;
Peppe Piromalli

Peppe Piromalli, il sapore del palcoscenico, con occhio alle giovani generazioni

di MARIA D’AMICONel secolo in cui la finzione sembra essere all’ordine del giorno, essere un attore è quasi una prerogativa che il mondo ci richiede di avere. Occorre che ciascuno sia all’altezza di ogni situazione, poco importa se, per farlo, l’uomo debba assumere atteggiamenti e approcci che dissimulano la sua indole. In base alle circostanze da fronteggiare, siamo chiamati a vestire i panni che gli altri si aspettano da noi, senza mai perdere di vista la nostra vera natura, magari celandola a volte. Insomma, sembriamo essere tutti Vitangelo Moscarda del famoso romanzo di Pirandello: “Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.” (Uno, nessuno, centomila.)

Il protagonista di questo romanzo ha affascinato i lettori di ogni tempo, ma per capire in che modo l’arte e più propriamente il teatro, influenzano la vita di chi vive costantemente l’emozione che l’interpretazione regala, abbiamo intervistato Giuseppe Piromalli, figura di spicco del panorama artistico nazionale.

Antonio Malaspina e Peppe Piromalli
Antonio Malaspina e Peppe Piromalli

– Per chi, come lei, ha fatto dell’arte parte integrante della sua vita, entrare e uscire dal personaggio più e più volte, ha influito sul suo modo di essere? Il teatro è stato uno strumento che le ha permesso di scoprire altre versioni di sé stesso, quindi un mezzo per conoscersi più a fondo sotto vari aspetti, oppure ha effettuato una trasposizione da lei al personaggio, plasmandolo in base alla sua natura?

«Ho iniziato a fare teatro a livello amatoriale, per soddisfare una passione che nutro da tutta la vita, l’unica differenza riscontrabile nel tempo è inerente allo status, oggi sono un attore di professione. Entrare e uscire dal personaggio ha influito e continua a farlo, ma positivamente; una volta sul palco, vestiti i panni del personaggio, ti catapulti in un’altra dimensione, vivi totalmente le gioie, la  felicità, la spensieratezza o la tristezza del personaggio. Finito questo, ciò che rimane è il sapore del palcoscenico, gli applausi e il calore del pubblico, tutti elementi assolutamente gratificanti. Sicuramente con il teatro ho imparato altre sfaccettature del mio carattere ma non mi ha mai snaturato. Questo è importantissimo perché chi fa questo mestiere porta sempre un po’ di sé sul palco, il personaggio e la persona reale si plasmano e fondono insieme, da questa magia scaturisce ciò  che di bello c’è nel teatro, è sufficiente mettere insieme un po’ della tua vita reale e un po’ del personaggio inventato per creare, sul palco, la bellezza».

– È opinione comune che gli artisti siano abituati a sperimentare punti di vista talmente differenti che, automaticamente, debbano avere una concezione molto vasta e labile di qualsiasi cosa, come se la mente di un artista non avesse mai limiti. Quanto c’è di vero in questo? Essere di ampie vedute in questo ambito è un fattore essenziale di partenza o è qualcosa che si acquisisce col tempo?

«Il teatro aiuta sicuramente a sperimentare molte cose, a vedere la vita sotto molti altri aspetti che sicuramente rimangono sconosciuti a chi non coltiva questa passione. L’artista è prima di tutto un essere umano che, con l’aiuto del teatro, amplia i propri orizzonti, sperimenta visioni differenti, conosce nuovi mondi e soprattutto assapora la magia che il teatro regala. Avere un’apertura mentale o il guardare le cose in maniera differente, sono aspetti che si acquisiscono nel tempo, imparando non solo a fare teatro, ma anche imparando a convivere con persone che hanno modi di vivere differenti. Un insieme di cose da cui, traendo solo gli aspetti positivi, discende la parte meravigliosa del teatro, è ovvio che ci sono anche i lati negativi e poco piacevoli, ma fa parte della vita.

