CRISI CLIMATICA, LA CALABRIA È A RISCHIO
SERVONO AZIONI PER TUTELARE LE COSTE

di MARIO PILEGGIL’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, (Unesco) e la World Meteorological Organization (WMO)  hanno dichiarato il 2025 “Anno Internazionale della protezione dei ghiacciai” con l’obiettivo di evidenziare il ruolo vitale dei ghiacciai e sensibilizzare il mondo sulla drammatica fusione delle calotte glaciali e sui rischi per questi ecosistemi essenziali.

Il 70% dell’acqua dolce globale è immagazzinata nei ghiacciai e nelle calotte glaciali. I ghiacciai sono fonti primarie di acqua dolce per due miliardi di persone, regolano il clima terrestre e sono anche i custodi della storia climatica del nostro pianeta.  

La loro riduzione sta avendo impatti globali come l’innalzamento del livello del mare e i cambiamenti nei pattern meteorologici. 

I dati più recenti evidenziano che i ghiacciai di tutto il mondo si stanno riducendo sempre più rapidamente: dal 2000 la perdita di ghiaccio globale è aumentata di quasi il 50% rispetto ai decenni precedenti. 

Le Alpi hanno perso circa il 60% del volume glaciale rispetto al 1850 e potrebbero perdere l’80% entro il 2100.  

Secondo il Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani, curato dal Comitato Glaciologico Italiano e dal Gruppo di Ricerca Glaciologia dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con il Cnr, negli ultimi 60 anni si è registrata una diminuzione del 30% della superficie glaciale, con una perdita di circa 200 km², equivalente all’area del Lago Maggiore.  

Gli studi del Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico (IPCC) riportano che il livello del mare si è alzato di circa 20 centimetri dal 1900, con un’accelerazione significativa negli ultimi decenni. 

Una recente proiezione riguardo lo scioglimento dei ghiacci “Fusion of Probabilistic Projections of Sea-Level Rise” pubblicata a Dicembre 2024 su “Earth’s Future-AGU” delinea scenari con innalzamento medio globale del livello del mare compreso tra 0,5 e 1,9 metri entro il 2100. 

Lungo le coste delle regioni italiane l’innalzamento del livello del mare entro la fine del secolo è stimato dall’Enea tra 0,94 e 1,035 metri (modello cautelativo) e tra 1,31 metri e 1,45 metri (su base meno prudenziale). A questi valori bisogna aggiungere il cosiddetto storm surge, ossia la coesistenza di bassa pressione, onde e vento, variabile da zona a zona, che in particolari condizioni determina un aumento del livello del mare rispetto al litorale di circa 1 metro.

Secondo le proiezioni dell’Enea, in assenza di interventi di mitigazione e adattamento, 40 aree costiere e molte migliaia di chilometri quadrati di pianure costiere italiane potrebbero essere sommerse entro la fine del secolo.

Lungo 246 chilometri di costa della Pianura Padano-Veneta, nelle regioni Emilia-Romagna, Veneto e Friuli, si estende l’area a rischio più estesa già mappata di 5.451 chilometri quadrati. Altre aree a rischio inondazione: le foci del Pescara, del Sangro e del Tronto in Abruzzo; l’area di Lesina e di Taranto in Puglia; l’area di La Spezia in Liguria; tratti della Versilia, Cecina, Follonica, Piombino, Marina di Campo sull’Isola d’Elba e le aree di Grosseto e di Albinia in Toscana; la piana Pontina, di Fondi e la foce del Tevere nel Lazio; la piana del Volturno e del Sele in Campania; l’area di Cagliari, Oristano, Fertilia, Orosei, Colostrai-Muravera, Nodigheddu, Pilo, Platamona, Valledoria, Porto Pollo e di Lido del Sole in Sardegna; Metaponto in Basilicata; spiagge di Granelli, Noto, Pantano Logarini e le aree di Trapani e Marsala in Sicilia; tratti della Pianura di Gioia Tauro e di Santa Eufemia in Calabria. 

Altre aree costiere esposte a rischio inondazione e/o erosione in Calabria sono localizzate nella Piana di Sibari, nel Crotonese e in vari comuni del Tirreno. Ecosistemi unici e luoghi di rilevanza storico-archeologica come Sibari, Crotone, Squillace, Locri rischiano di subire danni irreparabili a causa di inondazioni e dell’erosione. 

In proposito è da ricordare che nel Rapporto Ambientale Por Calabria 2021–2027 si legge: «…i rischi naturali presenti sul territorio regionale, caratterizzati da livelli molto elevati, (sono) in alcuni casi marcatamente più alti rispetto al resto del territorio nazionale. Per alcuni di questi (rischio frane, rischio alluvione, rischio erosione costiera, rischio incendi, desertificazione) è prevedibile un aumento del livello di rischio a causa dell’aumento delle temperature, dell’innalzamento del livello del mare conseguente allo scioglimento dei ghiacciai e dell’aumentata frequenza degli eventi estremi».

Studi recenti sulla vulnerabilità delle province costiere italiane delineano i rischi ai quali sono esposti anche i preziosi ecosistemi naturali e i numerosi siti archeologici situati nelle nostre pianure costiere.

Le estese fasce costiere, caratterizzate da assetti idrogeomorfologici e climatici favorevoli allo sviluppo di ogni forma di vita, sono ricchissime di biodiversità e testimonianze antropiche e pre-protostoriche. Un patrimonio di testimonianze antropiche sedimentato da millenni di interazioni tra l’Uomo e il mare, diffuso su tutte le coste. 

Dettagliate e più recenti proiezioni sull’impatto previsto dall’innalzamento del livello del mare in corrispondenza dei tratti di costa del BelPaese soggetti a movimenti verticali di abbassamento del suolo sono contenuti nello studio “Sea level rise projections up to 2150 in the northern Mediterranean coasts di A. Vecchio et al. pubblicato nel 2024 sulla rivista ambientale Environmental Research Letters. Lo studio, tra l’altro, riporta i dati delle misure dello sprofondamento in atto in corrispondenza di alcune coste italiane rilevati utilizzando GNSS (Global Navigation Satellite System). I dati più significativi sono stati rilevati in corrispondenza delle coste della Pianura Padano-Veneta e delle regioni meridionali. 

Nelle stesse pianure costiere la combinazione dell’innalzamento del mare e degli eventi meteorologici estremi, come forti mareggiate e inondazioni, aumenta il rischio di perdita di territorio con danni alle infrastrutture e alle attività economiche locali, in particolare turismo, pesca e agricoltura. 

Secondo dati Ispra un’ampia percentuale delle coste italiane, valutata tra il 30-46%, è già soggetta a fenomeni di erosione accelerata; e più di 100 dei 644 comuni costieri italiani hanno visto arretrare il loro tratto di costa di ben oltre il 50%. dell’intero tratto di competenza.

Questi dati mostrano le continue trasformazione delle coste e la rilevanza degli effetti connessi alla stessa dinamica dei litorali, spesso sottovalutati o ignorati dalle classi dirigenti locali e nazionali. Effetti che rappresentano una minaccia sia per numerosi siti archeologici sia per la grande varietà di ecosistemi delle fasce costiere italiane. Ecosistemi di grande valore ecologico, economico e culturale e da tutelare per favorire la biodiversità, la sicurezza ambientale e il benessere delle comunità locali. 

L’iniziativa Unesco-Wmo offre un’importante opportunità per amministrazioni pubbliche, istituzioni scientifiche, organizzazioni private e società civile di promuovere attività volte a proteggere le coste, garantendo al contempo la sicurezza delle popolazioni e la conservazione del prezioso patrimonio storico-ambientale delle aree marine per le generazioni future.

