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L’omaggio di Atene, capitale della cultura, al poeta Corrado Calabrò

17 ottobre 2018 = C’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia, oggi? Il quesito è stato alla base dell’evento celebrativo in onore del poeta e giurista reggino Corrado Calabrò ieri ad Atene, promosso dal Comitato della capitale greca della Società Dante Alighieri. Una serata all’insegna della cultura, di cui Atene è capitale indiscussa, ma anche della poesia, nell’ambito della Settimana della lingua italiana nel mondo. Il prof. Calabrò, uno dei più insigni figli della Calabria che vale, ha risposto egregiamente alla domanda, con una conversazione che ha affascinato il numerosissimo pubblico presente all’Istituto Italiano di Cultura di Atene. La successiva recitazione di alcune liriche, in italiano da parte dello stesso poeta, e in greco, a cura della dottoressa Anthi Nikas, ha confermato l’emozione che i versi di Calabrò sono sempre in grado di suscitare a qualsiasi latitudine.


Corrado Calabrò, fine giurista, uomo delle istituzioni, figura eccelsa di magistrato, con l’orgoglio di una Calabria mai dimenticata e sempre presente nel cuore, ha un animo poetico inusuale per un contemporaneo: nello spirito del classico riesce a plasmare la parola-verso e rivestirla, di volta in volta, di mille significati, nel segno dell’amore e della passionalità, ma anche lungo percorsi evocativi straordinariamente attuali. Il mare, l’amore di donna, lo struggimento per la terra lontana, il senso di appartenenza che avvolge ogni lirica dedicata alla Calabria, sono stimoli di sentimento che non è facile scansare. Durante il suo intervento il prof. Calabrò ha saputo ripercorrere con gli occhi dell’uomo di oggi le tracce magno-greche delle comuni origini: Grecia e Italia hanno un legame indissolubile, puntualmente ribadito e rafforzato da iniziative culturali di interscambio come questa di Atene.
«Il bisogno della poesia – ha detto il prof. Calabrò – nasce dalla scontentezza della banalità dell’espressione, dell’inadeguatezza della comunicazione. In un’epoca contrassegnata dalla sovrabbondanza di parole, constatiamo l’insufficienza del linguaggio. La poesia è un interruttore, un commutatore di banda, che fa sì che appaia sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere».
Non poteva, ovviamente, il prof. Calabrò non citare i Bronzi di Riace. «Ho costeggiato  – ha detto – per anni a nuoto, da adolescente e nella prima giovinezza, estate dopo estate, le spiagge di Riace, in Calabria, senza sospettare minimamente che sotto pochi metri d’acqua – quell’acqua che portavo a me una bracciata dopo l’altra – ci fosse un’altra presenza, sdraiata su un letto di sabbia. Dopo averli cullati per millenni nel suo liquido oblio, il mare ci ha offerto – ha offerto a noi – i guerrieri di bronzo, alzatisi in piedi ai nostri giorni come se soltanto adesso, soltanto per noi, prendessero forma dall’inconscio dell’artista. Corpi perfetti, di contemporanei, ma con gli occhi di chi non ha più fretta. Di chi sono i guerrieri di Riace? Di Fidia, di Lisippo, di un Pitagora reggino, d’ignoto scultore? Come il mare, così l’arte, la poesia non sono nostre o di un altro. Una poesia, una composizione musicale, una statua, un quadro non appartengono all’autore più di quanto non appartengano al lettore, all’ascoltatore, al contemplatore che, entrando in sintonia, li faccia rivivere dentro di sé».