Officina dell'Arte Reggio Calabria

– Quando e come è nata la voglia di aggregarsi per poter diffondere la grandezza e la maestosità che il teatro porta con sé?

«Arte, dal greco artem, ha molteplici significati: allegro, creativo, attivo, moderno, serio, fortunato, amichevole, generoso, competente. Il termine “officina” indica invece un luogo di creazione. L’Officina dell’Arte è dunque un movimento artistico che ingloba tutto questo e molto altro ancora, una vera e propria fabbrica di emozioni. L’Officina dell’Arte è una vera e propria fabbrica di sogni, è fatta di cose: creative, allegre, fortunate, sfortunate, piacevoli e spiacevoli. È nata nel 2014, dall’incontro con alcuni amici provenienti da una compagnia teatrale di cui facevamo parte un po’ tutti ed è il frutto di una trafila di sacrifici. Vengo dalla gavetta, dal teatro amatoriale, vernacolare, dai teatrini nati dietro le chiese. Un teatro fatto solo di passione e amore, così come quello che faccio oggi, tuttavia, essendo oggi per me un mestiere, il punto di vista è diverso rispetto all’inizio. Abbiamo iniziato scovando un luogo trasandato, un luogo che oggi sarebbe quasi normale visto le condizioni della nostra città. Dopo aver effettuato un’opera di bonifica veramente notevole, abbiamo fatto una settimana di teatro, portando in questo spazio mille persone a sera. La gente la sera usciva di casa sapendo di godersi una commedia brillante, perché una delle missioni dell’Officina dell’Arte è proprio quella di ritornare a far sorridere. Chi assiste alle nostre rappresentazioni teatrali sa di potersi distaccare dai problemi quotidiani per godersi del sano e puro divertimento. Quando si è sul palco, non c’è nulla di più bello di guardare il pubblico e vederlo sorridere divertito».

– Pensa che Reggio Calabria sia abbastanza coinvolta nelle iniziative teatrali? Che legame c’è tra i giovani e l’arte nel nostro territorio? Ha dei suggerimenti che potrebbero essere attuati al fine di incrementare l’interesse della città nei confronti del teatro?

«Reggio è una città strana, sia in positivo che in negativo. A me piace guardare sempre il bicchiere mezzo pieno, quindi tendo a guardare Reggio con positività. Dal punto di vista teatrale sento che sta crescendo. Personalmente, nei nostri avvenimenti, è molto coinvolta. Facciamo spettacoli al teatro Cilea da anni, portiamo artisti nazionali e internazionali e il pubblico non è solo partecipe, ma si fida a tal punto che, lo scorso anno, abbiamo venduto duecento abbonamenti a scatola chiusa. Gli spettatori non sapevano gli artisti e le rappresentazioni che gli avremmo proposto, ma sapevano che non li avremmo delusi, è una cosa bellissima. Il pubblico va invogliato, stuzzicato e coinvolto, quello reggino ha una tradizione teatrale che va riscoperta e rispolverata. I giovani effettivamente sono un tassello mancante, negli ultimi due anni abbiamo avuto presenze massicce dai 18 ai 25 anni, ma è una fascia di età che contiamo di coinvolgere di più. A tal proposito abbiamo aperto una scuola di teatro ‘l’Accademia Lab’, con lo scopo di avvicinare e suscitare interesse da parte di questa fascia d’età. Probabilmente i giovani ritengono che il teatro non sia una priorità, forse da un lato è giusto, il teatro va prima conosciuto e poi apprezzato. Stiamo lavorando sodo affinché questo accada. Per quanto riguarda l’interesse della città, Reggio dovrebbe sostenere la cultura molto di più di quanto fa, capisco che sia una città problematica, con esigenze più grandi di quelle del teatro, però senza cultura non si può che tornare indietro. Il modo migliore per andare avanti è metterci più impegno proprio nella cultura».