Inoltre, rappresenta un’occasione per riflettere sul legame tra i rischi attuali e la storia glaciale di regioni costiere, come la Calabria, dove sono ancora visibili tracce lasciate dai ghiacciai. Dallo studio di queste testimonianze del passato alle minacce derivanti dall’innalzamento del mare, emerge un filo conduttore che collega le trasformazioni geologiche di ieri alle sfide climatiche di oggi. (mp)

[Mario Pileggi è geologo]

QUELLE SCELTE SBAGLIATE PER LA SANITÀ
CALABRESE CHE DANNEGGIANO I CITTADINI

Di DOMENICO MAZZA – Navigando in rete mi è apparso un vecchio articolo in cui si riproduce un’intervista al già assessore alla sanità calabrese e futuro candidato sindaco della città di Lamezia, Doris Lo Moro. Vi chiederete perché un’intervista di quasi un lustro fa abbia destato in me particolare interesse.

Le motivazioni potrebbero essere molteplici. Tuttavia, ciò che mi ha attratto, invogliando la mia curiosità verso l’articolo in questione, sono state le recenti richieste del Presidente della Regione Calabria, di dichiarare lo stato di emergenza del settore ospedaliero calabrese.

Ritornando all’articolo richiamato in premessa, mi hanno lasciato basito le dichiarazioni della Lo Moro che, a un certo punto dell’intervista, parla di una riforma che avrebbe dovuto prevedere 8 e non già 5 Aziende sanitarie.

Giusto per richiamare alla memoria, prima che l’allora Giunta regionale decretasse la nascita delle attuali 5 Asp, in Calabria operavano ben 11 Asl. La caratteristica di quest’ultime era appunto la base locale e non già provinciale del distretto di competenza.

I più attenti ricorderanno che già alla fine degli anni ‘90 le allora nuove Asl avevano accorpato le ex USSL (unità socio-sanitarie locali). Tali strutture, nelle linee essenziali, si caratterizzavano per l’autonomia gestionale di ogni ospedale al tempo operante in Regione.

Il sostanziale aziendalismo, poi, operato a livello centrale dai vari Governi della Seconda Repubblica, invitò le Amministrazioni periferiche dello Stato a una riorganizzazione su basi territoriali e demografiche dei vari settori. Anche la Sanità fu costretta ad adeguarsi e, per quanto lo Stato non avesse ordinato alcuna revisione su base provinciale, ma solo su criteri territoriali, la nostra Regione optò per un riforma che ricalcasse lo scriteriato disegno degli Enti intermedi calabresi.

Ebbene, stabilire nottetempo la chiusura, sic et simpliciter, di ben 6 ex Asl (Palmi, Locri, Lamezia, Paola, Castrovillari e Rossano), senza porsi minimamente il problema della orogenesi territoriale calabrese, fu un errore di non poco conto. Vieppiù, quando nell’intervista si sostiene che la nuova geografia sanitaria avrebbe dovuto prevedere 8 e non 5 aziende, la trama si infittisce e dimostra plasticamante quanto la materia sanitaria sia stata mercificata sull’altare del volere centralista a danno esclusivo della popolazione calabrese: soprattutto quella residente nelle lande più periferiche e dimenticate.

D’altronde, se la Locride, il Lametino e la Sibaritide fossero rimaste in essere, magari utilizzando l’acronimo di AST (aziende sanitarie territoriali) piuttosto che Asp (aziende sanitarie provinciali), probabilmente, in un clima di spendig review, sarebbe stato complicato giustificare la nascita delle AO. Tali Enti, infatti, hanno elevato gli ospedali dei Capoluoghi storici a presidi Hub, estromettendoli dalla gestione delle Asp e consegnandoli ai nuovi organismi appositamente creati e nominati Aziende Ospedaliere.

Ecco, conclamare a quasi un ventennio dalla dissennata riforma sanitaria, la necessità di maggiori poteri per la velocizzazione del percorso che dovrà portare alla nascita dei nuovi ospedali (Sibaritide, Vibo e Piana di Gioia) ai quali, nel frattempo, si è aggiunto anche il nuovo ospedale di Cosenza, comprova quanto una riorganizzazione di un deviato regionalismo amministrativo sia necessaria. E non solo in capo al settore sanitario. Invero, diversi servizi (giustizia, sicurezza, conservatoria, ecc.) dovrebbero rispettare i principi di omogeneità territoriale nella perimetrazione delle circoscrizioni di competenza locale.

Pertanto, inviterei qualche novello sognatore della Sibaritide e del Comune di Corigliano-Rossano che immagina la creazione di nuovi orti dove potrebbero sorgere praterie, a ritornare con i piedi per terra, riflettendo sulla bontà e concretezza delle idee promosse.

Così come mi auguro che un distratto establishment pitagorico, inizi a pensare in grande abbandonando la condizione di limbo amministrativo del Crotonese per aprirsi a una visione accurata e puntuale di tutto l’Arco Jonico calabrese. Non fosse altro che per avviarsi a nuove prospettive territoriali, rispettose di quei numeri necessari a trasformare le idee in progetti politici e non già nei soliti carrozzoni che la Calabria conosce fin troppo bene. (dm)

[Domenico Mazza è del Comitato Magna Graecia]

LA CALABRIA HA LE CARTE IN REGOLA PER
CREARE UNA SILICON VALLEY DEL SOCIALE

di FRANCESCO RAOLa regione Calabria, nel compiere il complesso percorso di crescita strutturale, porta con sé, oltre ai segni di una economica fragile un marcato invecchiamento della popolazione.

Osservando la piramide dell’età (figura n. 1), si rileva ad occhio nudo l’importante sfida da affrontare per poter garantire un sistema di welfare in grado di rispondere in modo adeguato alle crescenti esigenze assistenziali di anziani e bambini. In tal senso, il ruolo svolto dai Piani di Zona e tutte le politiche sociali messe in campo dalla regione Calabria, incontrano oggi il ritardo accumulato a seguito del mancato recepimento dell’allora Legge 328/2000, ma potranno rappresentare una importantissima svolta e recuperare strada grazie al supporto fornito dalla sentenza n. 130/2020 della Corte Costituzionale attraverso la quale si è aperta la procedura di co-progettazione tra Enti Locali e Terzo Settore per l’erogazione di servizi sociali avanzati e di prossimità.

Il contesto demografico ed economico della Calabria gioca un ruolo fondamentale, anche perché, nel corso degli ultimi decenni, la regione ha vissuto il progressivo invecchiamento della popolazione, accompagnato tra l’altro da un declino del tasso di natalità e da un fenomeno migratorio che ha portato alla dispersione dei giovani verso aree economicamente più dinamiche dell’Europa e del mondo. I recenti dati Istat evidenziano che la percentuale di anziani nella regione supera quella della media nazionale, incidendo significativamente sulla capacità del sistema assistenziale nel fornire servizi adeguati.

Questa situazione è rilevata in un contesto sociale nel quale le persistenti difficoltà occupazionali determinano un reddito pro capite per i Calabresi che è pari ad un terzo dei residenti in Lombardia. Già questo dato dovrebbe far riflettere molto quanti pensano che sia semplice risolvere nel brevissimo periodo le evidenti criticità afferenti alla sanità e alle politiche sociali. Da un punto di vista storico, il nostro modello di solidarietà sociale, consolidato nel dopoguerra e ulteriormente sviluppato attraverso normative quali lo Statuto dei Lavoratori del 1970, si fondava su principi di solidarietà e protezione universale, attraverso un sistema nazionale.

Successivamente, con la modifica del Titolo V della Costituzione, le competenze sono state trasferite alle regioni e in ognuna di esse vi è stata la possibilità di rilevare nel tempo i punti di forza e punti di debolezza per i quali oggi, nel Meridione, grazie al Pnrr, si sta lavorando con l’intento di ridurre il divario dei servizi tra Nord e Sud. Ulrich Beck, noto sociologo che ha teorizzato la “società del rischio”, ha più volte sottolineato come il mondo contemporaneo sia dominato da rischi diffusi e incertezze strutturali, richiedendo come azione solutiva risposte collettive e sistemiche. In tal senso, la cooperazione tra Enti Locali e Terzo settore, rappresenta il superamento praticabile al tradizionale modello assistenziale non più sostenibile in quanto le necessità bisogna affrontarle nei rispettivi territori e non in pochi centri destinati ad essere iper-affollati e non funzionali.