La serata è stata introdotta dalla nuova Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Atene, Signora Anna Mondavio, quindi sono intervenuti l’Ambasciatore d’Italia in Grecia, Efisio Luigi Marras e il Presidente del Comitato greco della Dante Alighieri Giuseppe De Luca. Al termine della bella serata è stato consegnato un attestato di benemerenza, conferito direttamente dal Presidente della sede centrale della Società Dante Alighieri, on. Andrea Riccardi, all’Ambasciatore Marras e al professor Calabrò. (rrm)

L’ambasciatore d’Italia ad Atene Efisio Luigi Marras (a sx)
Il prof. Corrado Calabrò e Anthi Nikas che ha recitato in greco le sue liriche

 

 

 

Anna Mondavio, nuovo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Atene

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il testo integrale dell’intervento del prof. Calabrò all’Istituto Italiano di Cultura di Atene:

C’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia, oggi?

  1. Nella mia infanzia e nella mia prima adolescenza ho vissuto una doppia vita. D’inverno studio, orari da rispettare.
    L’estate, l’estate era un’altra cosa. Vivevo, nelle lunghe estati, in una casetta ai bordi della spiaggia a Bocale, a 15 chilometri da Reggio Calabria.
    Da giugno a ottobre vivevo in quella casetta, dalla soglia sempre insabbiata per le onde lunghe che in autunno giungevano a lambirla.
    Certi pomeriggi, seduto sulla spiaggia, stringendo le ginocchia tra le mani, seguivo con lo sguardo le navi che s’allontanavano piano piano nello Stretto verso oriente rimpicciolendo sempre più fino a venire ingoiate nella distesa liquida.
    Fu lì, fu allora che provai per la prima volta l’impulso a poetare.
    Quel mondo venne spazzato via quando avevo sedici anni.
    Nelle estati successive scoprii le grandi spiagge sabbiose e il mare caldo di Locri, di Gioiosa, di Riace, dove avevo dei parenti.
    Quel mare, quando ormai non ci andavo più, mi avrebbe riservato una sorpresa.
    Ma anche la Grecia ha lasciato un segno profondo nella mia poesia: in particolare “Il Vento di Myconos”, un poemetto di 480 versi, è dedicato alle isole Cicladi. E non è l’unica.
  1. Viviamo in un tempo in cui si parla tanto: al telefono, via sms, whatsapp, e-mail, in televisione. Telefonini, radio, televisione, computer hanno determinato un nuovo rapporto tra noi e il “mondo”.
    La TV ha abituato la gente a parlare fluentemente; e non è merito da poco. Ma con la TV e con la rete ci siamo abituati ad appagarci di una visione banale del nostro essere nel mondo. Per la quotidianità ciò è sufficiente. Ma al fondo del nostro animo si annida l’insoddisfazione. Noi sappiamo che l’apparenza superficiale non è tutto. Noi vediamo (con i nostri occhi e con tutti gli strumenti tecnologici di rilevazione) solo una minima parte della realtà e solo alcune delle molteplici dimensioni in cui essa è strutturata.
    Noi tocchiamo solidi e liquidi, vediamo colori, sentiamo suoni, odori, sapori: in realtà esistono soltanto vibrazioni, onde con diversa frequenza e lunghezza, particelle con funzioni d’onda. Viviamo, in certo senso, in un mondo soltanto simulato, metamorfizzato.
    I nostri sono tempi di pensiero debole, di destrutturazione della conoscenza.
    Oggi l’insicurezza, il senso di precarietà, ci fanno sentire in balia della casualità.
    È andato così smarrito il senso profondo dell’arte, della poesia; e con esso la capacità stessa di percepirlo. La poesia è stata relegata al mondo del divertimento intellettuale, del relax, del solletico, dell’intrattenimento, del desiderio di apparire originali, all’avanguardia, alla moda; e la moda cambia ogni stagione.
