di RAFFAELE MALITO – Sergio Dragone, compagno di chi scrive, dell’avventura-sogno, nei primi anni’70, de Il Giornale di Calabria, il primo quotidiano stampato nella nostra regione, ha posto su Calabria.Live la grande questione del ruolo e delle scelte degli intellettuali calabresi in questi giorni di stucchevole, poco edificante campagna elettorale per la Regione. E pone una cruciale domanda, dolorosa per chi è appartenuto o fa ancora parte, della sinistra: perché gli intellettuali, veri e no, hanno scelto di sostenere un personaggio fantasmagorico, alla ricerca del Santo Graal della palingenesi politica, sociale, economica e, soprattutto etica, come si conviene per un rivoluzionario giudiziario come Luigi De Magistris, autore, come magistrato, di clamorosi flop accusatori e già fallimentare sindaco di Napoli? Che cosa ha rotto il legame che un tempo univa il ceto degli intellettuali- pensatori ai partiti della sinistra, che, poi era, per chi non è stato comunista, e successive variazioni (Pds, Ds, Pd) una inconfessata, reciproca utilizzazione e scambio di vantaggi: lustro per le liste elettorali, carte di credito per il futuro nei diversi centri del potere dei saperi,( università, editoria, pensatoi veri o no, gestione di grandi gruppi economici e finanziari)?
Lo ha spiegato, con durissimi accenti, uno dei più autorevoli – sic! – intellettuali che hanno scelto di sostenere la rivoluzione di De Magistris: “il Pd e le destre, sono, indistintamente (evviva le scelte!) non più partiti, ma aggregati di potere, gruppi, clientelari portatori di pacchetti di voti, la cui azione si traduce, di legislatura in legislatura, nella continua mediazione per soddisfare le richieste eterogenee e particolari di tali raggruppamenti. Con i risultati, sulle condizioni della regione storicamente constatabili da tutti.”
Una sentenza definitiva, questa del professor Bevilacqua, che sarebbe una condanna a morte, senza alcuna via di uscita per la Calabria se, lo si deduce dalle scelte conseguenti, non ci fosse la palingenetica rivoluzione proposta dal Masaniello napoletano. Rivoluzione, dunque: e noi? È come se fossimo, in definitiva, gli schiavi descritti dal filosofo Martin Heidegger: “immersi nell’immediata dipendenza di qualsiasi opposizione e qualsiasi combattimento e di chi se ne fa condottiero. L’anno della ribellione delle masse ma non si sa più contro chi ci si ribella e tutti sono massa”. Condividono questa grande opzione altri intellettuali o sedicenti tali, alcuni sorprendenti per il loro disinvolto salto e la leggerezza della rottura con un passato di dignitoso impegno culturale e politico ( ne cito solo due, per diretta conoscenza: Domenico Cersosimo e Vito Teti).
Chi scrive non condivide nulla della scelte dell’unico partito di sinistra, il Pd, che, nelle oscure, pasticciate, miopi trattative che, nella velleitaria rincorsa verso un accordo con le magmatiche 5Stelle, hanno messo da parte con assoluto cinismo, l’unica candidatura di partito e di bandiera ( come si diceva una volta!), emersa con il giovane Nicola Irto, già presidente del Consiglio regionale, plurieletto con un gran numero preferenze.
Sarebbe estremamente difficile non condividere le critiche sulle responsabilità della perdita di credibilità e di appeal della classe dirigente del Pd calabrese: un’infinita, grigia gestione commissariale sulla quale, di recente sono piombate, per il colpo finale, l’assoluta inconcludenza di Francesco Boccia e l’apatica, grigia vocazione a non decidere di Enrico Letta. Il panorama della sinistra in Calabria è triste e nebuloso per le responsabilità della classe dirigente regionale e l’assenza di un progetto e di una chiara proposta di azione di quella nazionale.
Il circolo pluricomposito dei cosiddetti intellettuali, giornalisti, cantastorie, musicisti, attori, docenti, editori , non tutti identificati, mi richiamano il ricordo di una cattivissima frase di Bettino Craxi, quando, infastidito dai protervi suggerimenti che gli arrivavano sulle cose da fare, se ne uscì così: “intellettuali dei miei stivali!”. Ma io penso che a rappresentare al meglio la compagnia che gira e s’identifica nella fantomatica rivoluzione di De Magistris, sia la scena finale del grande film di Federico Fellini, 8 e mezzo: in un girotondo circense roteano attorno al regista che non riusciva a dare una direzione al suo progetto cinematografico, confuso, che non ha idea di cosa vuole raccontare nel suo film, un centinaio di persone le più diverse, assistenti, attori, un intellettuale messogli alle calcagna dal produttore, la moglie, l’amante, la protagonista del film. E il regista, che ha riconquistato l’innocenza e la gioia di vivere, si rivede, sorprendentemente, bambino. Ma non si sa quale progetto di film riuscirà a realizzare.
Ecco: dove va, questa compagnia circense che ha scelto il Masaniello napoletano come condottiero e guida extraterrestre di un’indefinita fase storica della Calabria? (lm)