“Liberata” di Domenico Dara

di ELISA CHIRIANOPotrebbe chiamarsi Malinconica Macrì, oppure Disabituata, Impietrita, Illuminata, Destinata, Ingannata, Catena, Avvilita, Innata, Irrequieta Macrì. Potrebbe avere uno o cento nomi, racchiuderli e contenerli tutti. Invece si chiama Liberata, Liberata Macrì, perché sua madre non avrebbe potuto darle altro nome, se non questo, e non certo per una sorta di augurio per una buona vita, all’insegna dell’indipendenza o in onore di una santa abbastanza portentosa. La verità è ben diversa e ha a che fare con i princìpi dell’inadeguatezza e dell’indifferenza. Del resto, noi «diventiamo sempre ciò che siamo, a prescindere dalla terra in cui siamo stati abbandonati» e un nome può trasformarsi in destino e destinazione, perché una storia è tanto più vera quanto più autenticamente narrata o perfettamente immaginata. Liberata Macrì è la figura centrale del nuovo e attesissimo romanzo di Domenico Dara, disponibile in tutte le librerie da oggi, 27 agosto.

Un nome e una garanzia, si potrebbe dire, e questo vale sia per l’autore che per la protagonista. Domenico Dara sorprende ancora una volta. È sempre unico e sempre diverso, eppure il lettore attento e la lettrice avvezza al gusto dolce-amaro stil sempre nuovo dariano riusciranno a cogliere proprio in questo rinnovarsi-rigenerandosi la specificità dell’arte dello scrittore calabrese. Leggere i romanzi di Domenico Dara è un dono che facciamo a noi stessi, alla vita vera e immaginata, a ciò che è – anche se non si vede – ma che spesso diventa la misura del mondo, perché invisibile non vuol dire inesistente. Per ogni evento accaduto ce ne sono migliaia accaduti non accadendo, che non incidono sui fatti degli uomini. A volte «il miracolo è quello che non accade»: di questo è convinta Liberata, dattilografa a tempo perso, audace nella fantasia ma timorosa ed esitante nella realtà. Sogna a occhi aperti, attraverso le pagine dei fotoromanzi, che colleziona e custodisce con cura, soprattutto se il protagonista è Franco Gasparri, l’attore che ama con completa devozione. Cerca di trovare similitudini tra la sua vita e quelle delle storie fotografate sul set, frammenti di vita delineati e sovrapponibili agli scatti d’autore, incorniciati nelle riviste, che puntualmente acquista nell’edicola dell’amico Glauco. Sembrano tarocchi, allineati e pronti a immaginare il futuro. Liberata crede a tutto ciò che non si vede, «al destino già scritto, all’anima che vive dopo la morte, al malocchio che colpisce, all’invidia che affama, a certi pensieri che spostano oggetti, alle voci dei defunti, ai sogni che si avverano, al potere misterioso della luna, alle vite che non sono accadute ma che lo stesso ci perseguitano».

Crede nelle coincidenze – che si vedono, certo – ma che sono il risultato sensibile di un processo invisibile, di un intreccio nascosto di destini, trame, punti. Ha fiducia cieca nel domani ed è convinta che raccogliendo indizi, anche attraverso le istantanee della sua polaroid, un giorno tutto si incastrerà perfettamente, svelando la verità anticipata da segni premonitori, oppure già fotografata nelle pagine di un fotoromanzo. Tutto è prevedibile e tutto fila liscio nei fotoromanzi! Gli incastri funzionano, le storie iniziano e finiscono, e nulla resta in sospeso. Incline alla solitudine, a differenza dell’esuberante amica Giuditta, Liberata vede cambiare la propria esistenza quando conosce Luvio, il nuovo operaio dell’officina meccanica del padre. In un attimo si sente proiettata dentro uno dei suoi fotoromanzi, eroina di una storia d’amore da sogno. Ma gli amori reali possono aspirare alla perfezione delle storie raccontate? E la magia dell’invisibile non rischia di sgretolarsi nell’impatto con la realtà del mondo?  

Domenico Dara gioca con le parole. Le cuce addosso ai suoi personaggi e ai lettori consegna mondi interiori e universi paralleli e misteriosi. Traccia viaggi semantici, percorrendo un senso e anche quello opposto, tra significanti, significati e direzioni. Mentre la storia si dipana o si aggroviglia, ecco partire un’altra via, quella lastricata di basoli e intarsi di pietre, che la tradizione letteraria ha costruito nel tempo e che echeggia nelle pagine delle sue opere. Il resto lo fa l’arte e la cura del dettaglio, la voglia di narrare storie minute, che indagano esistenze, marginali e nascoste, di persone comuni, che abitano i luoghi semplici. Tra realtà narrazione, sogno, visione e tempo dell’immaginazione mette in campo le vite piccole, perché ci pensa la Storia a raccontare i vincitori. La scrittura deve illuminare le zone lasciate nell’ombra, i personaggi di periferia, che abitano il sud del mondo, eppure hanno la forza dell’epopea storica e il vigore del dramma antico, nell’incedere quotidiano di esistenze che si incontrano e si intrecciano. Sono vite dai contorni poliedrici che spesso procedono in direzione ostinata e contraria, in cui la verità non è mai quella che sembra e magari indossa la parvenza di sentieri tracciati dal destino, letto da una cartomante. Dara infila il dito nelle crepe, accarezza gli strappi osserva i particolari e, attraverso la scrittura, riempie i vuoti lasciati dalle mancanze che condizionano la nostra vita.  