Inoltre, per affrontare in modo strutturale la necessità presenti sui territori della Calabria, occorrono competenze e processi occupazionali veloci. Nel rispetto delle vigenti leggi ed in particolare della Legge “Madia”, sappiamo benissimo che l’accesso alla Pubblica Amministrazione avviene solo tramite concorso pubblico e non per chiamata diretta. Considerato come prioritario il fabbisogno e il divario tra le aspettative di una società in rapido invecchiamento e le risorse effettivamente disponibili nelle regioni economicamente deboli come la Calabria, l’unica strada percorribile è quella di superare i modelli ingessati e aprire alla co-progettazione, interessando il segmento sano e competente del Terzo Settore presente in Calabria e grazie ad esso generare immediate risposte in tutti i 404 comuni della regione.

In tal senso, nella criticità ci sarà una opportunità straordinaria che consentirà il perseguimento del bene sociale. Ecco perché la Calabria, con la sua realtà complessa, può dar vita ad una “Silcon Valley del sociale”, attraverso la creazione di una cabina di regia operativa nella quale le competenze potranno essere fornite dall’apporto delle Università, dal sistema del Welfare regionale e dal Terzo Settore. 

Gli ambiti ai quali rivolgere la massima attenzione dovrebbero essere innanzitutto gli asili nido e le strutture residenziali per anziani e l’avvio delle procedure dovrebbe interessare inizialmente le aree interne per giungere poi all’uniformità regionale del servizio.

La Calabria, in tal senso, potrebbe configurarsi come un esempio nazionale concreto attraverso il quale le difficoltà che caratterizzano gli odierni contesti marginali potrebbero generare contemporaneamente occupazione di personale specializzato e superamento della povertà sociale vissuta in prima persona da anziani e bambini e riflessa nella conciliazione dei tempi liberi e di lavoro soprattutto di tante donne calabresi, dedite ancora ad assistere in casa genitori e figli per mancanza di strutture pubbliche. Inoltre, si potrebbe immediatamente rilevare una riduzione di presenze presso gli ospedali, in quanto a regime si potrebbe immaginare l’estensione di molti protocolli di cura da praticare a domicilio attraverso una medicina di prossimità.

La regione Calabria, per molto tempo, ha sofferto di una carenza cronica di investimenti pubblici ma tutto ciò. Non dovrà essere il prosieguo di una narrazione negativa. Da tale causa, senza voler dare colpa alcuna ai privati, abbiamo assistito alla costante obsolescenza delle infrastrutture sociosanitarie e dei rispettivi servizi resi, spesso dislocate in maniera disomogenea sul territorio e oggi, recuperare quel divario, è una autentica sfida titanica al quale bisogna guardare l’obiettivo con fiducia e con un metodo ben preciso.

I rapporti Svimez, nel corso degli anni, hanno puntualmente sottolineato l’incidenza della disoccupazione rispetto al Centro-Nord, evidenziando di volta in volta un divario sostanziale nella capacità di offrire servizi assistenziali di qualità. Inoltre, il fenomeno della “fuga di cervelli”, come documentato dal Censis, ha ulteriormente impoverito il capitale umano locale, indebolendo le potenzialità di innovazione e rigenerazione del sistema di welfare.

In un simile contesto, il ruolo della famiglia e delle reti comunitarie, in passato fondamentali per la coesione sociale, risulta spesso insufficiente a compensare le lacune del sistema pubblico. Alla luce delle evidenti criticità, è imprescindibile un intervento multilivello finalizzato a rinnovare il modello di welfare in Calabria. Perciò è necessaria una revisione degli investimenti nel settore sanitario e nei servizi sociali, con particolare attenzione alle aree rurali e alle periferie. L’integrazione di tecnologie digitali, quali la telemedicina e l’assistenza domiciliare, potrebbe migliorare significativamente l’efficienza e la capillarità dei servizi, riducendo i costi e garantendo una maggiore accessibilità.

L’esperienza di altri Paesi europei, i quali dopo aver adottato modelli di welfare integrato e partecipativo, rappresentano oggi un punto di riferimento importante. È altresì fondamentale promuovere politiche di decentralizzazione e maggior autonomia gestionale per le amministrazioni locali, in modo da personalizzare gli interventi in base alle specificità territoriali.

Richiamando quanto scrisse Anthony Giddens in “Modernity and Self-Identity”, proprio da quel testo si potrebbe intravedere il metodo da applicare alla realtà calabrese per superare le criticità evidenti e, come già detto, creare importanti occasioni occupazionali. In questa ottica, le politiche di welfare dovranno essere concepite non solo come strumenti di protezione, ma anche come leve per rafforzare il tessuto sociale e promuovere la partecipazione attiva dei cittadini.

La grande trasformazione in atto richiede un intervento strutturale che integri investimenti mirati, innovazione tecnologica, competenze e una rinnovata partecipazione civile. Solo attraverso un approccio integrato e multidimensionale sarà possibile superare le attuali criticità e garantire, anche nei territori più deboli, un welfare state sostenibile, inclusivo e capace di tutelare la dignità di ogni cittadino.

Ripartire dagli Uffici di Piano, attraverso una valorizzazione dell’importantissimo lavoro svolto sino ad ora e prevedendo una maggiore sinergia formativa potrà sicuramente segnare l’avvio di un percorso virtuoso attraverso il quale la co-progettazione potrà esprimere qualità, professionalità e soprattutto restituirà la dignità a moltissime persone, ricordandoci che tra essi ci sono anche i nostri genitori. (fr)

[Francesco Rao è docente a contratto cattedra di sociologia generale – Università “Tor Vergata” Roma]

È INUTILE LA RIFORMA DELLE PROVINCE
SE NON SI RILANCIANO GLI AMBITI VASTI

Nell’ardore dell’esuberante dinamismo che, talvolta, ha caratterizzato i Governi dalla Seconda Repubblica, nel 2014, il già Ministro Delrio, firmò una legge (DL 56/14) con la quale fu decretato il ripiegamento a Enti di secondo livello di tutte le Istituzioni provinciali italiane. Tale legge, nata con intento transitorio, avrebbe dovuto riformare e snellire l’apparato intermedio del sistema amministrativo nazionale. Di fatto, a quasi 11 anni dalla sua attuazione e con la complicità della bocciatura del referendum costituzionale nel 2016, ha ibernato le Province lasciandole nel limbo dell’impalpabilità amministrativa.

Circa due anni fa, però, un rinnovato attivismo parlamentare, nella Commissione affari costituzionali al Senato, ha riportato alla ribalta la tematica. La discussione relativa alla reintroduzione del suffragio universale alle Province ha generato la produzione di un testo unificato a firma di vari Gruppi parlamentari. Tutto questo fermento, però, si è sostanzialmente arenato nel mese di giugno del 2023.

Con ogni probabilità, il disegno delle autonome regionali ha avuto prelazione negli interessi delle Commissioni. Da oltre un anno, quindi, il dibattito relativo alla rinascita degli Enti intermedi è fermo all’angolo. Non è da escludere, tuttavia, che già i prossimi mesi potrebbero risultare decisivi al ripristino del sistema Provincia così come lo conoscevamo fino a un paio di lustri fa.

Non solo il ritorno al passato, ma un rinnovamento sistemico degli ambiti provinciali

Il testo normativo, prodotto in Parlamento, tuttavia, non si spinge verso una riforma sistemica dell’Ente in questione. Piuttosto, si limita a una restaurazione delle perimetrazioni provinciali ex ante 2014. Il disegno di legge, infatti, non si addentra su quelle inspiegabili dinamiche che, in Italia, hanno generato ambiti elefantiaci e ingestibili a fianco di piccoli contesti territoriali, spesso sguarniti di una reale autonomia politica e ombra di loro stessi. Nessun riferimento, altresì, alla condizione di disagio vissuta da quei contesti provinciali, spesso gemmati da una Provincia madre più ampia, poco rappresentativi anche dal punto di vista demografico. Chiaramente, quindi, una riforma che oltre a restituire l’Ente Provincia si spinga verso un profondo rinnovamento dell’organismo amministrativo, sarebbe auspicabile.