    Smarrita l’impressività, l’icasticità di Omero, dei lirici, degli epici e dei tragici greci, dei forgiatori della parola come Dante e Shakespeare, la poesia, l’arte vivono la vita effimera di una moda vorace che le consuma vorticosamente senza che ne resti traccia, come avviene dei giornali che appunto durano un giorno, o delle migliaia di notizie che scorrono ininterrottamente sul video dei nostri terminali.
    “Nelle scienze si cerca di dire in un modo che sia capito da tutti qualcosa che nessuno sapeva. Nella poesia è esattamente l’opposto” osservava sarcasticamente Paul Dirac.
    Ma non è così; la poesia non è mistificazione. La poesia cerca di dire in modo indiretto, allusivo, ma non finto, quello che attinge all’inesplicabile voce dell’inconscio, per aiutarci così a disvelare la suggestione dell’essere, dell’altro noi stessi che è in noi.
    Il bisogno della poesia nasce dalla scontentezza della banalità dell’espressione, dell’inadeguatezza della comunicazione. In un’epoca contrassegnata dalla sovrabbondanza di parole, constatiamo l’insufficienza del linguaggio.
    Per Blanchot “scrivere è portare in superficie il senso assente” e Emily Dickinson affermava che “il poeta è colui che distilla un senso sorprendente da ordinari significati”. Il senso si promette alla poesia come la presenza rimandata di un’assenza.
    La poesia è un interruttore, un commutatore di banda, che fa sì che appaia sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere. Come quando sul teleschermo grigio ballonzola un pullulare di puntini; premendo il tasto giusto, il televisore si sintonizza e un’immagine appare. Un trasalimento dell’anima che sposta un po’ più in là il nostro orizzonte mentale, o così ci piace credere.
  1. Funzione della poesia è rivelarci –foss’anche nella cosa più insignificante- un aspetto non percepito. Ci rivela di più Neruda con la sua poesia sulla cipolla che molte dissertazioni sociopolitiche, e anche religiose.
    La poesia asporta la cateratta dell’abitudinarietà: un intervento oculistico di chirurgia estetica che ci apre gli occhi.
    Non sono solo la realtà nascosta dell’universo e il substrato fine della realtà in cui siamo immersi, che ci sfuggono. Ci sfuggono i fondamenti stessi della nostra esistenza.
    Notava Rainer Maria Rilke nella sua Lettera a una giovane signora: “Com’è possibile vivere, se non possiamo affatto penetrare gli elementi di questa vita? Io non sono riuscito a esprimere tutto il mio stupore che gli uomini da millenni abbiano consuetudine con l’amore, con la vita, con la morte e stiano ancor oggi così sprovveduti di fronte a questi primi, unici compiti”.
    Ecco, il poeta si porta dentro questo stupore.
    Forse la vita è solo una “piroetta nel vuoto” (Cioran), ma più la realtà ci sfugge, più sentiamo il bisogno di preservare l’unicità del nostro vissuto, la suggestione di un’alba sul mare, l’emozione del primo amore, il dolore per la morte del nostro cane, il rimorso per un abbandono.
    C’è poi la vita non vissuta che si protende e si sovrappone a quella (che crediamo) vissuta.
    Tuttavia in poesia non c’è possibilità di rappresentazione diretta.
    Niels Bohr osservava che “quando si pensa ad un’emozione, questa scompare”. L’emozione, quindi, è il punto di partenza, non d’arrivo. Un punto di partenza, per di più, che bisogna dimenticare nella memoria volontaria perché riaffiori, metastatizzato, nella memoria involontaria; quella che ci riporta il senso ritrovato del tempo perduto, con la madelaine di Proust.
    La poesia è un dono, un talento innato, un’attitudine, ma per dare frutti ha bisogno di sapiente coltivazione. Poi, però, il poeta deve chiudere gli occhi per “vedersi” dentro senza guardarsi.
