Nicola Gratteri alla Camera: «La mafia oggi va braccata sulle reti digitali»

di PINO NANO – «Sul piano del contrasto alla criminalità organizzata e alle sue nuove forme, abbiamo perso molto know how. Fino a sei o sette anni fa, le nostre forze dell’ordine erano le migliori, “davano le carte” in tutti i più importanti tavoli internazionali, oggi non è più così. E questo perché chi ha programmato il Paese negli ultimi dieci, quindici anni non ha avuto capacità di visione».

-Procuratore Gratteri, come se ne esce?

«Serve che il Governo decida di investire in software, e serve farlo subito. Serve assumere ingegneri informatici, oltre che coprire le piante organiche delle forze dell’ordine C’è chi dice limitiamo e torniamo indietro sulle intercettazioni, torniamo al maresciallo anni 50. Se non capiamo e non ci rendiamo conto che oggi un telefonino è più potente del computer che ha consentito all’uomo di atterrare sulla Luna e che possiamo ordinare sul dark web due tonnellate di cocaina comodamente dal salotto, e allo stesso tempo sento dire che bisogna tornare ai pedinamenti, io mi preoccupo, rabbrividisco e mi arrabbio. Le mafie e la criminalità mutano col mutare della società».

Nicola Gratteri non fa sconti a nessuno, e si sbagliava chi immaginava che una volta destinato a Napoli a guidare la Procura più grande d’Europa, se ne stesse richiuso nel silenzio ovattato della sua stanza, sulla parte più alta e inaccessibile del grattacielo che ospita la Procura napoletana. 

Ieri alla Camera dei Deputati è tornato a tuonare contro tutto il sistema che oggi gestisce la macchina burocratica della giustizia italiana. Ma soprattutto, è tornato in cattedra, su invito della Fondazione Internazionale Magna Grecia, per spiegare come anche la mafia abbia rivoluzionato la sua vita interna, adeguandola alla tecnologia più avanzata del momento. Del resto, commenta il procuratore di Napoli, viviamo nell’era dell’Intelligenza Artificiale e dovevamo pure aspettarcelo.

Nessuno dieci anni avrebbe mai potuto immaginarlo, ma oggi la mafia controlla e governa anche le reti digitali di tutto il mondo. Come? Semplice. Dialogando con gli altri, conquistando la gestione diretta del mondo dei social, entrando in contatto con il mondo digitale. Questo del procuratore Gratteri sembra quasi il racconto avveniristico di un fenomeno nuovo, ma questa – avverte – è la realtà con cui gli investigatori da oggi in poi dovranno fare i conti. Un mondo completamente diverso da quello di un tempo, scandito oggi da contatti in rete e da algoritmi che solo in pochi sanno ancora governare bene, e tra “questi pochi” ci sono anche le mafie. 

Ma tutto questo ce lo spiega straordinariamente bene il Rapporto presentato ieri a Roma, alla Camera dei Deputati, dal Presidente della Fondazione Magna Grecia, l’onorevole Nino Foti, e di cui Nicola Gratteri ne è stato testimonial.

«La rivoluzione digitale – si legge nel rapporto della Fondazione – ha cambiato il modo di comunicare di tutti noi, compreso quello delle mafie. Nel grande ecosistema digitale, i Social Network Sites (Sns) sono i vettori privilegiati di interazione e diffusione dei contenuti. Dai pizzini ai social network, anche le mafie si sono adeguate al mondo digitale. Oggi comunicano con post, video e tweet, usati per parlare tra clan, per lanciare messaggi di avvertimento, per dare istruzioni, ma anche per arruolare nuove leve con codici e linguaggi che sembrano appartenere a veri e propri influencer». 

Utilizzano droni e sommergibili radiocomandati per trafficare in droga e armi, assoldano i migliori hacker del mondo, agiscono con disinvoltura sul web – dove hanno oramai spostato molte delle loro attività – creano banche online per riciclare denaro, cominciano a usare l’intelligenza artificiale. Sono queste le nuove mafie, sempre più abili a cavalcare l’onda dell’innovazione tecnologica e informatica per ampliare il loro raggio di azione e aumentare i profitti. 

-Cose che il Procuratore Nicola Gratteri racconta e spiega al Paese da anni.