Divari territoriali: il male endemico italiano

Ciò che, comunque, bisognerebbe sanare è il divario tra territori, consentendo a quei contesti rimasti più indietro di porsi a livello degli ambiti che procedono più spediti. Quindi, non è tanto la reintroduzione di un Ente, quanto la necessità di annullare squilibri territoriali, il vero obiettivo che la politica dovrebbe porsi.

Se, davvero, il Parlamento sentisse la necessità di intervenire su oggettive disparità territoriali che, ovunque avvertite in Italia, generano aree di figli e aree di figliastri, il ricorso ad una serie di emendamenti al disegno normativo, sarebbe necessario. Modifiche e integrazioni, invero, contribuenti a scrivere una legge che fornisca una reale visione del territorio italiano, ancor prima che un semplicistico ritorno al passato. D’altronde, lavorare alla normalizzazione di una condizione legata a una dicotomia tra aree sature e centralizzate e contesti periferici sempre più collaterali, sarebbe necessario e non differibile. Anche, per tentare un approccio volto a riequilibrare una disparità in atto tra contesti territoriali sovradimensionati e periferie marginalizzate, rese sempre più lande desolate e depresse.

Geografia territoriale: superare le incoerenze con una visione che si sganci dai disegni del passato

Seppur tra tante incoerenze, comunque, il DL 56/14 aveva tentato di dare un’impronta d’area vasta ai territori extra comunali. I requisiti di almeno 350mila abitanti e 2500km di superficie, per evitare l’allora scure della decapitazione provinciale, non furono messi a caso. In ambito europeo, infatti, i contesti compresi tra 350 e 450mila abitanti risultano essere quelli più efficientemente dimensionati. Pertanto, una reintroduzione sic et simpliciter del concetto di Provincia, così come eravamo abituati a conoscerlo prima del 2014, non andrebbe a risolvere taluni scriteri. Si pensi ai casi di Alba e Bra nella gigantesca provincia di Cuneo o alle questioni di Busto Arsizio/Varese e Sanremo/Imperia.

Meriterebbe accurate riflessioni, anche, il nuovo contesto pedemontano veneto che gravita attorno a Bassano del Grappa. In Centro Italia, non possono lasciare indifferenti i casi di Civitanova Marche e San Benedetto del Tronto, rispettivi primi contesti urbani delle Province di Macerata e Ascoli Piceno. Così come la questione legata alla volontà di costruire una provincia con doppio capoluogo tra Spoleto e Terni, per frenare il centralismo perugino. A Sud, invece, l’elefantiaca Capitanata si caratterizza per la presenza di grossi nuclei urbani e relative aree di gravitazione che poco o nulla condividono con Foggia. Nondimeno, la volontà della provincia di Isernia di spostarsi dal Molise all’Abruzzo o la provocazione materana di aggregarsi alla terra di Bari. Anche la Sicilia non è esente da sentimenti legati al decentramento amministrativo e alle autonomie politiche: Gela vorrebbe migrare dalla Provincia di Caltanissetta per accasarsi nella Città Metropolitana di Catania, mentre il dualismo Marsala/Trapani necessiterebbe attenzione con alcuni correttivi.

Non per ultimo, poi, il caso di Corigliano-Rossano e l’area dell’Arco Jonico che non condivide criteri di omogeneità territoriale ed economica con il resto della provincia di Cosenza. Insomma, alcuni, ma non tutti, i desideri, legittimi, di immaginare nuovi e più coerenti percorsi amministrativi che restituiscano dignità ai territori, infondendo la speranza di declinare un avvenire migliore. Dunque, il nocciolo della questione non è reintrodurre le Province, ma inquadrare quest’Ente nel giusto parametro tra la dimensione regionale e macroregionale e i Comuni sottoposti a coordinamento e controllo. Le esperienze delle piccole Province, d’altronde, si sono rivelate un boomerang: poco funzionali e, addirittura, controproducenti. A tal riguardo, buona parte degli Enti nati successivamente al ’92, hanno ampiamente dimostrato la loro inutilità, non riuscendo a inverare una concreta autonomia politica ancor prima che amministrativa.

Magna Graecia: unica prospettiva di sviluppo nell’auspicato ridisegno degli Enti intermedi calabresi

Il discorso calabrese, forse più di qualunque altro, nasconde una serie di incoerenze tra i fautori di un nuovo Ente e chi, invece, auspica una ridefinizione logica degli attuali contesti di secondo livello. Con una popolazione di poco superiore al 1.800.000 abitanti, pensare a una sesta Provincia in Calabria suona già come ridicolo. Vieppiù, contribuisce a rendere macchiettistica la considerazione di alcuni contesti della Regione; simile, per certi versi, a quella dei vignettisti satirici, il cui unico obiettivo consiste nello scatenare ilarità nel lettore.

I limiti di una ipotizzata Provincia della Sibaritide-Pollino, ancor prima che amministrativi e di natura territoriale, data la disomogeneità tra i due ambiti concorrenti a formare il perimetro vasto, risiedono tutti in uno stadio di reale autonomia politica. Per quanto l’immaginato ambito possa avere una ragguardevole dimensione in superficie, anche nella migliore delle ipotesi, la sua conformazione demografica risulterebbe scarna rispetto l’Ente madre da cui dovrebbe gemmare. Una popolazione di 250mila abitanti, a fronte di un vasto e disarticolato territorio, rappresenterebbe poco più della metà della demografia che resterebbe in capo alla ridimensionata Cosenza.

Un’idea progettuale, al contrario, che assembli le aree rivierasche e pedemontane afferenti al medio-alto Jonio calabrese, oltre alla comune matrice storica, economica e di opportunità, non andrebbe a sovraccaricare di Enti e burocrazia uno Stato già eccessivamente provato da inutili e inefficaci frammentazioni.

Partendo da un Ente già esistente (Provincia di Crotone) si dovrebbe procedere alla ridefinizione dei perimetri delle attuali Province di CS e KR, per sezionare la ex Calabria Citra in due aree pressoché identiche, sia territorialmente che demograficamente. Un ambito del nord ovest che resterebbe sotto l’egida della Città di Cosenza e un’area del nord est coordinata e controllata da due Capoluoghi (Corigliano-Rossano e Crotone).

Due contesti simili e concorrenti che insieme all’ambito istmico (CZ-Lamezia) andrebbero a gestire, con pari diritti e pari dignità, buona parte del territorio regionale. Una rivoluzione nell’approccio e nella gestione degli Enti intermedi. Non più ambienti centralizzati e distanti dalle esigenze dei cittadini, ma policentrici e caratterizzati da distretti di prossimità che eleverebbero il reale significato del decentramento amministrativo. Ecco, in una rinnovata visione e in una ridefinizione funzionale e prospettica dei territori, l’idea di riportare ex ante 2014 gli Enti di secondo livello avrebbe senso compiuto.

In tutti gli altri casi sarebbe l’ennesimo carrozzone politico di cui certamente questo Paese non avrebbe alcun bisogno. (Comitato Magna Graecia)

EXPORT E INNOVAZIONE, IL FUTURO È QUI
LA CALABRIA NON PERDA QUEST’OCCASIONE

di FABRIZIA ARCURI – L’internazionalizzazione è una delle sfide più significative per il sistema produttivo italiano, in particolare per le piccole e medie imprese che intendono affacciarsi ai mercati esteri. Per rispondere a questa esigenza nasce il Mediterranean Export Innovation Hub (Meih), un’Associazione che si propone come punto di riferimento per le aziende desiderose di espandere la propria presenza a livello internazionale.

Attraverso strategie mirate, formazione specialistica e un network di contatti consolidato, il Meih offre strumenti concreti per accompagnare le imprese nel loro percorso di crescita oltre i confini nazionali.