In anni di profondo cambiamento, segnati dalla violenza nelle piazze e dalla strategia del terrore – ma anche dalle conquiste che rendono le donne più autonome e consapevoli del proprio posto nel mondo –, Liberata vive una metamorfosi, proprio come quegli insetti collezionati dal padre che dimostrano, sempre e comunque, come per divenire adulti si debba sacrificare e perdere una parte di sé. È un microcosmo in cui agiscono persone e fatti. C’è Agata, che sminuisce le persona disprezzandone le abitudini, gli oggetti e le parole, ed è sempre impegnata con il sagrestano a organizzare la processione per la festa di Sant’Antonio; c’è Oreste, meccanico di professione e entomologo per passione; c’è il sagrestano Beccaria che, anche se è astemio, vede Dio ogni tanto; c’è una cartomante che legge i tarocchi; c’è un forestiero che segue Liberata nell’ombra; c’è Glauco con la sua edicola al centro della piazza; c’è Radio Alternativa 71, la radio dalla parte dell’umanità, che trasmette notizie di passi lenti e incisivi verso la conquiste di libertà e di democrazia; c’è il giallo del mistero e il rosa dell’amore, che arriva inaspettatamente; c’è soprattutto il paese  dove ciascuno nasconde un segreto, più o meno oscuro. Poco importa se si tratti di Girifalco o di un altro borgo di Calabria. C’è tutto un mondo qui, specifico e universale al contempo. Il luogo diventa archetipo e topos, territorio ma anche argomento.

Domenico Dara ripercorre le pagine di una microstoria, attingendo a un baule di ricordi, anche domestici e familiari. Rende omaggio alla foto-narrazione, che fece epoca soprattutto negli anni Cinquanta e proseguì con successo nel periodo seguente, affascinando intere generazioni. Contenitori di storie ma anche strumento di alfabetizzazione per un Paese uscito con le ossa rotte da un aspro conflitto bellico. Domenico Dara accende nostalgie in chi (e in un tempo non molto lontano) aveva un appuntamento fisso -settimanale o quotidiano- con l’edicola, che era chiostro e chiosco, per acquistare una rivista, un giornale o un fotoromanzo e magari per ristorarsi un po’.

Liberata è pronta per spiccare il volo, per rivelarsi ai lettori e alle lettrici erranti, per raccontarci che in fondo, anche ciò che è invisibile, in un preciso momento assume il volto dell’eternità. Liberata è tutto questo e molto altro ancora. (ec)

 

Il custode delle parole, di Gioacchino Criaco

di MIMMO NUNNARI – Scrittore di fiabe e romanziere (l’uno e l’altro insieme) Gioacchino Criaco è la “voce” di quel Mediterraneo (italiano) mescolato con l’Africa e l’Oriente erede della civiltà greca e di altre culture e tradizioni dei popoli delle terre di mezzo. Al centro, nel racconto raffinato di Criaco, c’è sempre l’Aspromonte: la montagna dei profumi, della bellezza, delle magie e dei destini, fatti di abbandoni e partenze. Nel nuovo libro da poco in libreria: Il custode delle parole (Feltrinelli) lo scrittore di Africo narra questo meraviglioso microcosmo mediterraneo mescolato di saperi e tradizioni che s’incrociano.

