CRESCE L’EXPORT REGGINO: È +91,9 MLN
ORA PRESERVARE LE IMPRESE CALABRESI

È un andamento in crescita, quello registrato dalle imprese della Città Metropolitana di Reggio Calabria i cui beni esportati sul finire del II trimestre del 2022 ha registrato un valore pari a 91,9 mln di euro, ossia il 49,9% del valore esportato dalla Regione.

È quanto ha riferito la Camera di Commercio di Reggio Calabria, in merito ai dati relativi al flussi commerciali con l’estero, spiegando che, per quanto riguarda le importazioni, sono pari a 92,4 mln di euro, ossia il 33,9% delle importazioni della Calabria, che determina un saldo di bilancia commerciale in equilibrio, pari a -0,5 mln di euro.

Rispetto al I trimestre 2022 le esportazioni reggine aumentano del +21,5%, performance superiore sia all’intera Calabria (+8,3%) sia a livello nazionale (+11,5%). Anche per quanto riguarda le importazioni si registrano variazioni di segno positivo: il valore dei beni importati aumenta del +20,3% a livello provinciale, del +1,9% a livello regionale e del +10,3% a livello nazionale.

Rispetto al II trimestre 2021, il valore delle esportazioni della Città Metropolitana aumenta del +5,3%, del +17,2,% a livello regionale e del +22,2% a livello nazionale. Al contempo, il ricorso all’import aumenta del +42,9%, più che a livello regionale (+24,6%) e in linea a livello nazionale (+45,8%). Le esportazioni e le importazioni reggine sono in aumento nel I semestre 2022 rispetto allo stesso semestre del 2021 del 24% e del 53,2% rispettivamente. 

Con riferimento al II trimestre 2022, le vendite oltreconfine della Città metropolitana di Reggio Calabria riguardano principalmente tre settori: il settore della chimica (53,9 milioni di euro, pari al 58,6% dell’export locale), il settore alimentare (27,1 milioni di euro di beni venduti all’estero, il 29,5%) e il settore della gomma, plastica (3 milioni di euro, il 3,3%). Meno significativo l’apporto alle vendite oltreconfine fornito da settori come l’agricoltura e il legno (rispettivamente 2,2 e 1,3 milioni di euro). 

Il principale paese di sbocco per l’export reggino sono gli Stati Uniti, cui sono destinati beni e servizi per un valore pari a 11,3 milioni di euro (il 12,3% del valore complessivamente esportato). A seguire troviamo le quote export relative al mercato giapponese (7,8 milioni di euro, pari al 8,5% del totale), francese (7,6 milioni di euro, l’8,3%) e olandese (6,1 milioni di euro, il 6,7%). Rilevanti anche le quote export indirizzate verso la Germania (5,8 milioni di euro, pari al 6,3%) e l’Arabia Saudita (4,7 milioni di euro, pari al 5,1%).

Per Antonino Tramontana, presidente della Camera di Commercio di Reggio Calabria, «l’andamento positivo dei flussi commerciali con l’estero rappresenta un’iniezione di fiducia per l’economia reggina ed è il segnale del dinamismo delle nostre imprese e della loro capacità di reazione di fronte al perdurare della crisi».

Quelli della Camera di Commercio di Reggio Calabria, infatti, confermano un trend già esposto, recentemente, dall’ex ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che aveva evidenziato come l’export calabrese nel 2021 è cresciuto del 33%.

Un dato non insignificante, se si considera che l’export calabrese «ha contribuito al raggiungimento dei 516 miliardi di valore complessivo nazionale del 2021, anno in cui si è registrato il record assoluto», e che le «aziende calabresi hanno incrementato le esportazioni anche nel primo trimestre di quest’anno – ha proseguito – con un eccezionale +56,8% molto confortante».

Come riportato dall’Osservatorio Internazionale della Regione Calabria a giugno 2022, infatti, ci sia stato un recupero delle esportazioni per la Calabria: + 32,9% e + 19,2% rispetto al 2020 e al 2019, che la inserisce nell’alveo delle regioni che registrano una crescita superiore al valore nazionale (+18,2%) insieme a Sardegna (+63,4%), Sicilia (+38,8% ), Valle d’Aosta (+28,0%), Friuli Venezia Giulia (26,8%%), Umbria (23,4%), Molise (+21,3%), Piemonte (+20,6%), Trentino Alto Adige (+20,5%), Lombardia (+19,1%)».