L’iniziativa è guidata da Alessandro Crocco, imprenditore italo-americano con una solida esperienza nell’export e nei processi di internazionalizzazione. Attivo tra New York e l’Italia, ha sviluppato una profonda conoscenza dei mercati esteri e delle strategie per la crescita delle Pmi, con l’obiettivo di creare connessioni efficaci tra le eccellenze italiane e il contesto globale.

Il Meih nasce proprio da questa visione, configurandosi come un catalizzatore di crescita per le imprese, trasformando le ricchezze produttive del territorio in una leva di sviluppo concreto. Un progetto che assume un valore strategico soprattutto per il Sud Italia e per la Calabria, una terra dal grande patrimonio culturale e produttivo, che necessita di strumenti adeguati per affermarsi sui mercati internazionali. L’Associazione si pone come risposta a questa esigenza, promuovendo la competitività delle imprese locali e favorendone l’integrazione nel commercio globale.

A sancire l’avvio ufficiale delle attività, il Meih sigla il suo primo Protocollo d’Intesa con Confapi Calabria, una collaborazione strategica che consolida il legame tra il mondo imprenditoriale e le strategie di internazionalizzazione. L’accordo rappresenta il primo passo concreto di un percorso che punta a rafforzare la competitività delle imprese locali, favorendo sinergie tra innovazione, formazione e accesso ai mercati esteri.

L’evento di presentazione, in programma lunedì 24 febbraio alle 10.30 presso Villa Rendano a Cosenza, si aprirà con i saluti istituzionali di coloro che, sin dall’inizio, hanno sostenuto la filosofia e la mission del Meih. Importanti appuntamenti istituzionali, dal Senato della Repubblica al Consiglio Regionale della Calabria, fino agli incontri sui territori, hanno contribuito a dare impulso all’iniziativa, consolidandone la visione e il percorso di crescita. A portare i saluti istituzionali saranno la senatrice Tilde Minasi, la Presidente di Brutium, Gemma Gesualdi, Walter Pellegrini, Presidente della Fondazione Giuliani e Antonello Grosso La Valle, il Presidente di Unpli Cosenza e Consigliere Nazionale.

A presentare il progetto e il Protocollo d’Intesa saranno Alessandro Crocco, Presidente del Meih, Francesco Napoli, Presidente di Confapi Calabria, la sottoscritta, vicepresidente Meih, e Rossana Battaglia, presidente Accademia degli Imprenditori. A moderare l’incontro sarà Francesca Preite, Responsabile comunicazione e Vicepresidente Filiera UNIGEC – Confapi Calabria.

«Il progetto Mediterranean Export Innovation Hub incarna la visione di un’Italia che sa guardare oltre i propri confini, forte della sua cultura, della sua qualità e della sua capacità di innovare – afferma Alessandro Crocco –. Ma, soprattutto, vuole dare risposte concrete alla Calabria e al Sud Italia, territori che, troppo spesso, restano esclusi dalle grandi opportunità dell’export e dell’innovazione».

«Con questa iniziativa – continua – vogliamo creare un ecosistema in cui le imprese locali possano apprendere, collaborare e crescere, facendo della qualità e dell’identità territoriale il loro punto di forza per conquistare i mercati internazionali».

«La firma – sottolinea – di questo Protocollo d’Intesa con Confapi Calabria è solo l’inizio di un percorso che metterà a disposizione delle Pmi strumenti concreti per affermarsi e competere su scala globale, con un’attenzione particolare per le realtà produttive calabresi, che meritano di essere valorizzate a livello internazionale».

Entusiasta della collaborazione, Francesco Napoli, Presidente di Confapi Calabria, sottolinea il valore strategico dell’accordo: «Siamo orgogliosi di presentare l’Export Innovation Hub e il Mediterranean Export Innovation Hub, iniziative che rappresentano un’opportunità concreta per il futuro dell’export, non solo per la Calabria, ma per l’intero Sud Italia».

«Questi progetti – enfatizza – segnano un passaggio fondamentale verso la modernizzazione e il rafforzamento del nostro tessuto produttivo, grazie alla sinergia tra innovazione, competenze e mercato internazionale. È un’occasione imperdibile per le aziende calabresi, che hanno sempre dimostrato un potenziale straordinario ma che spesso incontrano ostacoli nell’accedere ai mercati globali».

«Con il Meih – conclude – vogliamo colmare questo divario e creare un ponte tra le imprese locali e le opportunità internazionali. Un ringraziamento particolare va ad Alessandro Crocco per il suo impegno e la sua visione, che hanno reso possibile questo importante progetto».

Mi preme sottolineare l’importanza della comunicazione e del marketing nell’internazionalizzazione, in quanto non basta un prodotto eccellente per conquistare i mercati esteri, è necessario saperlo raccontare, creare un’identità forte, trasmettere la storia e i valori che lo rendono unico.

Questo è ancora più vero per la Calabria, una terra che vanta eccellenze straordinarie, dall’agroalimentare all’artigianato, dal turismo alla tecnologia, ma che fatica ancora a imporsi sul panorama internazionale.

La nostra missione è accompagnare le imprese in questo percorso, fornendo strumenti di promozione, formazione mirata e strategie di branding efficaci. Dobbiamo fare in modo che il Made in Calabria non sia solo riconosciuto, ma desiderato, perché porta con sé autenticità, qualità e una storia che merita di essere raccontata al mondo intero.

«L’unione fa la forza. Solo lavorando – ribadisce nella chiusa il presidente Crocco – in sinergia possiamo raggiungere obiettivi ambiziosi e rendere l’Italia e quindi la nostra terra di Calabria, protagonista nello scenario globale. Il Mediterranean Export Innovation Hub è aperto a tutti coloro che condividono questa visione e vogliono contribuire a renderla realtà». (fa)

[Fabrizia Arcuri è vicepresidente Meih]

I GIOVANI, LA PRECARIETÀ E IL RIFIUTO DEL
POSTO FISSO: UNA SFIDA PER LA CALABRIA

di FRANCESCO RAONegli ultimi decenni, il concetto di “posto fisso” – da sempre simbolo di sicurezza economica e stabilità sociale – ha subito una radicale trasformazione. In una società in continuo mutamento, anche i Millennials del Meridione, hanno posto un approccio differente al paradigma tradizionale riconducibile all’impiego stabile, adottando una visione del lavoro più fluida e dinamica.

Il modello del posto fisso, radicato nell’Italia del dopoguerra, era strettamente legato a una concezione di società caratterizzata da una forte divisione del lavoro, da una gerarchia ben definita e da norme sociali che garantivano l’inclusione e la solidarietà. Le riforme come lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e le norme contrattuali consolidavano il legame tra individuo e istituzione, promuovendo un modello di fedeltà aziendale e sicurezza previdenziale. Con l’avvento della globalizzazione, della digitalizzazione e delle trasformazioni tecnologiche, autori come Ulrich Beck hanno descritto la nascita della “società del rischio”, in cui le tradizionali garanzie diventano sempre più fragili. In tale contesto, la progressiva erosione del modello industriale ha fatto emergere una realtà caratterizzata da contratti precari e forme di lavoro atipiche, in cui il rischio diventa una componente intrinseca della vita professionale e al contempo tale instabilità, si è diffusa nel tessuto sociale generando precarietà e marginalità sociale. Anche per buona parte dei Millennials calabresi, l’approccio al lavoro assume una identità diversa rispetto al passato.

La nuova etica del lavoro non è più solo una questione economica, ma rappresenta anche un percorso di autodefinizione e realizzazione personale. Da un punto di vista sociologico, grazie al pensiero di Anthony Giddens sulla “riflessività della modernità”, comprendiamo perché i giovani contemporanei sono chiamati a rinegoziare il significato del lavoro in un contesto in cui la tradizionale identità professionale si dissolve a favore di una molteplicità di esperienze e ruoli. In Calabria, il tessuto economico è stato storicamente segnato da instabilità e disuguaglianze e l’adozione di modelli flessibili – come il lavoro freelance, lo smart working e l’autoimprenditorialità – risponde a un doppio imperativo: cercare autonomia e superare le limitazioni di un mercato del lavoro che, come evidenziato da dati Istat (2023), registra un aumento del 40% dei contratti a termine negli ultimi dieci anni.