Lo spiega lui stesso, nell’incipit del nuovo libro, che cos’è l’Aspromonte e la sua gente: “Siamo Oriente e Africa negli enigmi dei volti delle donne a cui apparteniamo…”. Criaco conduce questa volta il lettore sui sentieri naturali, reali e spirituali della montagna-madre: crocevia di sintesi umane che conservano culture e valori e potrebbero nutrire la vita di tutti nella nostra babele moderna. La sobrietà espressiva del romanzo, la sostanza del racconto, la ricerca delle parole salvifiche, unite al senso di concretezza dei fatti narrati, all’interrogarsi per metafore, sui problemi estremi dell’esistenza, danno impulso allo stile di Gioacchino Criaco che abilmente mescola la dimensione reale a quella fantastica, per celebrare l’umanità dell’Aspromonte: “La nostra è una storia millenaria che ha forgiato le parole intingendole nel cuore, nella testa, nella pancia, nel miele e nel sale, nel sangue eroico e in quello codardo, nella punta delle spade e nel taglio delle zappe” scrive, e questo suo modo di narrare sembra un andare indietro per andare avanti, come gli antichi navigatori, che dopo avere perduto la rotta per traversie di mare, al momento di ritrovarla, spesso dal lato opposto, chiamavano la manovra “avanzare di ritorno”.
Avanza di ritorno Criaco, in un libro cammino nell’umanità e nella storia di un sud del mondo in cui si sentono gli echi, le malinconie, la robustezza del racconto di Alvaro e Strati (scrittori di dignità e dimensione europea con salde radici piantate nell’Aspromonte) dei quali è l’erede, o quantomeno lo scrittore che ha assorbito di più la loro lezione di narrazione. Nella resa letteraria del romanzo di Criaco, nelle tematiche in cui s’incrociano ragioni della letterarietà con questioni antropologiche e dimensioni umane negate, ci sono anche le risonanze lontane di grandi scrittori del panorama letterario mediterraneo e sudamericano, o meglio di narratori delle periferie del mondo, come il Luis Sepulveda del romanzo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, o il Nikos Kazantzakis di Zorba il greco. Non tanto per la trama del libro, e neppure per lo stile narrativo, perché quello dello scrittore di Africo è molto differente; anzi, è azzardato e fuorviante ogni accostamento, ma risonanze per l’affinità con la “lettura” di luoghi emarginati, sempre sotto il tallone di qualcun altro; per la somiglianza “nutriente” dei personaggi: il vecchio Antonio José Bolívar di Sepulveda, che viveva ai margini della foresta amazzonica ecuadoriana e l’Alexis Zorba, l’anziano geniale macèdone protagonista del romanzo di Nikos Kazantzakis, con l’Andrìa, il nonno pastore “custode delle parole”. Quei vecchi, appartenenti a mondi diversi, hanno in comune l’essere uomini veri che nel cuore custodiscono i segreti della natura, lo spirito della vita, i valori a cui abbeverarsi, nello smarrimento del presente fatto di inconsolabili ombre assetate. È nello spirito ereditato dai padri e dalle madri greche il custodire la parola del nonno Andrìa, che difende la lingua dei suoi avi come se conservasse fede, mito, Parola divina. Anche in questo intento salvifico della parola c’è un vicinanza spirituale tra la storia raccontata da Criaco e il personaggio del Kazantzakis che (nell’Odissea da lui riscritta) cerca tra i paesini di Creta le parole destinate a perire: nomi di fiori e piante, il lessico dei contadini e dei pescatori, della gente semplice. Kazantzakis nell’Egeo e Criaco nell’Aspromonte, narratori di epoche diverse, di stili differenti, hanno lo stesso obiettivo interpretato dai loro personaggi: salvare la parola, per salvare il mondo. Non ha importanza che Kazantzakis (morto nel 1957) abbia pubblicato il suo libro nel 1938 e Criaco abbia pubblicato Il custode delle parole nel 2022. C’è lo spirito della Madre Grecia a unire i pellegrinaggi alla ricerca di sé e delle proprie radici.
I protagonisti del romanzo di Criaco sono Andrìa il giovane, voce narrante, nipote dell’Andria “custode delle parole”, la fidanzata Caterina e Yidir, profugo africano arrivato sulle coste calabresi coi barconi dalla Libia. La figura del nonno, pastore e “sacerdote” della parola, domina su tutto. Andrìa il nipote, trattenuto nella sua terra dall’amore per Caterina, cambia la sua idea tenace di lasciare la sua terra e di partire, il giorno in cui salva dall’abbraccio mortale dello Jonio Yidir, sopravvissuto ad un naufragio, nelle acque dello Jonio. Anche lui, l’africano, sta cercando un futuro possibile. Quando il nonno lo prende clandestinamente con sé, come aiutante pastore, si accende una luce nella mente di Andrìa. Pian piano si riavvicina all’ambiente delle radici, alla Mana Gi, riscopre storia e cultura del suo popolo, lo stretto legame tra valore della vita e bellezza selvaggia dell’Aspromonte. Accetterà, così, il destino che è chiamato a compiere: custodire, come il nonno, le parole.
Questo nuovo romanzo di Gioacchino Criaco, con la narrazione minuziosa di fatti e cose, è una storia di identità e radici così forti da sfidare il futuro che ancora non conosciamo È romanzo ricco di metafore Il custode delle parole, di sottile ricchezza narrativa, di ritratti, di incontri, di figure che non si dimenticano. Le decisioni di Andrìa (simbolicamente del popolo dell’Aspromonte) richiamano alla responsabilità di doverci prendere cura di ciò a cui sentiamo di appartenere, di saper custodire un mondo e una lingua (il greco di Calabria) che stanno per sparire, ingoiati dalla falsa modernità̀.
Andrìa sente che nelle “parole” del nonno c’è il suo futuro, che quel territorio, l’Aspromonte, la Grande Madre, è la montagna lucente, bianca, non ostile, come è dipinta. Cosa rappresenta Mana Gi lo scrittore lo ha spiegato nell’intervista ad un giornale francese, nell’occasione dell’uscita Oltralpe di “La Maligredi”, il romanzo precedente a Il custode delle parole, il libro che apre definitivamente allo scrittore di Africo le porte della narrativa italiana migliore, dopo i successi di Anime nere, il primo romanzo pubblicato con Rubbettino.
L’Aspromonte, la Mana Gi, ha detto Criaco, è “la Grande Mère, comme est encore appelée la montagne, qui est femme, est l’archétype de la Calabre, du Midi. C’est ce que tout le Sud a été dans le passé. Il représente la dernière résistance d’un monde qui lutte pour ne pas mourir”. Non lo traduciamo questo passo dell’intervista, se non l’espressione “resistenza di un popolo che lotta per non morire”, che fa capire la storia passata e presente della Calabria nata greca. Andrìa, che alla fine accetterà̀ il destino di salvare le parole custodite del nonno, spiega, nella lingua dei padri greci, che ha la musicalità della tradizione orale, che cos’è l’Aspromonte: To Asprovunì anìghi te tthìre ti ston Thìo ppurrì. Anìghi t’arthàmmia apànu ston cosmo asce fata. Echi enan àthropo ti por patì pu, ston pròsopo cratì lagomata azze paleo pezò. Asprovunì ene mia fracti azze aklìese. Thire anictè ce to pedì (L’Aspromonte spalanca le porte al dio del mattino. Apre gli occhi su un mondo fatato. C’è un uomo in cammino che sul volto trattiene ferite di antico soldato. L’Aspromonte è una gabbia di perle. Porte aperte e il volo si perde. È distese di boschi che spengono il fiato. È una madre che sconta in eterno lo stesso peccato. (mn)
GIOACCHINO CRIACO
IL CUSTODE DELLE PAROLE
Feltrinelli, ISBN 9788807035043