Dato interessante, è che il 50,5% dell’export calabrese (pari a 276 M€) proviene dalla provincia di Reggio Calabria, seguita da Cosenza con un valore dell’export che si attesta sui 116 M€ (pari al 21,3% dell’export regionale); la provincia di Catanzaro (78 M€, pari al 14,3%), la provincia di Crotone (42 M€, pari al 7,8%) e la provincia di Vibo Valentia (34 M€, pari al 6,0%).

Numeri, questi riportati, che dimostrano come i prodotti calabresi nel mondo piacciono e continuano a piacere, aumentando sempre di più la domanda di prodotti unici che valorizzano e raccontano di un territorio in cui la gastronomia ne è la regina.

Fatti, che devono portare il nuovo Governo a trovare una soluzione tempestiva alla crisi energetica che sta colpendo il Paese e che rischia di far chiudere tantissime imprese che, con i loro prodotti e il loro lavoro, esportano la Calabria nel mondo e che potrebbe far perdere questi piccoli ma fondamentali passi in avanti fatti dalla Calabria nel lungo cammino della ripresa.

Come ha denunciato il presidente di Confesercenti Reggio CalabriaClaudio Aloisio, «da ottobre, e non ci saranno misure di tutela da parte dello Stato, sono previsti nuovi rincari per famiglie e imprese su gas ed energia tra il 60% e il 100%. Il tessuto imprenditoriale e i cittadini non riescono a far fronte agli attuali costi che per alcuni sono quadruplicati, figurarsi a sopportare un ulteriore aumento che raddoppierebbe i prezzi attuali». Per questo, secondo Aloisio, serve una risposta forte dall’Europa «che deve intervenire nell’immediato con un’iniezione di liquidità per far fronte agli aumenti senza che questi si ripercuotano su aziende e famiglie e contestualmente operare per calmierare un mercato evidentemente ostaggio di operazioni speculative».

Anche Cgil, Cisl e Uil Calabria, insieme a Confindustria Cosenza, avevano denunciato come la crisi energetica mette a rischio la tenuta delle filiere produttive e del potere d’acquisto delle famiglie.

Una situazione che desta preoccupazione in tutto il Paese, «ma ancora di più – viene evidenziato in una nota – in un territorio come quello regionale e provinciale che sconta un quadro di fragilità maggiore rispetto al resto del territorio nazionale. Gli incrementi fuori controllo dei prezzi del gas, aumentato del 700 per cento, e dell’energia elettrica aumentata del 200 per cento, stanno causando conseguenze gravissime per le imprese e le famiglie, già duramente provate dal periodo pandemico».

In un quadro macroeconomico segnato da un preoccupante rallentamento dell’economia e aggravato da un divario sociale e territoriale sempre più profondo che vede centinaia di migliaia calabresi a rischio di povertà, l’appello diretto alla politica, e in particolare alla deputazione territoriale calabrese, è quello di «concentrare subito le forze per dare risposte puntuali al grido d’allarme che viene dal territorio. Il tempo gioca un ruolo fondamentale, è in corso un conto alla rovescia che mette in serio pericolo la tenuta di interi settori produttivi e centinaia di posti di lavoro, un’emergenza che se non affrontata, non risparmierà nessuno». (rrm)

 

C’È FISCALITÀ DI VANTAGGIO IN CALABRIA.
UN’OPPORTUNITÀ PER I NUOVI INVESTITORI

di ANTONIO AQUINO – Da alcuni mesi il tema di una “fiscalità di vantaggio” sembra essere tornato alla ribalta fra le politiche da perseguire per stimolare la crescita dell’occupazione e del reddito nelle regioni del Mezzogiorno. In una intervista su Repubblica del 26 luglio 2020, Fabio Panetta, componente del comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, a proposito dell’utilizzo delle risorse che il Recovery fund ha riservato all’Italia, ha sollecitato il governo italiano a cogliere l’opportunità di utilizzare i fondi europei per modernizzare l’economia,  rendendola più rispettosa dell’ambiente, più digitale, più inclusiva,  attenuando le diseguaglianze con la crescita e il lavoro. Ha poi messo in evidenza come una sfida cruciale sia quella del Mezzogiorno, una economia in cui un terzo della popolazione ha un reddito pro-capite pari alla metà di quello del resto del Paese e intere regioni sono afflitte da disoccupazione diffusa e carenza di infrastrutture.