    La poesia trascorre come un’ala; per catturarla al volo occorre una tecnica raffinata.  Forma e contenuto sono un tutt’uno. Non si può cogliere il senso di una visione poetica separato dal suo modo d’esprimersi, di significarsi, come non si può cogliere una palla al volo in un attimo diverso da quello del suo impatto e se non con quell’atteggiamento dinamico di tutto il corpo, con quella giusta torsione del piede (quella e quella sola) che indirizzi la palla in modo appropriato, tale da cambiare la situazione in campo. Non c’è tempo per pensare in quel momento: bisogna fare in un attimo la cosa giusta.
    Il poeta deve allenarsi, fare laboratorio e ricerca, deve esercitarsi, così come il calciatore si allena, fa preparazione fisica, palleggia, in attesa di giocare la sua partita.E tuttavia dopo tanto allenamento, dopo la più applicata preparazione, può darsi poi che, nella partita, nel momento della verità, il calciatore dotato di grande tecnica, di colpo d’occhio, in perfetta forma fisica,  non faccia un tiro in porta o un assist degni di questo nome.
    Il lungo lavoro di sperimentazione, di esercizio, serve semplicemente per essere pronti in quell’attimo, in quella fase che è stata definita d’avantesto, cioè la fase di gestazione del testo, in cui ci troviamo in uno stato d’attesa, d’incubazione di qualcosa che preme oscuramente a livello subliminale; preme per prendere forma. Accade quando accade, se accade.
    Parafrasando Jules Renard, possiamo dire che nella casa della poesia la stanza più grande è la camera d’attesa.
  2. Una poesia senza messaggio è fatua, derisoria e al tempo stesso pretenziosa fino alla megalomania, come l’imperatore della fiaba di Andersen che se ne andava in corteo in mutande a farsi riverire e ammirare dai suoi sudditi, convinto di essere rivestito sontuosamente di un abito visibile solo dagli intelligenti.
    Attenzione, però! La poesia non tollera un messaggio voluto. La comunicazione poetica è intuitiva, non discorsiva, non concettuale.
    È come un dribbling, un colpo di tacco, un’azione fulminante, una rovesciata che il calciatore non sapeva di avere nel proprio repertorio e che credeva non potessero più arrivare e che, pure, hanno portato al goal.
  1. L’amore è forse la principale porta della poesia.
    L’amore rompe la scorza del nostro ego, ci spinge a uscire dall’incomunicabilità e, al tempo stesso, nel momento cioè in cui avvertiamo un’immagine nuova di bellezza – un’immagine che vediamo noi soli-, ci spinge ad usare un’espressione inedita, tutta nostra, forse indicibile, per esprimerla. Ci spinge, quindi, alla creatività. E’ talmente forte la spinta dell’amore che, dopo aver cercato di fare di noi carne e anima dell’altro-da-sé e dell’altro carne e anima nostra, ci induce all’oltre da entrambi noi stessi.
    Cosa ci spinge ad innamorarci?
    Se la nostra individualità ci bastasse non ci innamoreremmo.
    Se la vita ci bastasse non si farebbe poesia (possiamo dire, arieggiando Pessoa).
    In amore, come in poesia, a spingerci è il bisogno della parte mancante al senso-non senso della nostra vita.
    È il mistero dell’altro-da-sé col quale vogliamo immedesimarci.
    Ma come viene a visitarci la poesia?
    «Il primo verso è sempre un dono degli dèi» testimonia Paul Valéry, che pure era un raziocinante, non certo un romantico.
    Accade come in amore. Quanti ragazzi hanno guardato quella ragazza senza vedere in lei nulla di più delle altre? Poi un ragazzo s’innamora e vede in lei una bellezza che nessun altro ha visto.
    La poesia, l’arte fanno lo stesso. Ci rivelano una bellezza che era sotto pelle e che avevamo guardato senza vedere: per trasparire abbisognava dell’asportazione della cateratta dell’abitudinarietà: un intervento oculistico di chirurgia estetica che ci apre gli occhi. È come il fiammifero di Prévert. Ricordate quella poesia di Prévert, Tre fiammiferi accesi nella notte? Un innamorato, al buio su un ponte sulla Senna, accende tre fiammiferi: uno per vedere gli occhi, uno per vedere la bocca, un terzo per vedere il volto tutto intero della sua ragazza.