Il fuorilegge, di Mimmo Lucano (2020)

di FRANCESCO KOSTNER – Si avverte un senso di preoccupazione, dopo aver letto Il fuorilegge di Mimmo Lucano. Ciò, nonostante le positive riflessioni che scaturiscono dalla testimonianza, senza dubbio suggestiva e avvincente, dedicata dall’autore al “modello” Riace: la “rivoluzione copernicana” nel rapporto con gli immigrati, di cui è stato protagonista nel piccolo centro della città metropolitana di Reggio Calabria. Il comune assurto agli onori della cronaca internazionale nel 1972, dopo il ritrovamento in mare di due statue bronzee di epoca greca, e diventato poi il simbolo di una straordinaria esperienza di integrazione multiculturale. Un meraviglioso caleidoscopio di relazioni interetniche, che ad un certo punto, però, viene messo con le spalle al muro. Vittima (fa capire, ma talvolta dice, Lucano) di oscure dinamiche politico-istituzionali. Forse anche di quella misteriosa “energia autodistruttiva”, che sembra perennemente gravare sul destino della Calabria, e di cui anche il “modello” Riace ha saggiato la micidiale forza disgregatrice.

Si viene assaliti dal dubbio che la meravigliosa epopea del sistema di accoglienza riacese possa cadere nell’oblio: questo preoccupa! Un timore affatto immotivato, sol che si consenta alla memoria di fare capolino nella sterminata distesa dell’identità calabrese, e nell’inquietante “cimitero” della (in)coscienza che vi è ospitato. Un luogo in cui hanno trovato posto (ignorati o sacrificati, a seconda dei casi) contributi ed esperienze importanti sui quali è calato il sipario. Proprio come è accaduto a Lucano. E al modello “Riace”. Concepito in rapporto alla dignità dell’uomo. Contro i diktat asfissianti della globalizzazione. Le logiche esclusive del profitto. I pregiudizi. L’assurda schematizzazione tra “buoni” e “cattivi”, operata sulla pelle di migliaia di immigrati, provenienti da territori poveri e senza prospettive.