La carenza di tutele sociali, la difficoltà di accesso al credito per l’autoimprenditorialità e le infrastrutture digitali insufficienti in Calabria rappresentano sfide significative e prioritarie. La lettura sociologica del fenomeno evidenzia come il processo di individualizzazione – caratteristico della modernità tardiva – possa generare un aumento del senso di precarietà e isolamento, se non accompagnato da politiche pubbliche in grado di garantire una rete di sicurezza adeguata. Come già anticipato, il contesto socioeconomico del Sud Italia presenta peculiarità che incidono profondamente sulle scelte dei giovani.

Secondo il recente rapporto Svimez, il tasso di occupazione nel Meridione è inferiore di circa 20 punti percentuali rispetto al Centro-Nord, mentre in Calabria la prevalenza di contratti precari e il lavoro informale sono ormai all’ordine del giorno. Queste condizioni hanno contribuito a creare una “cultura della fuga”.

Il Censis nel 2022 prevedeva che tra il 2000 e il 2020 oltre 500.000 giovani lasceranno il Sud in cerca di opportunità, ponendo lo sguardo all’indietro, quello studio era veritiero e oggi, in mancanza di riforme strutturali e concretezza, si rischia di compiere il secondo atto alimentando ulteriormente la “fuga di cervelli”.

Queste dinamiche orientano la profonda trasformazione culturale in atto nella quale il lavoro diventa uno strumento per esprimere la propria identità e non pià un mezzo per garantire la sussistenza e la progettualità del futuro. Tale dinamica, attraverso le scienze sociali, può essere letta come un processo di disaffezione dalle istituzioni e dalla tradizione, in cui la mancanza di investimenti in infrastrutture digitali e la debolezza del tessuto imprenditoriale locale spingono i giovani a cercare identità e opportunità altrove.

La teoria della “società liquida” di Zygmunt Bauman, oltre a descrivere un mondo in cui le strutture sociali sono in costante divenire e l’incertezza è una normalità, trova una perfetta applicazione in questo contesto ma trascura l’evidente segno di malessere delle generazioni anziane, sempre più sole e soprattutto esposte ad un sistema di istituzioni digitali con le quali, il digital divide, non consente il dialogo.

L’evoluzione del mondo del lavoro e il rifiuto del posto fisso da parte dei giovani del Meridione costituiscono una sfida complessa che richiede una riflessione multidimensionale. Se da un lato il modello tradizionale si dimostra ormai inadatto a una società in rapido cambiamento, dall’altro l’assenza di un adeguato supporto strutturale rischia di tradurre la flessibilità in ulteriore precarietà.

Le teorie sociologiche contemporanee ci invitano a considerare il lavoro non solo come una dimensione economica, ma anche come uno spazio di identità, appartenenza e trasformazione sociale. La sfida per il futuro sarà quella di coniugare innovazione e stabilità, promuovendo politiche che incentivino l’autoimprenditorialità e investimenti nelle infrastrutture digitali, senza dimenticare l’importanza di una tutela sociale che risponda alle nuove dinamiche del mercato.

In definitiva, il fenomeno osservato nel Meridione non rappresenta un semplice capovolgimento delle logiche occupazionali, ma una profonda trasformazione del modo in cui le nuove generazioni concepiscono il proprio futuro e il loro ruolo nella società. Solo attraverso una comprensione integrata di queste dinamiche sarà possibile costruire un modello di sviluppo che valorizzi la flessibilità senza sacrificare la sicurezza e l’inclusione sociale. (fr)

[Francesco Rao è docente a contratto cattedra di sociologia generale – Università “Tor Vergata” Roma]

SANITÀ CALABRIA, OCCHIUTO ANNUNCIA:
«A BREVE FINISCE IL COMMISSARIAMENTO»

di SANTO STRATI – Sanità in Calabria, fine del commissariamento? Lannuncio lo dà il presidente Roberto Occhiuto durante un incontro/forum alla sede de Il Quotidiano del Sud, promosso dal direttore Massimo Razzi.

È una notizia shock, bellissima, difficile persino da credere. Ma bisogna crederci, visto che sulla Sanità calabrese Occhiuto ci ha messo la faccia e rischia quotidianamente la sua credibilità.

È ottimista Occhiuto, visibilmente provato da un recupero post operatorio che appare troppo lento, e, nella redazione centrale di Castrolibero azzarda che entro qualche settimana la sanità calabrese sarò fuori dal commissariamento. Se lo afferma, non solo ne è convinto, ma evidentemente ha ricevuto le dovute rassicurazioni dal Governo che siamo davvero al traguardo.

Una buona notizia per la Calabria e per i calabresi che dal 2009 sono sotto commissariamento e ne hanno viste di cotte e di crude, tra annunci, incapacità gestionali, promesse e, soprattutto, chiusure di ospedali. Uscire dal commissariamento quantomeno significa poter ricominciare a investire per garantire la salute ai calabresi, che continuano a regalare” milioni (340 secondo lultima stima) ogni anno alle altre regioni, dove vanno a farsi curare in ospedali più “avanzati” e dove, loro malgrado, trovano ottimi medici calabresi.

Si parla dialetto calabrese a Roma, Milano, Pavia, Padova e in gran parte delle strutture sanitarie del Nord: è il risultato degli esodi (molti controvoglia) di ottimi specialisti che hanno dovuto lasciare la propria terra e che nessuno riesce a far tornare (mancano soprattutto le possibilità economiche).

La fine di questorrendo bavaglio alla sanità pubblica potrebbe significare un nuovo slancio tutto a respiro regionale nella gestione della sanità pubblica il cui patatrac – non dimentichiamolo – è stato anche provocato da commissari di Governo inviati dallo Stato, che, però, continua a non volersi assumere alcuna colpa pur avendo gestito, per indiretta persona, lo scandalo di fatture pagate più volte, di ospedali chiusi, di reparti mai aperti, di attrezzature lasciate a morire nella loro obsolescenza senza venire utilizzate alla bisogna.

La storia della sanità calabrese è drammaticamente insopportabile e insostenibile sotto tutti i punti di vista e i rimedi, ad oggi, sono stati troppo blandi se non forieri di ulteriori spese.

Certo, va considerato che la fine del commissariamento non significa che viene annullato il piano di rientro, a cui prima o poi bisognerà venirne fuori, ma è decisamente un grosso passo in avanti per riorganizzare, con responsabilità unicamente regionale, tutto lapparato, mettendo ordine nelle tantissime, troppe, criticità.

Al direttore Razzi – cui bisogna dare atto di avere promosso una intelligente e coraggiosa campagna giornalistica attraverso il Quotidiano del Sud per la sanità calabrese – il presidente Occhiuto risponde mostrando sicurezza: «Sono assolutamente convinto che il commissariamento non sia una buona cosa per il governo della sanità in Calabria, lo ha anche detto la Corte costituzionale due volte. Ho lavorato nei mesi passati per ottenere dai Ministeri affiancanti la possibilità di poter uscire dal commissariamento. Io ho maturato un’esperienza nei palazzi della politica romana e spesso faccio cose che vengono interpretate come strappi. Un esempio sono gli emendamenti».

«Volevo un’assunzione di responsabilità dei Ministeri – ha spiegato – che ci dessero i dati sul punteggio Lea e si esprimessero sulla chiusura dei bilanci e la loro certificazione. Gli emendamenti sono serviti a questo. Li farò ritirare perché ho avuto la rassicurazione da parte del governo che la sanità calabrese uscirà, da qui a qualche settimana, dal commissariamento. E io vorrei che uscisse non per una norma ma per una delibera del Consiglio dei ministri proposta dal Mef e dal Ministero della Salute».