A proposito della possibilità di introdurre  una fiscalità di vantaggio per le regioni del Mezzogiorno,  Panetta ha affermato che  si tratta di un obiettivo ambizioso, su cui in passato ha riflettuto con i colleghi della Banca d’Italia: «Un obiettivo da valutare in ambito sia nazionale sia europeo per le sue implicazioni sulla finanza pubblica e sulla concorrenza, che può essere di importanza fondamentale per rilanciare l’economia del Mezzogiorno». Dichiarazioni a sostegno della fiscalità di vantaggio per le regioni del Mezzogiorno sono state rilasciate  dai principali esponenti del  Governo italiano, e alcune misure sono state introdotte nel decreto legge del 14 agosto 2020. Si ha, però, l’impressione che, per le modalità secondo cui essa sembra essere prefigurata nel decreto legge del 14 agosto e le dichiarazioni dei principali esponenti del Governo italiano (riduzione del corso del lavoro di circa il 10 per cento fra il 2021 e il 2025 e poi gradualmente decrescente fino ad annullarsi entro il 2030), difficilmente essa potrebbe avere un impatto significativo sulla crescita dell’occupazione e del reddito nelle regioni del Mezzogiorno. Per una crescita verso livelli fisiologici del tasso di occupazione nel Mezzogiorno le produzioni a mercato internazionale dovrebbero poter contare su una riduzione del costo del lavoro dell’ordine del 40 per cento garantita per almeno 20 anni. Per evitare che essa abbia un costo eccessivamente elevato per la finanza pubblica essa dovrebbe essere allora drasticamente selettiva; il decreto legge del 14 agosto sembra, invece, prefigurare una fiscalità di vantaggio sostanzialmente “a pioggia”, che comporterebbe una riduzione del tutto insufficiente del costo del lavoro e con un orizzonte temporale troppo breve.

L’articolo 27 del decreto legge 14 agosto 2020 n. 104 prevede che, previa autorizzazione della Commissione europea, al fine di  contenere gli effetti straordinari  sull’occupazione determinati dall’epidemia da COVID-19 in aree caratterizzate da gravi situazioni di disagio socio-economico e tutelare i livelli occupazionali, dal 1° ottobre al 31 dicembre 2020, sia riconosciuta ai datori di lavoro  privati, con esclusione del  settore agricolo e del lavoro domestico, per i dipendenti  la cui sede di lavoro è situata in regioni con un prodotto interno lordo pro capite inferiore al 90 per cento  della media EU27 e un tasso di occupazione inferiore alla media nazionale, un  esonero pari al 30 per cento dei  contributi previdenziali, con esclusione di quelli  spettanti all’Inail, con un onere complessivo per la finanza pubblica pari a circa 1,5 miliardi di euro. Secondo la relazione tecnica della Ragioneria generale dello Stato questa agevolazione contributiva  verrebbe applicata a poco più di tre milioni di lavoratori, con un monte retributivo mensile pari a poco meno di cinque miliardi di euro. La decontribuzione equivarrebbe quindi in media a circa il 10 per cento della retribuzione, e, in termini assoluti a circa 170 euro mensili per lavoratore. Per ogni cento abitanti, i  lavoratori beneficiari della decontribuzione sarebbero  circa 10 in Calabria, 12 in Sicilia, 14 in Molise, 15 in Sardegna, Campania e Puglia, 16 in Basilicata, 19 in Abruzzo e 20 in Umbria.

