria.

Il viaggio verso l’Europa costa tra i 10 e i 15 mila euro a persona, senza garanzie: «Ma adulti e bambini hanno fame di vita e sono disposti ad attraversare il mondo scalzi e mangiare cibo per cani pur di riuscirci».

La reporter parte dall’ex stazione ferroviaria di Belgrado, il suo è un racconto al presente, come se fisicamente si trovasse ancora lì: «Su indicazione di due clochard, trovo una stanza che sembra una camera degli orrori. È agosto, il caldo fa fermentare l’odore di escrementi. Qui le persone dormono, mangiano e trovano riparo dalle minacce, i migranti sono facilmente individuabili: zaino, busta di plastica, ciabatte o scarpe consumate. Il volto è duro, spesso assente».

Paula narra di aver  incontrato un ragazzo e di avergli chiesto il nome: «Lui istintivamente alza le braccia e dice: Afghanistan».

Poi riflette: «Queste persone non hanno più quotidianità né amici, solo persone a cui si affiancano per superare confini e momenti critici». Arrivata al campo di Obrenovac ricorda di aver incrociato sguardo assente di molti minori soli, tra cui un bambino che le confessa di aver fame: «Avrei voluto potermi prendere cura di lui. È doloroso sentirsi inutili».

Un racconto ampio, pieno di particolari è stato anche quello riguardante la proiezione del mediometraggio “BluBlu”, prodotto da AOLE ASD e ideato con l’obiettivo di sensibilizzare la società sul tema della disabilità e mostrare attraverso delle singole biografie la possibilità di tradurre la difficoltà in nuove forme di risorsa, dove gli ostacoli diventano obiettivi e i limiti un punto di partenza. Per l’occasione è stata allestita la mostra fotografica, dal titolo “Sit- Down Babies”, dove la diversità viene intesa come la singolarità di ognuno, e viene sempre prima di ogni categorizzazione: “disabile”, “immigrato”, “omosessuale” e via dicendo. Non si vedono delle categorie, ma persone con dei nomi e dei tratti distintivi. Come Annalea, di 1 anno, rappresenta di spalle, oppure Giulio, 8 anni, o Arianna di 6.

E, se la società spinge a definire la diversità come ciò che rimane escluso perché le sue note caratterizzanti sono in contrasto da quelle definite normali, “Sit-Down Babies” vuole far vedere come questi bambini e bambine sono diversi tra loro, pur appartenendo e condividendo la stessa sindrome, ma anche caratteristiche uniche ed ineguagliabili, punti di forza e aspettative di crescita personali. (mm)