Lei ha spaziato dal teatro classico, al vernacolo, fino al cabaret e al cinema. Quale, tra questi, ha appagato di più la sua fame artistica e perché?

«Ho iniziato col vernacolo, dove mi sono divertito davvero tantissimo, ho fatto anche il teatro classico, la prosa, il cabaret e il cinema. Ho attraversato tutte le fasi artistiche, se l’ho fatto bene o male a dirlo è il pubblico. Sicuramente tutte mi hanno lasciato qualcosa sia in positivo che in negativo, un insieme di elementi che mi hanno dato modo di crescere, analizzare  e soffermarmi sulle cose in maniera diversa. Non ci sono differenze, amo tutto allo stesso modo. Dovendo scegliere, tra teatro e cinema preferisco sempre il teatro e, tra teatro classico e teatro brillante, preferisco il teatro brillante. Ridere e far ridere è una medicina sanissima, risveglia l’animo e la mente e ti allontana, per un po’, dal brutto della vita che c’è ogni giorno».

– Sin dai tempi più antichi è stata sempre enfatizzata e acuita la grande sensibilità degli artisti, in qualsiasi campo, Eduardo de Filippo affermava che “il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita”. A fronte di questa citazione, è corretto identificare l’arte del teatro come una ricerca costante e incessante, che ha come fine ultimo la completezza di una sorta di “io nascosto”?

«Ci sono molti luoghi comuni, uno tra questi è che l’artista è sensibile. Ci può anche stare, ma non credo che sia così in ogni campo, più che l’artista in sé, è l’uomo a essere sensibile. È un discorso soggettivo che non ha nulla a che vedere con l’essere o no artista. Ovviamente l’artista è aiutato dal fatto che è catapultato spesso in un mondo diverso da quello che è la sua realtà quotidiana, ha quindi modo di sperimentare altre situazioni di vita. Per quanto riguarda la citazione, sono d’accordo con Eduardo ma non sul ‘disperato’. Sono un uomo che cerca di dare sempre un senso alla vita ma con grande amore, felicità e passione, io sono il primo a divertirmi in quello che faccio, cerco di dare un senso in più alla mia vita ma con gioia. La mia è una ricerca ma non drammatica anzi, è sobria e leggera. Il mio modo di vedere il teatro è sempre quello di un sogno che si realizza, ha in sé solo bellezza e gioia, mai disperazione».

Peppe Piromalli e il gruppo di Officina dell'Arte
Peppe Piromalli e il gruppo di Officina dell’Arte

– Un mese fa siamo stati colpiti da una perdita che il mondo del teatro reggino ha accusato con maggiore violenza, la dipartita di Giacomo Battaglia, a cui l’Officina dell’Arte ha voluto dedicare la stagione teatrale 2019-2020: “Chi non ride è fuori moda” è un tributo alla memoria di un grande attore e collega, nonché un modo per veicolare un messaggio più profondo, cosa dobbiamo aspettarci da questa nuova programmazione?

«La morte di Giacomo per me, come per tutto il mondo dello spettacolo, è stata una grandissima perdita. Insieme a Gigi Miseferi hanno vestito il ruolo di pionieri verso strade che poi noi abbiamo intrapreso, abbiamo guardato il loro operato con grande ammirazione e ispirazione. Questi sono solo alcuni dei motivi che ci hanno indotto a dedicare a lui la nostra stagione teatrale, intitolandola proprio con una sua citazione: Chi non ride è fuori moda, ma non solo come forma di tributo, perché è davvero il minimo che potessimo fare, ma soprattutto perché ci riconosciamo totalmente in questo messaggio e ci crediamo fermamente. Chi non ride al giorno d’oggi, con tutte le problematiche che affrontiamo ogni giorno, perde il senso della vita. Il sorriso fatto con il cuore, con la passione con la mente sempre positiva, aiuta per continuare a vivere meglio o quantomeno per auspicare a farlo».  (mda)