Il secondo comma dell’articolo 27 prevede ulteriori misure di decontribuzione per gli anni dal 2021 al 2029, di accompagnamento agli interventi di coesione territoriale del Piano Nazionale di ripresa e Resilienza e dei Piani Nazionali di Riforma, al fine di favorire la riduzione dei divari territoriali. La definizione delle  caratteristiche di queste future misure di agevolazione contributiva è rimandata a un decreto del Presidente del Consiglio del Ministri da adottarsi entro il 30 novembre 2020. Secondo le dichiarazioni rilasciate dal Ministro dell’Economia e delle finanze e dal Ministro per il Sud e la Coesione territoriale nella prima metà di agosto l’intenzione del Governo sembrerebbe essere di estendere sostanzialmente gli sgravi già decisi per gli ultimi tre mesi del 2020 fino al 2025, e di ridurli poi gradualmente fino ad azzerarli entro il 2030.

Si tratterebbe di una decontribuzione sostanzialmente “a pioggia”, essendo applicata a quasi tutti i lavoratori dipendenti da imprese private nelle regioni del Mezzogiorno e quindi necessariamente di una entità troppo modesta e per un periodo di tempo troppo breve per poter incidere significativamente sull’occupazione. Una decontribuzione settorialmente molto selettiva applicata in misura molto più forte e per un periodo di tempo molto più lungo potrebbe stimolare una crescita verso livelli fisiologici del tasso di occupazione nelle regioni del Mezzogiorno, senza oneri significativi, e probabilmente anzi con effetti positivi nel lungo periodo, per la finanza pubblica.

L’Italia presenta una diversificazione regionale dal punto di vista del tasso di occupazione  che non  sembra avere corrispondenza in nessun  altro paese industriale. Una differenza di quasi 30 punti percentuali è stato registrato nel 2018 nel tasso di occupazione  fra l’Emilia Romagna nel Nord dell’Italia (70) e Campania e Sicilia nel Mezzogiorno (41). Nelle altre regioni del Nord il tasso di occupazione, analogo a quello medio dei grandi paesi industriali, è soltanto di poco inferiore a quello dell’Emilia Romagna  (68 in Lombardia e Triveneto, 66 in  Piemonte). Tassi di occupazione soltanto di poco inferiori alla media delle regioni del Nord sono registrati dalla Toscana (67), da Umbria e Marche (65), e dalla provincia di Roma (64). Il tasso di occupazione scende verso valori intorno a 56 nelle altre province del Lazio (59 Rieti, 55 Latina e Viterbo, ma solo 48 nella provincia di Frosinone), e in tre regioni del Mezzogiorno settentrionale (58 in Abruzzo, 55 in Molise e 54 in Sardegna). Fra le altre regioni del Mezzogiorno, soltanto la Basilicata registra un tasso di occupazione, sia pur leggermente, superiore a 50, mentre il tasso di occupazione è in Puglia soltanto di un punto superiore alla media del Mezzogiorno (46). Queste differenze, rilevate per il 2018, sono rimaste, sia pur con oscillazioni, sostanzialmente invariate negli ultimi 30 anni secondo i dati della Banca d’Italia.

Oltre al bassissimo tasso di occupazione, le regioni del Mezzogiorno sono caratterizzate da forti flussi emigratori di  persone in età da lavoro, da un tasso di irregolarità del lavoro molto elevato (circa il doppio di quello, sostanzialmente fisiologico, delle regioni del Nord), da una domanda di lavoro proveniente pressoché esclusivamente da attività produttive a mercato esclusivamente locale e da una forte carenza di occupazione in attività produttive a mercato internazionale.

Principalmente in conseguenza del bassissimo tasso di occupazione, e in minor misura della minore produttività, il reddito per abitante prodotto nelle regioni del Mezzogiorno è in media circa la metà di quello delle regioni del Nord dell’Italia. Gli effetti sul reddito disponibile delle famiglie della minore produzione di reddito sono in misura significativa compensati in media da trasferimenti dal Nord dell’Italia che negli ani settanta e ottanta superavano il 20 per cento del prodotto interno lordo del Mezzogiorno e che, pur essendo diminuiti in misura significativa negli ultimi 30 anni, rappresentano ancora circa il 16 per cento del PIL del Mezzogiorno. Dal punto d vista degli equilibri complessivi di finanza pubblica, la forte carenza di occupazione, e quindi di produzione di reddito, nelle regioni del Mezzogiorno ha comportato una crescita fin verso livelli molto levati del debito pubblico italiano, nonostante elevati livelli di tassazione e significative restrizioni della spesa pubblica con effetti particolarmente negativi per la sanità e l’istruzione. Amartya Sen ha inoltre magistralmente messo in evidenza come la carenza di opportunità di lavoro abbia effetti negativi di natura anche non economica. La determinante fondamentale della forte carenza di occupazione è la carenza di competitività delle produzioni del Mezzogiorno. Nelle regioni del Mezzogiorno l’impatto sulla domanda di lavoro della finanza pubblica, misurato da spesa pubblica meno tassazione è fortemente espansivo, questo effetto espansivo è tuttavia più che compensato  da un valore estremamente basso di domanda di beni prodotti nel Mezzogiorno proveniente da altre regioni o paesi e da un valore molto elevato della quota del reddito disponibile nel Mezzogiorno speso nell’acquisto di beni prodotti in altre regioni e paesi.