Di quel “modello”, purtroppo, oggi rimane solo una fievole traccia. Dovremmo chiederci perché. Come sia stato possibile chiudere un’esperienza sociale e culturale di questa portata. Non tutti lo facciamo. Eppure sarebbe necessario. Senza questi interrogativi, d’altra parte, è difficile entrare con lo spirito giusto nell’intensa testimonianza di Mimmo Lucano. Riuscire a cogliere i valori fondanti della sua storia. La sua visione del mondo, in cui tutti hanno il diritto di vivere dignitosamente. E nel quale ognuno è chiamato a fare la propria parte per alleviare le sofferenze degli altri. Non è “aria fritta”. Chiacchiericcio abusato e inconsistente. Distante dalla realtà. Dai “veri” bisogni, dalle “priorità” del Paese. Dalle “leggi” del mercato. Dalle logiche del profitto. Dalle differenze e dalle sperequazioni, tra chi vive bene e chi soffre, contro cui niente e nessuno potrà mai qualcosa. Insomma, il meglio dell’armamentario populista e dell’inconsistenza parolaia di questi tempi bui. Niente di tutto questo. Lucano ha sconfessato sul campo questa costruzione “ideologica” e “strutturale”. A Riace è riuscito a stabilire priorità e valori diversi. A porre al centro dell’attenzione l’uomo. Le sue sofferenze. I suoi disagi. Le sue aspirazioni. Le sue speranze. Le mille identità che ne abitano e ne colorano la vita. Senza confini né barriere. Un enorme “apparato” antropologico, culturale, sociologico, che Lucano è riuscito a decifrare (e a cui ha dato forma) nel solco di una visione solidale della Storia. Di una relazionalità cosmopolita. Che privilegia l’abbraccio alla distanza. L’incontro alla diffidenza. La condivisione all’emarginazione. In una parola: il significato vero, concreto di un’umanità che ritrova sé stessa, fino in fondo, uscendo dal tunnel di egoismi sfrenati. Di aberranti logiche isolazioniste. In cui tutto è solo numero. Valore materiale.

Accoglienza. Amore. Solidarietà. Sono i pilastri di questo prezioso libro di Lucano. Le strutture portanti sulle quali poggia il suo racconto. A partire dall’infanzia, quando (inconsapevolmente) i dolorosi addii di parenti e amici, di interi nuclei familiari costretti ad emigrare con la morte nel cuore, diventano il “combustibile” della formazione culturale e politica del futuro sindaco di Riace. Della sua progressiva presa di coscienza dei drammi umani e sociali che affliggono il mondo. Riferimenti imprescindibili, che Lucano non perderà mai di vista. Insieme con i valori della libertà e della giustizia sociale. Parole discrete, ma efficaci, rivelano il contesto pedagogico in cui si è formato: “Non sono mai stato capace di guardare con gli occhi di chi esclude. Non sopporto i privilegi e le discriminazioni. Nella Riace della mia infanzia ho scoperto l’umanità come bellezza…mia madre mi invitava a essere curioso e mai diffidente verso l’altro, a essere generoso, perché tutti eravamo bisognosi”. E ancora, in un flusso di ricordi che arriva fino ai giorni nostri: “Ho scelto di condividere il senso della fragilità esistenziale, delle precarietà quotidiane, del popolo che si muove ai margini delle strade, dei cittadini più deboli, categoria sociale a cui sento con orgoglio di appartenere”. Tutto nel segno dell’operosità e della concretezza: “Intorno al tema dell’accoglienza c’è tanta retorica non supportata dagli ideali, ma solo fine a se stessa. A me interessa soltanto il sapore della libertà, la mia libertà e quella degli altri, di coloro che ne hanno sete”. Libertà, giustizia, solidarietà. Ma anche lotta alla ‘ndrangheta. Innanzitutto creando opportunità di lavoro, dice con chiarezza Lucano (e noi con lui), le sole in grado di affrancare i giovani dal rischio della deviazione, purtroppo sempre dietro l’angolo.

