Lega e Movimento 5 sono al bivio finale: o si sintonizzano con la velocità del presidente del Consiglio o si va tutti a casa e si vota a giugno per le politiche (oltre che per le amministrative e i referendum). C’è un però non secondario che vorremmo mettere in luce in questo articolo e cioè che Mario Draghi a sua volta deve persuaderli senza sfidarli, o il Parlamento affosserà qualsiasi tentativo di riforma. Non è una notazione da poco.
La sensazione dopo queste ultime convulse settimane di febbraio è, infatti, quella della tempesta, anche se tutti sanno che in politica gli esami non finiscono mai.
Perché sono i dati strutturali della situazione a dire che l’equilibrio politico viaggia sempre sul filo sottile tenuto su dal protagonismo del Presidente del Consiglio. Fino a che il sistema politico non si sarà dato un nuovo assetto, anche mediante una nuova legge elettorale si spera e si auspica proporzionale in grado di ridare un po’ di linfa vitale ai partiti e poi con l’esito delle elezioni del prossimo anno (molto meno certe però di quanto potesse essere a fine 2021), non ne usciremo vivi.
La verità è che i problemi reali (Ucraina, carovita, bollette, lavoro che non c’è, sanità disperata nel sud e non solo, etc) incalzano con molta più velocità delle riforme istituzionali: ecco perché la politica arranca sempre con il fiatone ed ecco perché i leader dei partiti appaiono fuori fase. Parlano di una cosa ma quella cosa è già cambiata.
Il problema che si è posto in queste settimane dopo il Mattarella bis è che il presidente del Consiglio e i partiti (diciamo meglio, alcuni partiti: soprattutto Lega e Movimento 5 stelle) corrono a velocità diversa, spesso non si capiscono: più spesso Matteo Salvini e Giuseppe Conte fanno finta di non capire e giocano di sponda tra loro.
Ora, è senz’altro vero che tocca a tutti i partiti della maggioranza, se davvero vogliono arrivare alla fine della legislatura, sintonizzarsi con Draghi, ma c’è un punto che pochi hanno messo in luce (tranne qualche osservatore come Lavia) e che invece è altrettanto centrale: non è cioè meno vero che il presidente del Consiglio sbaglierebbe se si infastidisse di ogni scelta dei partiti essendo invece chiamato a persuaderli e dirigerli, puntando a ottenerne il consenso senza alcun sapore di sfida.
La lezione del Mattarella bis è infatti una sola e non va mai dimenticata, nemmeno da Draghi: tenere conto che al Parlamento spetta sempre l’ultima parola (altrimenti non lamentiamoci poi se è ridotto a un mercato di cambiacasacche senza fine che votano a seconda delle loro convenienze personali) e dunque se capita di andare sotto in una commissione parlamentare questo è un problema ma non è una tragedia. Lo diventa se passa un emendamento sulle questioni sanitarie in era COVID – e per fortuna non è passato – che ha aperto un’altra autostrada di polemiche.
Il Presidente del Consiglio e tutta la sua corte di ministre, ministri etc etc hanno perciò un compito politico, tutto politico direi, che dei tecnici potrebbero respingere, mandando tutto a carte quarantotto (del tipo: noi ora ci siamo seccati e fatevelo voi un governo). Ma dal Mattarella bis in poi non possono più permetterselo. Già 13 mesi fa Draghi si era assunto un onere pesante e lo ha portato più o meno a termine. Ora ne ha un altro, forse più gravoso: fare politica per altri 13 mesi con questi partiti e con questo Parlamento. La spugna non può proprio buttarla, difronte agli scenari internazionali e interni sempre più burrascosi. (fv)