Secondo il Presidente Occhiuto, «Avendo finalmente il governo dei conti e i Lea in crescita, il commissariamento non ha più senso di esistere. Chiaramente rimarremo in piano di rientro, ma il mio obiettivo di medio periodo e quello di uscire anche da questo. Utilizzeremo parte della fiscalità aggiuntiva per colmare il deficit».

«Se noi riuscissimo con i Lea del 2024 ad essere verdi su tutti e tre gli aggregati (ospedaliero, prevenzione e distrettuale) potremmo chiedere l’uscita dal piano di rientro – ha detto –. Altra cosa: ho chiesto al governo di darmi una mano per concludere i tre grandi ospedali. Sibari procede e sarà completato prima della fine della legislatura, a Vibo c’è stato un incontro con il concessionario e aggiorneremo il piano finanziario per accelerare i lavori. Sulla Piana il concessionario ha chiesto 190 milioni in più, noi siamo disponibili ad un aggiornamento del Pef».

«Mi sto assumendo tantissime responsabilità – ha ricordato – e rischio di essere rincorso dalla Corte dei Conti per i prossimi decenni. Però l’ho fatto perché altrimenti non l’avremmo finito. Ho chiesto al governo poteri di Protezione Civile per procedere più velocemente con gli adempimenti previsti. E questo per i tre ospedali più il Policlinico universitario di Cosenza e una parte dell’ospedale di Reggio. Ho fiducia».

Lo scetticismo dei calabresi è duro da scalfire, nonostante liniezione di fiducia e ottimismo del Presidente Occhiuto. Il percorso non è libero da ostacoli e, probabilmente, lAzienda Zero non ha ancora le capacità operative (tipo bacchetta magica…) per sistemare conti e aziende e, soprattutto, poter garantire ai calabresi che vivono in regione e hanno diritto di curarsi adeguatamente vicino ai loro affetti e alle loro case, il livello di prestazioni sanitarie degne di questo nome. È un impegno, non soltanto una promessa, quanto affermato da Occhiuto. (s)

ANALFABETISMO FUNZIONALE, IN CALABRIA
È SOLO COLPA DELLA FORMAZIONE?

di ROCCO ROMEO – Un dato allarmante emerge dall’ultima indagine OCSE: oltre il 30% degli italiani adulti è classificabile come analfabeta funzionale. Questo significa che più di un terzo della popolazione adulta del Paese ha difficoltà significative nel comprendere un testo, analizzare informazioni complesse o risolvere problemi di base.

Una realtà che pone l’Italia all’ultimo posto tra i Paesi industrializzati, rendendo evidente l’urgenza di un intervento strutturale su più fronti.

Il peso del Mezzogiorno e il caso della Calabria

La situazione è particolarmente critica nel Mezzogiorno, e la Calabria rappresenta uno degli esempi più preoccupanti. In questa regione, i livelli di alfabetizzazione funzionale e digitale sono tra i più bassi d’Italia, un dato che si riflette non solo sulle opportunità personali dei cittadini, ma sull’intero tessuto sociale ed economico. Nonostante gli sforzi messi in campo, le scuole calabresi continuano a fronteggiare carenze infrastrutturali, una cronica mancanza di risorse e una dispersione scolastica tra le più alte del Paese.

La Calabria soffre anche di una forte disuguaglianza nell’accesso all’istruzione di qualità: molte aree interne e rurali mancano di scuole adeguate e moderne, costringendo numerosi giovani a percorrere lunghe distanze o ad abbandonare gli studi. Questo squilibrio territoriale contribuisce a peggiorare il divario rispetto al resto del Paese, limitando le possibilità di crescita economica e sociale.

Le cause di un problema strutturale

Le radici dell’analfabetismo funzionale sono profonde. Da un lato, la scuola fatica a garantire una formazione solida e continua, specialmente nelle regioni più svantaggiate come la Calabria. Dall’altro, decenni di politiche inadeguate non sono riusciti a contrastare fenomeni come la dispersione scolastica, l’abbandono precoce e la mancanza di connessione tra scuola e mondo del lavoro.

La transizione digitale ha amplificato ulteriormente il problema: in Calabria, dove l’accesso a internet è meno diffuso e le competenze tecnologiche sono limitate, il rischio di esclusione sociale ed economica è ancora più alto. Senza una strategia mirata, questa regione rischia di rimanere intrappolata in un circolo vizioso di povertà educativa e disuguaglianza.

Le conseguenze: una democrazia fragile

L’analfabetismo funzionale non è solo un problema individuale, ma un freno per l’intera società. La difficoltà di comprendere e analizzare informazioni complesse riduce la partecipazione civica, rendendo le persone più vulnerabili alla manipolazione mediatica. Questo fenomeno mina le basi della democrazia e ostacola lo sviluppo economico in un contesto globale dove conoscenza e competenze sono risorse fondamentali.

Le possibili soluzioni

Per affrontare l’emergenza, è necessario un piano strategico che metta al centro la scuola e l’apprendimento permanente:

Potenziamento delle competenze linguistiche e logiche fin dalla scuola primaria, con interventi mirati nelle regioni più svantaggiate come la Calabria.

Lotta alla dispersione scolastica, soprattutto nelle aree rurali e interne, attraverso incentivi, borse di studio e supporti per le famiglie in difficoltà.

Investimenti in infrastrutture scolastiche e digitali, con particolare attenzione alle regioni del Mezzogiorno. In Calabria, questo significa garantire connessione internet nelle scuole e nelle comunità isolate.

Formazione continua per gli adulti, coinvolgendo aziende e istituzioni locali per creare percorsi di riqualificazione accessibili e gratuiti.

La scuola sta facendo la sua parte?

La scuola italiana è chiamata a evolversi per colmare il divario delle competenze, ma la Calabria ha bisogno di interventi mirati e immediati. Le politiche educative devono adattarsi ai cambiamenti della società e alle esigenze dei territori, soprattutto quelli più deboli. Solo con un sistema scolastico moderno, inclusivo e attento alle specificità regionali, l’Italia potrà combattere l’analfabetismo funzionale e garantire alle nuove generazioni un futuro migliore.

Conclusione

L’analfabetismo funzionale è un ostacolo che l’Italia, e in particolare regioni come la Calabria, non può più ignorare. Serve un’azione decisa e strutturata, capace di mettere al centro del dibattito pubblico l’importanza dell’istruzione e della cultura. Solo così potremo costruire una società più equa, competitiva e preparata ad affrontare le sfide del futuro. (rr)

 

Giusi Princi: Con Ministro Foti incontro produttivo, Calabria sia motore di sviluppo

L’eurodeputata Giusi Princi ha incontrato a Bruxelles, assieme a un ristretto gruppo di colleghi eurodeputati italiani di altre delegazioni, il Ministro italiano per gli Affari europei, le Politiche di coesione e il Pnrr, Tommaso Foti.

«È stato un incontro produttivo, durante il quale sono stati trattati temi di grande rilievo», ha detto Princi, che ha ringraziato il Ministro Foti «per la sua disponibilità. Abbiamo sostenuto la vicepresidenza esecutiva del suo predecessore, Raffaele Fitto. Una nomina che saprà rafforzare ancora di più il ruolo del nostro Paese, già centrale anche grazie all’impegno di Forza Italia nel PPE e del nostro vicepremier Antonio Tajani, che anche in quel caso ha svolto un prezioso ruolo di intermediazione».

«Al Ministro Foti –  ha spiegato Princi – ho evidenziato la centralità delle regioni del Sud, e in particolare della Calabria, come motore di sviluppo per tutto il Paese e, di conseguenza, per l’intera Europa».

«Occorre avviare un percorso strutturato, in sinergia tra istituzioni, per sviluppare le infrastrutture – ha sottolineato – far fronte alla denatalità e alla fuga dei cervelli, dare maggiori opportunità ai giovani. Esempi virtuosi e concreti ci sono: la Calabria lo scorso anno, quando ero Vicepresidente della Regione, grazie all’impegno del Presidente Occhiuto, ha firmato con il Governo un importante accordo per il Fondo sviluppo e coesione di circa 3 miliardi di euro».