Insomma, il disegno di quella nuova società, multirazziale e cosmopolita, alla cui realizzazione Lucano ha dedicato la vita. Ogni energia. Un lavoro paziente. Tenace. Coraggioso. Sulla scia di testimonianze ed esempi eticamente vigorosi. Una straripante platea di eroi “senza tempo”: Rocco Gatto, il proprietario di un mulino ucciso il 12 marzo 1977 a Gioiosa Jonica, per non avere accettato di pagare il pizzo ad una cosca locale; Peppe Valarioti, segretario del partito comunista e consigliere comunale di Rosarno, sopraffatto da due colpi di lupara, l’11 giugno 1980; Giannino Losardo, assessore comunista al comune di Cetraro e segretario  capo della Procura della Repubblica di Paola, ammazzato il 21 giugno 1980; Gianluca Congiusta, un giovane imprenditore sidernese eliminato nel 2005 per essersi opposto alla prepotenza della ‘ndrangheta. E Dino Frusillo, giornalista e attivista pacifista foggiano, con una lunga militanza politica in Democrazia proletaria: “A lui”, scrive, “devo gli strumenti mentali per comprendere la causa curda. Diceva che non possiamo limitarci solo a essere oppure a non essere d’accordo, ma dobbiamo anche, in qualche misura, fare come loro. Dobbiamo agire. Il suo impegno, infatti, passava dall’azione, al punto da rischiare in prima persona. Nel 1998, per esempio, con una delegazione di pacifisti, giornalisti e simpatizzanti viaggiò fino a Dijarbakir, in Turchia, per festeggiare con la comunità curda e con il Partito dei lavoratori il loro capodanno, la festa del Nawruz. I festeggiamenti si trasformarono presto in una marcia di protesa contro i diritti negati, le ingiustizie, i massacri subiti. La polizia turca intervenne disperdendo il corteo a colpi di manganello su uomini, donne e bambini, e arrestando circa cento manifestanti, tra cui Dino e due studenti partiti insieme a lui, Giulia Chiarini e Marcello Musto. I due ragazzi furono scagionati dopo un paio di giorni, lui rimase in carcere per oltre quaranta giorni e infine venne espulso dalla Turchia il 16 giugno, dopo le timide pressioni del parlamento europeo e del governo italiano”. Altri incontri fondamentali per Lucano sono quelli che, attraverso attente letture, lo avvicinano via via a Michail Bakunin, Pierre-Joseph Proudhon, Jean-Paul Sartre, “i fautori del pensiero anarchico”; a padre Pino Puglisi, ai teologi della Liberazione Gustavo Gutiérrez, Leonardo Boff, Camilo Torres, Pedro Casaldàliga. E a quattro giganti della libertà e dei diritti umani: Gandhi, Che Guevara, Martin Luther King e Nelson Mandela.

Lucano rende omaggio anche a Giancarlo Maria Bregantini, vescovo di Locri dal 1994 al 2007, convinto sostenitore del suo “modello”; ad Alex Zanotelli, “il missionario comboniano dalla camicia variopinta, segnato da venti anni di lotte e sacrifici in Africa”, capace di mettere in discussione la propria fede “al punto da domandarsi se Dio fosse ‘malato’, dopo aver visto nei lunghi e faticosi anni in Kenya degrado, fame, miseria e bambini malati di Aids”. Un testimone di quella Chiesa degli ultimi, riflesso del messaggio evangelico: “ama il prossimo tuo come te stesso”, in cui Lucano si è sempre riconosciuto. E si inchina, infine, davanti a Papa Bergoglio, che il 12 dicembre 2016 scrive al “Caro fratello sindaco”, esprimendogli “ammirazione e gratitudine per il suo operato intelligente e coraggioso a favore dei nostri fratelli e sorelle rifugiati”.

“Un’altra Riace è possibile”, aveva promesso presentando la sua candidatura a sindaco nel 2004, premiata dai riacesi anche cinque anni più tardi. Proprio di quella seconda competizione elettorale Lucano ricorda l’intervento, nella piazza “Bronzi” di Riace Marina, del presidente della Regione Agazio Loiero: «Venne a sostenerci di sua spontanea iniziativa e iniziò il suo intervento quasi chiedendo scusa alla lista avversaria, e cercando di giustificare la sua presenza. Io sono il presidente di tutti i calabresi, per cui dovrei essere neutrale, al di sopra delle parti, ma in questo Comune è accaduto qualcosa di straordinario: accogliendo in ogni maniera possibile i profughi in fuga dagli orrori delle guerre, il mondo ha potuto conoscere il volto più autentico della Calabria, una terra destinata dalla storia ad accogliere chiunque abbia un sogno per la propria vita. Tutto ciò mi rende orgoglioso di essere il presidente di questa terra. Un patrimonio così non può essere disperso, il mio auspicio è che questa storia sopravviva, continui a prescindere dal risultato elettorale». La lista di Lucano vinse con 44 voti di scarto. Un segnale di insoddisfazione, da parte di una fetta consistente di elettori, accolto con consapevolezza: «Ho sempre pensato – scrive Lucano – che lo sviluppo della Marina dipendesse molto dal centro storico, dalla sua bellezza, dalla riqualificazione urbana, dall’idea di riportare l’intera Riace in una dimensione che la legasse all’identità storica delle comunità agropastorali. L’immagine delle botteghe artistiche, dei carretti con gli asini, le vie antiche curate e pulite, il valore sacro dell’accoglienza, l’assenza di pregiudizi, la volontà di riscattare l’antropologia dei luoghi sono valori e qualità che per le comunità locali dovrebbero suscitare orgoglio. Ecco perché chi non vive questa dimensione, chi non ha vissuto mai in una realtà dove tutto sembra essere comunitario, non può capire cosa significhi vivere gli spazi dell’abitare da uomini liberi. Nei nostri borghi la chiave alle porte quasi non serve, non c’è bisogno dei campanelli, basta bussare ed entrare. Non c’è neppure bisogno di sentirsi dire che la porta è aperta. Quando qualcuno si sentiva male, tutti i vicini accorrevano per prestare soccorso e dare una mano in qualche modo. C’è un risvolto anche nella tradizione culinaria: “il levatu”. Quando si preparava il pane si metteva da parte un po’ dell’impasto per conservarlo per i bisognosi. Si dice che il levatu non si nega nemmeno al peggiore nemico! Basta confrontarsi con i contadini, con le persone più umili, per averne conferma, ancora oggi: meno le realtà hanno subito la contaminazione della società moderna, quel senso irrefrenabile del consumo, della competitività, degli arrivismi, più vi si trovano una dimensione umana e una generosità disinteressata».