Non essendo politicamente praticabile un aumento significativo dell’effetto espansivo della finanza pubblica,  l’unica via realisticamente perseguibile per stimolare  un forte aumento delle opportunità di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno sembra essere un forte aumento della competitività delle produzioni del Mezzogiorno esposte alla concorrenza internazionale, in modo da stimolare un forte aumento della domanda per i beni prodotti nel Mezzogiorno proveniente da altre regioni e paesi e una forte diminuzione della quota della domanda interna del Mezzogiorno rivolta a beni prodotti in altre regioni e paesi. Ciò può essere efficacemente perseguito concentrando la fiscalità di vantaggio sui beni a mercato internazionale, così da consentire con un lungo orizzonte temporale un drastica riduzione del costo del lavoro per le produzioni nel Mezzogiorno di beni a mercato internazionale, senza oneri rilevanti per la finanza pubblica. Mediante una fiscalità di vantaggio drasticamente selettiva ma molto forte e con un lungo orizzonte temporale sarebbe possibile innescare nelle regioni del Mezzogiorno un vigoroso processo di crescita dell’occupazione e del reddito trainato dalle esportazioni nette (Net exports led growth) in grado di avviare verso la normalità la relazione fra domanda e offerta di lavoro senza oneri rilevanti, e probabilmente con effetti nel lungo periodo addirittura positivi, per la finanza pubblica.

Circa tre milioni di posti di lavoro separano in complesso  le regioni del Mezzogiorno da un tasso di occupazione analogo a quello delle regioni del Nord dell’Italia, a sua volta sostanzialmente analogo a quello medio dei principali paesi industriali (fra 65 e 70 occupati per ogni cento persone in età da lavoro. Un aumento di occupazione di un tale ordine di grandezza potrebbe essere ottenuto stimolando un aumento dell’ordine di un milione di unità della domanda di lavoro per le attività produttive di beni a mercato internazionale localizzate nelle regioni del Mezzogiorno,  portando così l’occupazione in queste attività dalle attuali circa 800 mila unità verso quasi  due milioni di unità. Un aumento di occupazione di tale ordine di grandezza potrebbe essere stimolato da una  “svalutazione fiscale” tale da ridurre di circa il 40 per cento il costo del lavoro per le produzioni a mercato internazionale, mantenendo al contempo  le retribuzioni di chi lavora in queste imprese pienamene competitive rispetto a quelle ottenibili nelle produzioni a mercato esclusivamente locale, e in particolare nel pubblico impiego. Il reddito aggiuntivo prodotto in queste attività, ipotizzando un valore pari a 2 per il moltiplicatore keynesiano, potrebbe stimolare una domanda aggiuntiva di lavoro nelle attività produttive a mercato esclusivamente locale localizzate nelle regioni del Mezzogiorno dell’ordine di due milioni di unità. Il reddito aggiuntivo prodotto in queste attività potrebbe a sua volta generare entrate fiscali e contributive addizionali tali da più che compensare  gli iniziali sgravi fiscali e contributivi per le attività produttive di beni a mercato internazionale.