Grazie alla loro grande capacità di adattamento le mafie sono diventate ormai organizzazioni ibride, capaci cioè di operare tanto nella realtà analogica quanto in quella digitale. Al tradizionale pizzo affiancano le estorsioni online, puntano sul metaverso e sul dark web. Se prima andavano alla ricerca di avvocati, commercialisti, broker, notai, agenti immobiliari… oggi, cercano ovunque ingegneri informatici, hacker e drug designer. La mafia corre in rete insomma, e corre veloce, mentre imprese e istituzioni arrancano affannosamente in un’eterna carenza e inadeguatezza di risorse e di personale specializzato. 

Tradotto in parole più semplici vuol dire che Facebook, YouTube, Twitter, Instagram e TikTok, in quest’ordine, si sono impadroniti della rete, dei nostri computer e dei nostri smartphone, creando una dimensione osmotica che integra e spesso risponde a quanto avviene nel reale. Le mafie, dunque, raccontano sé stesse e si (ri)specchiano nei post di denuncia dell’antimafia sociale: se gli esperti prima interpretavano il fenomeno organizzandone il racconto, ora si può assistere al reality show delle mafie semplicemente aprendo le nostre app e selezionando il flusso di contenuti suggeriti dagli algoritmi, o seguendo i trend virali degli hashtag o delle canzoni trap e neomelodiche. In tal senso, si è dimostrato quantomai necessario uno studio delle dinamiche performative dei mafiosi online.

Un report che non mancherà di far discutere e di essere analizzato da quanti ogni giorno si confrontano con questo tema e che racconta il “fenomeno criminale” attraverso un’analisi di 90 GB di video TikTok, due milioni e mezzo di tweet, 20mila commenti a video YouTube e centinaia fra profili e pagine di Facebook e Instagram, “«dai quali emergono – spiega il Presidente della Fondazione onorevole Nino Foti le caratteristiche di un fenomeno che sembra affermarsi sempre di più in una mescolanza dai confini labili tra reale e virtuale».

Ne emerge un immaginario digitale delle mafie che si alimenta in maniera circolare: i social sono lo specchio e il motore di aggiornamento costante (updatism) della cultura criminale mafiosa che risemantizza i vecchi immaginari costruendo consenso attraverso una bulimica creazione di contenuti. Come navigati influencer i rampolli delle mafie promuovono, attraverso la ridondanza del lusso, il successo del loro brand criminale. La generazione Z dei clan e delle paranze sta cambiando il volto delle organizzazioni criminali mostrando quanto sia necessario saper gestire la scena digitale per ottenere consenso ed essere riconoscibili in quanto mafiosi all’interno di una società in cui informazione e consumi rendono tutti uguali. 

Non a caso il Procuratore Nicola Gratteri ha tenuto ancora una volta una delle sue solite lezioni magistrali sul ruolo fondamentale che la scienza informatica può dare oggi a chi come lui dà la caccia ai latitanti della Ndrangheta in tutto il mondo, ricordando anche  – e sottolineando più volte- che nel paragone con altri sistemi giudiziari internazionali non sempre siamo i primi, «ma potremmo diventarlo se si investisse di più nella lotta al mondo organizzato del crimine, come fanno per esempio gli americani, un sistema che non condivido anche se più pragmatico del nostro, o come fanno ancora meglio gli israeliani che hanno capito meglio di tutti gli altri quanto il controllo della rete sia fondamentale per capire cosa si muove attorno a noi e come intervenire in tempo per evitare il peggio».

Ma anche su questo Nicola Gratteri va giù pesante.Il Procuratore di Napoli spiega infatti che il tema è attualissimo «ma i dati legati al rapporto che intercorre tra il mondo organizzato del crimine e il mondo digitale è in perenne trasformazione, e che quindi i dati di oggi tra sei mesi non saranno più utili. Da qui la necessità di riaggiornarli continuamente e si sottoporli ad analisi continue».

La ricerca, realizzata nel pieno rispetto della privacy, alla fine ha dimostrato che l’utilizzo dei social network rendono trasparenti i processi di comunicazione delle mafie in cui “fan”, simpatizzanti promuovono il “brand” attraverso un’estetica del potere che esalta il lusso e l’onore, e quindi il successo dell’organizzazione anche attraverso il ricordo di chi ha dato la vita e di chi ha patito il carcere per giungere a questo risultato. Tutte cose che Nicola Gratteri aveva già anticipato dieci anni fa, quando per la prima volta si incominciava a parlare di queste cose. 