Uno straordinario esempio di integrazione multiculturale, messo nero su bianco anche da documenti rimasti (stranamente) a lungo indisponibili, come la relazione del Centro di accoglienza straordinaria ricevuta dal comune di Riace il 20 febbraio 2018. Lucano ne propone giustamente più di un passaggio: «Si comincia dalla scuola, un edificio che ospita un numero cospicuo di ospiti stranieri, grandi e piccoli, in classi composite, variegate e multilingue, in un miscuglio di razze, dialetti, diademi e treccine. In una stanza più grande giocano quattro bambini africani, piccoli, che guardano i visitatori con occhi sgranati. La stanza, spiega il Sindaco, che serve oggi da asilo nido, sarà presto sostituita da una struttura completamente nuova, ormai in fase di avanzata realizzazione, nella vicina frazione Marina. La giovane, anch’essa di origine africana, che accompagna amorevolmente i piccoli e li segue nei loro spostamenti, al tempo del suo arrivo in Italia, ci spiegano si prostituiva per sopravvivere.

«Nelle classi, ai cui muri sono attaccati i manifesti elementari che spiegano i rudimenti della lingua italiana, troviamo persone del Gambia, del Mali, della Siria (una coppia di sposi non più giovanissimi e che portano ancora sul volto i segni della paura), del Pakistan, dell’Africa subsahariana. Giovani e meno giovani, adolescenti con il loto smartphone e bambini minuscoli attaccati alle loro madri, impegnate nello studio. La pluriclasse, infine, è un tripudio di razze dietri i banchi della scuola. Due ragazzini di Riace scherzano e scambiano commenti ironici con i loro coetanei dell’Africa o del vicino Oriente, fino a radunarsi su invito della maestra per una foto di gruppo. Sono lì tutti insieme, in arrivo da tante parti del mondo, lontane tra loro…».

Alla Commissione prefettizia non sfugge anche l’effervescenza sociale che ha pervaso la nuova Riace: «Scendiamo e risaliamo lungo i vicoli del paese e troviamo case nelle quali riconosciamo anche alcuni degli alunni della scuola, visti prima. Chi ci accompagna spiega loro che siamo della Prefettura e tutti ci lasciano entrare per consentirci di guardare come vivono e cosa fanno. Pur nella povertà dei mezzi, si scorge sempre una dignità nel modo di vivere e nel modo di affrontare la vita. Sono persone che cercano un riscatto, che hanno voglia di dimenticare il passato e che mantengono l’entusiasmo di poter ricominciare. Riace è anche questo. E’ un paese che ha ricominciato a fare tante cose. Risalendo, nei pressi della scuola, un bellissimo parco giochi invade la nostra visuale. Non se ne vedono molti così, nei paesi spogli e disadorni della provincia reggina. Non c’erano bambini in quel momento ma non era difficile immaginarlo arricchito da decine di facce nere, gialle, bianche e rosse per il freddo, ma felici per le arrampicate, le cadute, le ginocchia sbucciate e la voglia, infine, di tornare a casa…».

Anche gli esercizi commerciali e le tradizioni artigianali hanno ripreso a pulsare: «…Sono le famose botteghe artigiane di Riace dove si lavora il legno, il vetro, la lana, i tessuti e molte altre cose. In ognuna di queste troviamo un ragazzo (o una ragazza) di Riace ed almeno un o una migrante, tutti nelle rispettive uniformi di lavoro, intenti nelle loro attività quotidiane, frutto di un apprendimento paziente di mestieri antichi, di una bellezza mai spenta. Dentro un bugigattolo lungo e stretto, ingombro di giocattoli di legno di ogni forma e dimensione, troviamo un uomo di mezz’età (ha 50 anni, dice), che viene dal Kurdistan e, racconta, è arrivato a Riace nel 1998. Ci spiegano che è uno dei primi stranieri ad essere arrivato a Riace e, da allora, non se ne è mai andato. Lavora il legno mentre parla, dipinge a mano una bambolina. Il tocco è preciso, solo un momento si ferma ed alza gli occhi, quando gli chiediamo del suo Paese. ‘Non va bene’, dice…’Non va bene’ e ricomincia a dipingere, quasi a voler mantenere il distacco dalle idee e dai ricordi di un tempo…».