«È stata la decima Regione che ha firmato l’accordo – ha ricordato – la prima a sottoscriverlo in tutto il Mezzogiorno d’Italia. Camminare insieme, quindi, è fondamentale ed è possibile. Abbiamo bisogno di un Sud forte per un’Italia più forte in un’Europa ancora più forte».

«La Calabria, dunque – ha concluso Giusi Princi –, oggi può essere un modello: grazie alla governance nella gestione dei fondi, portata avanti dal Presidente Occhiuto, e alla sinergia istituzionale del centrodestra a vari livelli, la regione sta riuscendo a ridurre il divario con gli altri territori e non essere più fanalino di coda in termini di sviluppo e crescita». (rrm)

LOCRIDE, LA CHIESA ACCANTO AI SINDACI
PERCORSO DI COMUNITÀ DA FARE INSIEME

di MONS. FRANCESCO OLIVA – Carissimi, sento di dovervi ringraziare ancora una volta per l’incontro di saluto e di augurio in occasione del Santo Natale, ma ancor più per il lavoro che quotidianamente svolgete a favore di questa meravigliosa terra. In un contesto sociale delicato e difficile, con non pochi condizionamenti.

Ponendovi in prima linea nel lottare e ricercare le risorse necessarie per la vita e la cura delle nostre comunità.
Condivido le vostre sofferenze e l’impegno a conservare nei territori gli ultimi presidi di formazione (scuole e asili), di vita sociale (sportelli postali, bancari) e di altri servizi essenziali. Provando spesso un senso di frustrazione, quando agli sforzi compiuti non seguono i risultati sperati e quando la stessa comunità non coglie il valore dei vostri tanti sforzi compiuti. Spesso avvertendo un senso di solitudine.

Spendersi per la propria comunità e lavorare con passione è di per sé stesso un percorso che ripaga il vostro impegno. Senza lasciarsi coinvolgere nelle logiche partitiche e dei gruppi di potere che intendono ridurre tutto alla logica del proprio interesse e profitto. La vostra gioia sia sempre nel fare tutto per il bene comune, difendendo le comunità dall’arroganza di chi mette sempre al primo posto gli interessi personali. Camminate con lo sguardo attento sempre e solo ai bisogni della gente.

Apprezzo l’attenzione che prestate nella valorizzazione e custodia dei centri storici. Un patrimonio di arte, storia e cultura che va gelosamente custodito. Nonostante lo spopolamento. Sono le radici della nostra storia ed ogni edificio, castello, torre, piazzetta, vicolo, fontana, Chiesa racconta un vissuto che ci appartiene. Su di essi è bene investire risorse con eventi culturali, di folklore e di tradizioni.

Troppo spesso vi trovate a difendere il territorio comunale da attività che ne compromettono l’integrità. Penso all’abbandono dei rifiuti, al degrado degli spazi pubblici, all’inquinamento ambientale, agli incendi estivi, all’abusivismo edilizio ecc. La gente apprezza la buona amministrazione. Lo dimostrano la buona risposta nella raccolta differenziata dei rifiuti, tante spontanee iniziative di volontariato, la partecipazione alla vita sociale e civile di tante associazioni. Mi conforta anche – nel rispetto delle reciproche competenze – la collaborazione nei progetti di solidarietà della Caritas diocesana e della Caritas parrocchiali.

La Locride è una bella comunità con una sua identità e le sue tipicità, le sue problematiche e ferite, le sue prospettive di sviluppo e di crescita: esse vanno sempre considerate ed affrontate nella loro specificità. Non può mancare una visione d’insieme e una prospettiva di più ampio respiro, che esige il lavorare in rete. Conosco il vostro cammino e la storia dell’associazione dei Comuni della Locride e del Comitato dei Sindaci. Senza entrare nel merito delle problematiche emerse nel tempo, ho sempre pensato trattarsi di un’organizzazione rispondente alla legittima istanza di fare rete attorno a progetti comuni. Al di là di ogni interesse particolare o di logica localistica.

Sono preoccupato per le tensioni che si sono creati negli ultimi giorni e per il rischio di un generale sfaldamento, con conseguente perdita dei valori che l’avevano ispirata. È vero: ci possono essere fasi di stanchezza, la difficoltà del lavorare insieme. È sempre latente la tentazione di pensare che da soli si possa arrivare prima alla soluzione dei problemi. Ma isolandosi non si va lontano. Lavorando in rete si fa più fatica, ma crescono e si arricchiscono le possibilità di relazioni tra le persone, tra le comunità e gli stessi amministratori.

I problemi sono tanti e gravi: non ci si può dividere. Tra questi mi permetto di segnalare il fenomeno criminale che si alimenta col narcotraffico, l’usura, l’incremento esponenziale delle sale gioco. Le inchieste della Magistratura e delle Forze dell’ordine dimostrano la recrudescenza del fenomeno criminale. Occorre tanto impegno e collaborazione. Ognuno deve fare la propria parte. Sui problemi non ci si può permettere il lusso di dividersi. La responsabilità amministrativa impone coesione e coraggio, il sapere osare oltre le proprie visioni. Lavorare insieme è un bisogno dettato dall’amore per il proprio popolo.

In dialogo con alcuni di Voi pare imprescindibile un Patto per la Locride, ove si colgano e si affrontino insieme i problemi comuni più gravi. I problemi del vicino sono anche i miei problemi. Insieme si lotta per superarli. Insieme ci si sostiene. Insieme si cammina. Al di là degli schieramenti partitici. I problemi comuni sono tanti e non si possono affrontare in una prospettiva municipale. Una scelta sbagliata fa male a tutti. Sarebbe imprudente pensare di risolvere i problemi della “propria” comunità senza considerarli nel contesto più ampio. A tal fine non deve mancare il coraggio della verifica ed eventualmente la disponibilità per gli opportuni correttivi.

Il rinnovamento ed il cambiamento per il bene comune, facendo anche un passo indietro, non è resa, ma saggezza costruttiva e positiva.

Una cosa è certa: i problemi che interessano il nostro territorio, quello della viabilità (SS 106 in primis, collegamenti con i territori più interni e collinari, strada statale 682 Jonio-Tirreno), della rete ferroviaria, dello spopolamento dei centri storici, dell’amministrazione della sanità territoriale, della disoccupazione o dell’emigrazione giovanile, possono essere affrontati solo in una visione d’insieme. In una prospettiva che pone questa terra in una comunità più grande, per la quale molti dei suoi figli hanno versato il loro sangue, pagando di persona un’unità nazionale nella quale hanno fermamente creduto.

La Locride non può essere marginalizzata, terra di periferia penalizzata da uno sviluppo a più velocità. Molto dipende da quanti l’abitiamo, dall’amore che abbiamo per essa. E soprattutto dalla lungimiranza dei suoi amministratori che per amore verso la propria comunità devono mostrare tanto coraggio nel mettere da parte le proprie visioni ed eventuali progetti di fronte alle esigenze del bene più grande dell’intero territorio.

La Locride o cammina insieme o non va da nessuna parte! Occorre superare divergenze e divisioni, guardare con uno sguardo nuovo la realtà sociale e politica, che non è più quella di qualche decennio fa. “L’età del piombo” sembra essere passata. Ma non possiamo godere di una Locride che va spopolandosi, desertificandosi sempre più. I cambiamenti climatici si riflettono anche sulla nostra area. Se i giovani vanno via, se tante eccellenze locali emigrano, una ragione dev’esserci. Sono questi i problemi che c’interpellano, che interpellano giorno dopo giorno chi è chiamato ad amministrare.

Chiudo questa mia lettera, che spero non sia considerata invadente, con il richiamo di papa Francesco nell’enciclica “Laudato sì”: “Siamo tutti connessi!”.

Essere consapevoli di questa verità elementare sta alla base di ogni sana politica. Con la stessa consapevolezza sono con voi, soffro con voi, ma soprattutto cammino con voi. (fo)

[Mons. Francesco Oliva è vescovo della Diocesi di Locri-Gerace]