Soltanto per le produzioni di beni a mercato prevalentemente non locale una fiscalità di vantaggio volta  a ridurre il costo del lavoro  può stimolare un aumento significativo della domanda di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno. Ciò perché per queste produzioni una riduzione del costo del lavoro può determinare significativi spostamenti di domanda sia interna che esterna verso le produzioni localizzate nel Mezzogiorno. Per le produzioni a mercato esclusivamente locale, invece, la domanda di lavoro è determinata pressoché esclusivamente dalla dimensione della domanda locale. Per le produzioni di beni a mercato internazionale un forte aumento della domanda di lavoro richiede però un fiscalità di vantaggio così forte da determinare una riduzione del costo del lavoro tale da più che compensare la minore produttività in queste attività delle imprese localizzate nel Mezzogiorno; essa  inoltre dovrebbe diminuire molto gradualmente, soltanto nella misura in cui diminuisce il divario di produttività. A parità di onere per la finanza pubblica gli effetti di sgravi fiscali e contributivi sarebbero molto più forti se venissero concentrati selettivamente sulle produzioni localizzate nelle regioni del Mezzogiorno di beni a mercato internazionale (principalmente prodotti dell’industria manifatturiera e servizi informatici). Paradossalmente, una espansione significativa dell’occupazione nelle produzioni a mercato esclusivamente locale potrebbe essere determinato proprio dalla concentrazione degli sgravi contributivi nelle attività produttive esposte alla concorrenza esterna, per via dell’aumento di occupazione e reddito in queste attività, e quindi della domanda interna nel Mezzogiorno.

Dopo alcuni anni l’aumento di reddito generato nelle attività produttive a mercato internazionale determinerebbe ulteriori aumenti di reddito nelle produzioni a mercato locale e quindi aumenti delle entrate fiscali e contributive che potrebbero più che compensare nel lungo periodo le iniziali riduzioni di entrate fiscali e contributive. Un altro effetto positivo sarebbe rappresentato dagli aumenti di produttività stimolato dal fenomeno del “learning by doing”, particolarmente significativo in particolare nelle produzioni manifatturiere. Gli oneri delle iniziali riduzioni delle entrate fiscali e contributive possono essere in realtà considerati come spese per investimento in capitale umano, e in particolare in quel capitale umano la cui carenza è all’origine della carenza di opportunità di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno: le abilità e capacità necessarie per essere competitivi nella produzione di beni a mercato internazionale. Infine, l’aumento delle opportunità di lavoro potrà anche a stimolare un aumento del “capitale sociale” nelle regioni del Mezzogiorno, per i suoi effetti sulla fiducia nelle istituzioni, e rendere più efficaci le azioni di  contrasto alle attività illegali.

In sintesi, per avere un impatto significativo su occupazione e reddito nelle regioni del Mezzogiorno con un onere contenuto, o addirittura con effetti positivi nel lungo periodo, per la finanza pubblica, la riduzione degli oneri fiscali e contributivi dovrebbe: 1) essere applicata soltanto alle produzioni  a mercato internazionale, e in particolare alle attività manifatturiere; 2) determinare una riduzione del costo del lavoro per le imprese  di almeno il 40 per cento[7]; 3) essere credibilmente garantita alle imprese per almeno 20 anni, con una possibile graduale, lenta  riduzione negli anni successivi, man mano che diminuisce il divario di produttività fra Nord e Sud dell’Italia nelle produzioni a mercato internazionale.

Carlo Azeglio Ciampi, durante la sua Presidenza, aveva sottolineato più volte come il Mezzogiorno sia l’area dell’Italia con le maggiori potenzialità di crescita della produzione e del reddito per  la grande disponibilità di lavoro non utilizzato. Fino ad oggi, tuttavia, il lavoro non utilizzato nelle regioni del Mezzogiorno ha rappresentato un problema, invece che una opportunità di crescita per l’Italia. Neppure la “nuova programmazione” impostata negli anni novanta anche su impulso del Presidente Ciampi è riuscita a stimolare nel Mezzogiorno una significativa crescita dell’occupazione. Se il Mezzogiorno fosse un paese politicamente indipendente, la piena occupazione sarebbe raggiunta mediante salari nominali dell’ordine del 60 per cento di quelli del Nord dell’Italia, in tutti i settori produttivi, incluso il pubblico impiego. Il fatto di non essere politicamente indipendente comporta per il Mezzogiorno, da un lato la possibilità di ottenere trasferimenti da altre regioni di una entità che non sarebbe possibile per una paese politicamente indipendente, dall’altro però ha precluso la possibilità di perseguire efficacemente un livello dei salari nominali compatibili con un equilibrio competitivo di piena occupazione. Considerato il clamoroso fallimento delle politiche “strutturali” volte ad aumentare la produttività nel Mezzogiorno al livello del Nord dell’Italia, l’unica possibilità che potrebbe oggi essere efficace per la piena occupazione nelle regioni del Mezzogiorno sembrerebbe essere quella di una forte “svalutazione fiscale” che comporti per un lungo periodo di tempo una riduzione dell’ordine del 40 per cento del costo del lavoro  per le imprese che producono nel Mezzogiorno beni a mercato internazionale.