La relazione prefettizia si sofferma anche su uno degli aspetti più caratteristici del “modello” creato da Lucano: “…Più in basso, per una estensione di svariate decine di metri, sono stati realizzati alcuni terrazzamenti ordinati, in cima ai quali si palesa una specie di aia, con degli asini al pascolo. Servono per la differenziata, ci spiegano, che viene fatta con il metodo della raccolta porta a porta (a dorso di mulo), nelle stradine strette di Riace, dove le automobili non passano. Su quelle terrazze, che degradano sotto gli zoccoli dei muli, sorgono ad intervalli differenziati delle piccole costruzioni vuote, con un ampio spazio di terra intorno. Il sindaco spiega che il progetto che stiamo osservando prevede la concessione in uso ai migranti di tutte quelle casettine, nelle quali custodire i propri animali domestici e provvedere quindi alla coltivazione, da parte di ciascuno, di un orto, i cui frutti potranno approvvigionare le dispense con i prodotti della terra (casomai i bonus non dovessero bastare). Riace è anche questo: l’inventiva legata alla tradizione, l’idea di recuperare spazi per lavorare la terra e sfamare i propri familiari con quello che la fatica delle mani riesce a realizzare. Certo, avremmo potuto chiedere al Sindaco maggiori dettagli sul rispetto delle regole urbanistiche nella realizzazione del progetto e se le casette fossero state realizzate da ditte iscritte nella white list o individuate con manifestazione d’interesse aperta almeno a 5 concorrenti, ovvero se le dimensioni dei terrazzamenti fossero rispondenti a quelle previste dalla legge agraria del 1982, ma eravamo lì per l’ispezione ai Cas e non potevamo venire meno all’incarico che ci era stato affidato…”.

L’opera di Lucano non è stata oggetto solo di legittimi interrogativi, come quelli appena ricordati. Anche la magistratura ha indagato sul sindaco di Riace, finito agli arresti domiciliari e successivamente riconosciuto estraneo ai fatti che gli erano stati contestati. Un esito importante, certo, ma che non potrà cancellare l’umiliazione delle prime pagine dedicate a Lucano dalle principali testate, dai siti web, dalle tv di tutto il mondo. E nemmeno l’amarezza per la fine del grande sogno di Riace. Un gran peccato. Tutto funzionava bene. L’orologio della solidarietà segnava un tempo preciso. Costante. Regalava sorrisi. Era stato capace di restituire la speranza di una vita diversa ad un esercito di donne, uomini, bambini provenienti da territori poveri, piagati dalla fame, dalle malattie. Dilaniati dalla guerra. Teatro di profonde sopraffazioni. «Chiunque bussi alla nostra porta, che sia un miserabile, un profugo o un viaggiatore, rappresenta l’unica salvezza per il mondo intero, la sola speranza contro la violenza della storia», rispondeva Lucano a chiunque gli chiedesse il segreto di quella positiva esperienza. Aggiungendo che Riace contribuiva a «riaffermare i valori della Costituzione nata dalla lotta dei partigiani, in nome di un’umanità solidale che deve essere ribadita per contrastare l’onda nera che sta attraversando il mondo. Un fenomeno globale, come è globale l’esistenza di un popolo in viaggio affamato d’umanità. È un processo che investe l’Africa e il Medio Oriente, come ben sappiamo, così come l’America con le carovane che attraversano il Centro America e si muovono verso gli Stati Uniti solo per trovarsi davanti a trafficanti di uomini, muri, fucili e propaganda».

Lucano, nonostante tutto, continua a credere che ogni comunità debba fondarsi sul rispetto della dignità umana. Merita la nostra ammirazione anche per questo. Ma ognuno di noi deve avere fiducia in questa idea e operare perché non cada nell’oblio. Significherebbe non solo tradire i valori fondamentali della nostra democrazia, ma indebolire il senso stesso della nostra esistenza. (fk)

IL FUORILEGGE – La lunga battaglia di un uomo solo
di Mimmo Lucano
Feltrinelli (2020) ISBN 9788807173813

SANT’ANDREA APOSTOLO: STASERA LA MALIGREDI DI CRIACO

22 luglio – Sarà presentato questa sera, a Sant’Andrea Apostolo, alle 21.30, presso il Chiostro del Convento Suore Riparatrici, il libro “La Maligredi” di Gioacchino Criaco.
All’evento, organizzato dall’Associazione Primavera Andreolese, oltre all’autore, saranno presenti il giornalista Filippo Veltri, Domenico Lucano, sindaco di Riace, e Nicola Ramogida, sindaco di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio.
Il libro è edito da Feltrinelli. (rcz)