di FRANCO CIMINO – Cari presidenti, car sindaci, scrivo a voi di Otello Profazio, che sono certo conoscerete meglio di quanto non l’abbiamo conosciuto tanti noi. Pertanto, di lui non dico molto. Non dico che è stato uno dei più grandi cantastorie, uno dei più grandi cantanti della tradizione popolare, uno dei più grandi cantautori, uno dei più grandi poeti, uno dei più grandi intellettuali, uno dei più grandi “sociologi e filosofi”, a modo suo, dell’intero panorama nazionale ed europeo.
Se lo dicessi, pensando che voi non lo sapeste, farei un danno non a voi, eccellentissime persone, ma all’intera Calabria, che con orgoglio lo annovera tra i più grandi personaggi della sua storia. Qui dico ciò che non dovrei dire per l’ulteriore considerazione che si dovrebbe avere di Lui. Otello Profazio è stato, a suo modo, un grande politico. Voi che fate politica e la Politica sono certo che pure farete, sapete meglio di me che essa significa, tutto insieme, analizzare la società, i suoi mutevoli fenomeni, alla luce del passato e nella prospettiva del futuro; denunciarne la gravità e i pericoli ricorrenti, in essi le ingiustizie che, in molteplici forme, agiscono in particolare “contro” i poveri, gli ultimi, i disarmati, i vinti, i rassegnati, gli abbandonati, i lottatori stanchi, i ribelli combattuti e isolati. Politica, altresì significa, immaginazione, fantasia, creatività. Sogno. Fiducia illimitata che Politica possa realizzarli, anche dal niente. Anche dalle rovine. Costruire dal basso, cioè, con la partecipazione della gente, la Felicità. Sì, la Felicità, che, come diceva il Nostro, non è promessa di un aldilà non rassicurante nella sua incertezza (la religione è sentire personale) per i condannati all’infelicità su questa terra. Condannati proprio da quei “padroni” o potenti, che usano quella promessa per tenerli, i poveri e gli sfruttati e gli ingannati, tutti buoni e “silenziosi”.
No, la felicità di cui parla Otello, è conquista dalle battaglie che il popolo deve fare per la Libertà. Che viene prima della Democrazia, essendoci in essa tutto ciò che serve alla Felicità, dalla giustizia all’eguaglianza. Dalla liberazione da tutte le catene “all’incatenzazione “di ogni arroganza, egoismo, prepotenza, cattiveria. E padronanza di persone e cose delle persone. Di pensieri, delle persone, e della loro sistemazione in un sistema organico, chiamato cultura. Profazio era politico, a suo modo. Lo era in modo particolare per la fiducia che aveva nelle singole persone e nel loro mettersi insieme per farsi popolo. Egli lottava, pensava, scriveva, suonava, cantava, e faceva politica, vedendo, nella sua mente e negli occhi di tutti, il futuro di ogni riscattata bellezza. Ma non c’è politica senza cambiamento e non c’è sofferenza di popolo senza lotta del popolo. Non c’è felicità senza la sconfitta dei costruttori dell’infelicità. Il nostro “cantatore”, narratore di storie e incitatore di animi ribelli, era, a suo modo, un rivoluzionario. Si dice fosse socialista, si diceva, negli settanta, quelli dell’avanzata del PCI, che lo invitava a tutte le feste dell’unità fino a quella nazionale, che fosse comunista.
Io che sono sempre stato democristiano, penso, al di là anche dei suoi orientamenti politici definiti, che lui fosse ribelle per amore. Un universale soldato della Pace. Un cristiano, puro o laico o ateo, che potesse pure essere definito (non mi sono mai domandato del suo sentire religioso). Era un combattente senza armatura, né fucile, contro la guerra. La sua arma, la chitarra e la voce. Insieme, unica arma, ché l’una e l’altra non erano separabili in lui. Con quella aggiuntiva ironia, che se ti “pigghiava” ti faceva a polpettine. Era un rivoluzionario e un cristiano, “socialistanarchicomunista”, liberale anticonformista, mettiamoceli tutti e senza separazione e distinzione, perché Otello era lui e basta. Il rivoluzionario! Vero, ché non ce l’aveva soltanto con i “padroni” e i potenti, ma anche con noi tutti che, per stanchezza o pigrizia, ignoranza o paura, li abbiamo lasciati fare.
Anche quando ce siamo andati, a milioni, senza disturbare, neppure con il pianto e il dolore di lasciare la nostra terra e le nostre famiglie, spezzandoci braccia e schiena, per farli più ricchi quelli là. Oppure, restando, perché “qui si campa d’aria”. Il rimprovero a noi, delicato e tenero, pur pieno di compassione e considerazione, non è mancato mai. C’è un suo canto lontano, data forse cinquant’anni, che pochi conoscono e lui stesso da tanto non lo proponeva( non ricordo in quale album si trovi), che dice in una sola strofa tutto. È collocato storicamente nell’ottocento dei Borboni. Dice testualmente: «cunnuti (si riferisce a noi) ca serviti lu guvernu (si riferisce ai governanti), sì voli Diu mi cangi lu guvernu, li robbi vi li tagghiu parmu a parmu».
Può, egregio signori, un uomo così, un poeta così, un intellettuale così, una bellezza come questa, essere trascurata, non celebrata degnamente, addirittura dimenticata? E possiamo prendercela solo con il Comune di Reggio Calabria, la sua Città, della quale è anche cittadino onorario, per non aver dato seguito, per motivi economici addirittura, all’impegno di ricordarlo artisticamente in occasione del primo anniversario della morte?
Ma no, anche perché voi stessi affermerete una verità incontrovertibile. Questa: per quanto amasse la sua Città, vivendola fino all’ultimo suo respiro pur avendo fatto il giro del mondo, Otello era, è, calabrese, uno dei più grandi e belli di tutta la storia di questa nostra-sua terra, di cui egli ha cantato dolori e gioie, asciuttezza e floridezza, sfregi e purezza. Chiedo, pertanto, con questa mia, di essere tutti voi a promuovere iniziative importanti, in tutta la Regione, per rendere non onore al calabrese illustre, che non ne avrebbe bisogno, ma onore e prestigio all’intera Calabria. Per farne anche l’eterno ambasciatore, voi saprete come, della Calabria bellissima. Insieme a lui, ora che vi trovate, tanti altri artisti calabresi, che, vissuti dimenticati, morti cancellati, della loro bellezza straordinaria, hanno lasciato un’eredità ricchissima. Voi direte le solite due cose: ” non ci sono soldi”, la prima; “ma con tutti i gravi problemi della Calabria…” la seconda.
Vi conosco personalmente e vi so onesti e sinceri. Ma consentimi di rispondervi con l’immaginata frase ironica che avrebbe pronunciato il più prezioso raccontatore della nostra terra: «ma cu tutti i picciuli chi iettamu in spettaculi chi venanu e fora, e cu i problemi veri chi ni scordamu, propriu cu mia, chi custu pocu…».
Certo della vostra benevola accoglienza di questa mia, consentimi di ringraziarvi anticipatamente, anche per i tempo utilizzato per leggermi qui. (fc)