Considerato che essa verrebbe inizialmente applicata a circa 800 mila lavoratori, pari a circa un quarto di quelli per i quali la fiscalità di vantaggio  è prevista dal decreto legge del 14 agosto, l’impatto iniziale per la finanza pubblica sarebbe dello stesso ordine di grandezza di quella preventivata (circa 5 miliardi all’anno). Man mano però che per effetto di uno shock fiscale di questa dimensione si innesca  un forte processo di crescita di occupazione e reddito nella produzione di beni a mercato internazionale, il reddito aggiuntivo provocherebbe un aumento della domanda di beni a mercato esclusivamente locale prodotti nel Mezzogiorno, con un conseguente aumento di entrate fiscali e contributive. A regime l’impatto complessivo per la finanza pubblica potrebbe essere neutrale o addirittura significativamente positivo. Con il passar del tempo, inoltre, per effetto del “learning by doing” particolarmente importante nelle produzioni a mercato internazionale, la differenza di produttività fra Mezzogiorno e Nord dell’Italia potrebbe significativamente diminuire e quindi potrebbe diminuire anche l’intensità della fiscalità di vantaggio. (aa)  [Courtesy Opencalabria.com]


 

  • Antonio Aquino è Professore Emerito di Economia Politica presso il Dipartimento di Economia Statistica e Finanza DESF “Giovanni Anania” dell’Università della Calabria. Laureato in Economia e Commercio presso l’Università L. Bocconi di Milano nel 1970. PhD presso la London School of Economics. Nel 1987 ha ricevuto il Premio Saint Vincent per l’economia.

Cresce l’export del “made in Reggio”: il ruolo strategico della Camera di Commercio

4 novembre 2018 – L’export regionale trova nuovi input per l’internazionalizzazione, ma è soprattutto il made in Reggio a trovare grandi sbocchi oltre confine. Da martedì a sabato la Camera di Commercio di Reggio promuove, infatti, per 50 imprese reggine incontri B2B con 13 buyers che hanno manifestato interesse ad attivare forniture di prodotti tipici locali della filiera agroalimentare. Si tratta di buyer che provengono da Australia, Canada, Stati Uniti, Regno Unito, Belgio, Svezia, paesi che possono diventare importanti aree di sbocco per un export in continua ascesa.
Un’iniziativa che lascia molto soddisfatto il presidente della Camera di Commercio di Reggio Antonino Tramontana visti i numeri che segnano i progressi in questo campo: «Un progetto di promozione dell’internazionalizzazione a 360° che, dopo la sessione dello scorso luglio, prosegue con questo ulteriore appuntamento, con l’obiettivo di continuare ad affiancare le imprese reggine che vogliono aprirsi ai mercati esteri, offrendo loro l’opportunità di avviare rapporti di affari con operatori di paesi potenzialmente interessati ai prodotti del nostro territorio» – ha detto, sottolineando come l’iniziativa sia «perfettamente in linea con le risultanze emerse dalle ultime rilevazioni statistiche dei flussi commerciali con l’estero».
I dati Istat sull’interscambio internazionale riferiti ai primi sei mesi del 2018 evidenziano, infatti, un netto miglioramento della competitività internazionale per la Città Metropolitana di Reggio Calabria.
Rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, l’ammontare di beni venduti oltre confine è cresciuto vertiginosamente (+55,9%), da quasi 92 a oltre 143 milioni di euro (+51 milioni di euro). Una crescita che spiega quasi i due terzi della crescita regionale (+81 milioni di euro) e che, in termini assoluti, non trova uguale intensità in nessuna delle altre province calabresi.
Dinamiche interessanti che, tuttavia, evidenziano ancora ampi margini di crescita. Le vendite oltre confine delle imprese reggine, infatti, secondo gli ultimi dati disponibili, incidono per appena lo 0,06% delle esportazioni italiane (143 milioni su un totale nazionale di 232 miliardi di euro), evidenziando un sistema produttivo che  deve cogliere sempre più le opportunità offerte dalla globalizzazione.