    In quel momento in cui si accende, in cui scatta il flash, siamo tutti poeti, dentro di noi. Ma è poeta solo chi riesce a far intravedere agli altri quel flash di bellezza che l’ha abbagliato.
  2. Ma come comunica la poesia? È qui il punto.
    È dal non detto che scaturisce l’evocazione.
    Eran las cinco en punto de le tarde”. Erano le cinque in punto della sera. Erano le cinque a tutti gli orologi. Ventisette volte Garcia Lorca ripete “A las cinco de la tarde”, alle cinque della sera nel suo Llanto por Ignacio Sánchez.
    Non lo fa certo per dirci l’ora.  Niente, come quella ripetizione, quell’insistenza sull’ora segnata dalle lancette dell’orologio in quel momento ci fa sentire come la vita (una giovane vita) possa essere stroncata in un istante: le lancette dell’orologio, per Ignacio, si sono fermate e, per lui, l’esistenza del mondo (non solo sua) è venuta meno per sempre quando Atropo ha tagliato il filo.
    La necessità della modulazione del verso: è questa un’altra cosa che i classici ci hanno insegnato.
    La metrica sta al verso come il battito cardiaco sta al respiro: dà alla poesia la misura della nostra attenzione.
    Cosa ci rivela la poesia?
    La poesia è come un sogno che dica e non dica, ma che (come certi sogni in prossimità del risveglio) ci lasci l’impressione di una rivelazione imminente. Rivelazione di che cosa? Per essere percepite, la poesia, l’arte, devono suscitare empatia, cioè il piacere di condividere come proprio il messaggio dell’autore.
    Nel momento in cui questo avviene, la poesia, l’arte, consentono uno scambio profondo, un’interazione di personalità simile a quella che si realizza tra due innamorati i quali si compenetrano. Mittente e destinatario, sconosciuti l’uno all’altro, sono qui, adesso, compresenti – magari a distanza di secoli – in un’interazione che estrinseca l’uno e interiorizza l’altro.
  3. Ho costeggiato per anni a nuoto, da adolescente e nella prima giovinezza, estate dopo estate, le spiagge di Riace, in Calabria, senza sospettare minimamente che sotto pochi metri d’acqua – quell’acqua che portavo a me una bracciata dopo l’altra – ci fosse un’altra presenza, sdraiata su un letto di sabbia. Dopo averli cullati per millenni nel suo liquido oblio, il mare ci ha offerto – ha offerto a noi – i guerrieri di bronzo, alzatisi in piedi ai nostri giorni come se soltanto adesso, soltanto per noi, prendessero forma dall’inconscio dell’artista. Corpi perfetti, di contemporanei, ma con gli occhi di chi non ha più fretta.
    Di chi sono i guerrieri di Riace? Di Fidia, di Lisippo, di un Pitagora reggino, d’ignoto scultore?
    Come il mare, così l’arte, la poesia non sono nostre o di un altro. Una poesia, una composizione musicale, una statua, un quadro non appartengono all’autore più di quanto non appartengano al lettore, all’ascoltatore, al contemplatore che, entrando in sintonia (in sumpάqeia, dicevano i greci), li faccia rivivere dentro di sé.
    Quando questo avviene, allora si realizza un piccolo miracolo: poeta e lettore, musicista e ascoltatore, pittore e contemplatore sono un tutt’uno per il tratto di tempo in cui entrano in risonanza. Lo scultore che, millenni or sono, scolpiva i suoi guerrieri di Riace e noi che per un dono del mare li sfioriamo oggi con gli occhi e con le dita, siamo contemporanei. Beethoven, che quasi due secoli fa scriveva le ultime note su uno spartito, e noi che siamo oggi pervasi dalla sua musica siamo contemporanei.
    Ecco, è tutto qui. È questo, questo nonnulla che fa l’arte, che fa la poesia.  (Corrado Calabrò)

 

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Nella foto di copertina, il prof. Corrado Calabrò ad Atene con la poetessa Fabia Baldi