Il presidente della Camera di Commercio di Reggio Antonino Tramontana
Il presidente della Camera di Commercio di Reggio Antonino Tramontana

«I primi sei mesi del 2018  – ha detto Tramontana – rappresentano uno stimolo a fare meglio in chiave internazionalizzazione. L’elevata dinamicità dell’export delle nostre imprese deve essere supportata affinché si possa instaurare un lungo periodo di apertura commerciale. La domanda interna, infatti, appare sempre più stagnante, il che ci deve far riflettere su come aumentare il numero di imprese che accedono stabilmente sui mercati internazionali. La competitività internazionale rappresenta la principale prospettiva di crescita del sistema imprenditoriale italiano e la Camera di Commercio di Reggio Calabria avverte con particolare responsabilità e impegno la sua funzione di supporto alle imprese reggine nel cruciale processo di internazionalizzazione dei loro prodotti»
Dei 51 milioni di export in più, ben 44 milioni sono da associare a quattro comparti manifatturieri, alcuni innovativi e legati ad imprese di grandi dimensioni, altri storicamente legati al territorio ed alle produzioni tipiche: i mezzi di trasporto (+18,4 milioni di euro), gli apparecchi elettrici (+13,3 milioni di euro), la chimica, con le attività di estrazione delle essenze agrumarie che, in realtà, per il territorio reggino rappresenta da molti anni un settore vocato all’export (+12,6 milioni di euro) e l’agroalimentare che ha registrato +2,6 milioni di euro.
L’analisi geografica restituisce un quadro dinamico che premia ancora il vecchio continente, traino della competitività dell’area metropolitana di Reggio. Dei 51 milioni di euro di crescita, ben 20 milioni provengono da quest’area. Tra le grandi economie comunitarie: Francia (+2,5 milioni di euro); Germania (+3,4 milioni di euro); Spagna (+4,6 milioni di euro) e Regno Unito (+2,0 milioni di euro).
Al di fuori dei confini comunitari, l’America Settentrionale è tra le aree di sbocco più interessanti, assorbendo oltre 10 milioni di euro di vendite in più rispetto ai primi sei mesi del 2017, di cui la quasi totalità associati agli Stati Uniti (9,7 milioni). Anche l’Australia registra una crescita intorno ai 10 milioni di euro mentre in Asia, i 9 milioni di euro di aumento sono solo in minima parte realizzate nelle tre grandi economie continentali: Giappone (+633mila euro), Cina (+444mila euro) e India (+324mila euro).
Considerando un arco di temporale decennale, confrontando i dati dei primi sei mesi del 2018 con quelli relativi allo stesso periodo del 2009 – l’anno in cui crollò l’interscambio commerciale internazionale in tutto il Pianeta -, il ruolo trainante dei comparti dapprima citati appare confermato per la chimica e l’industria dell’essenze (+33 milioni) e gli apparecchi elettrici (+13 milioni di euro),  mentre i mezzi di trasporto registrano una contrazione pari a quasi 20 milioni di euro (-47,3%). Anche la filiera agro-alimentare nel lungo periodo registra una crescita di certo interesse, pari a +26 milioni di euro, di cui ben 23 relativi alla trasformazione manifatturiera (da 11,5 a 34, 5 milioni di euro), indice di un settore capace di innovarsi e di acquisire nuove quote di mercato estero. Nel complesso, la dinamica decennale reggina appare positiva (+57 milioni; +66,1%).
Sempre con riferimento ad un’analisi di lungo periodo, tra i Paesi esteri gli Stati Uniti confermano il crescente interesse vero il made in Reggio Calabria: dai 5 milioni di euro dei primi sei mesi del 2009, infatti, si è arrivati a quasi 26 milioni relativi alla prima parte del 2018. (rrc)