I primi a comprendere l’importanza dei social media – racconta lo studioso italoamericano Antonio Nicaso che prende la parola subito dopo Nicola Gratteri – sono stati i cartelli messicani, dando sfoggio della loro potenza militare, ma anche della loro esasperata violenza.

«Su Youtube postavano i video delle loro efferatezze, simili a quelle dei jihadisti che decapitavano i loro nemici. Quei video hanno fatto da apripista. Nel vortice di una violenza sempre più ibrida, vistosamente comunicativa, sono finiti anche webmasters, cantanti neomelodici, rapper e trapper. Si è passati dalle ballate che raccontavano le gesta dei rivoluzionari messicani ai narcocorrido, le musiche popolari che descrivono, a volte celebrandole, le imprese dei narcos».

«Oggi sui social media c’è di tutto. Senza più il filtro di un regista, di uno sceneggiatore, di un autore. Oggi sono loro a rappresentarsi, a raccontarsi, a celebrare il mondo dei nuovi ricchi che, grazie ai narcopesos, vestono Armani e girano in Ferrari al fianco di ragazze strepitose. Anche i mafiosi sono diventati prosumer, consumatori e produttori di quello che in Nord America viene definito “cyberbanging”, ovvero l’esaltazione dei comportamenti, del tenore di vita di chi si è arricchito con i proventi delle attività criminali».

«Sembra quasi impossibile da credere, ma la cultura dei Meme sta prendendo il sopravvento su quella dei pizzini, contribuendo a svecchiare i miti del passato e a creare nuove narrazioni. La crescente iper-connettività – spiega bene il report della Fondazione Magna Grecia – ha portato a una diluizione dei confini tra la vita online e quella offline, con conseguenze significative sulla nostra antologia del presente».

E non a caso in prima fila ancora oggi c’è lui, Nicola Gratteri, il nemico numero uno di questa nuova Mafia digitale. (pn)

L’AUTONOMIA RISCHIA DI FARE UN FAVORE
ALLA MAFIA: BISOGNA ALZARE LA GUARDIA

di MIMMO NUNNARIL’ha scritto chiaramente anche su questo giornale Pietro Massimo Busetta che “l’Autonomia differenziata” se passa alla Camera passa perché è un ricatto della Lega ai suoi alleati di Fdi e Forza Italia, che così tradiranno il Sud come Giuda e neanche per trenta denari, ma più vilmente per mantenere fede ad un patto scellerato di Governo in cui non credono.

Probabilmente sarà il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto a chiedere a Forza Italia di sfilarsi, sia pure all’ultimo momento, dal “pactum scelleris” politico istituzionale voluto dalla Lega di Matteo Salvini e Roberto Calderoli. L’ultimo allarme è della Conferenza Episcopale Siciliana che con una nota durissima segnala diverse criticità della riforma «che mette a rischio l’unità nazionale» e sottolinea che il provvedimento voluto dal Governo e approdato alla Camera manchi di un esplicito è necessario richiamo all’articolo 2 della Costituzione “fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno abbienti”.

Non sappiamo con quale faccia i deputati del Sud della coalizione del Governo presieduto da Giorgia Meloni guarderanno i loro elettori dopo il “misfatto” ai quali non resterà che piangere per aver dato fiducia a chi non la meritava e aver  dato ai loro rappresentanti il potere di distruggere la propria gente.

Quali danni subirà il Sud non stiamo qui a ricordarlo tanto sé n’è parlato abbastanza ma possiamo scattare la fotografia del giorno dopo che vedrà il Nord somigliante al “Belgio grasso” è il Sud ad uno Stato mafia sul modello balcanico. Questo aspetto della mafia, che sarà favorita dall’Autonomia, non è stato molto approfondito ed è rimasto fuori dal dibattito, ma proviamo ad affrontarlo partendo da lontano, da quando profeticamente Giorgio Ruffolo nel libro Un paese troppo lungo, pubblicato da Einaudi nel 2011, rifletteva  sul problema della nascita dell’Italia che a distanza di secoli dalla conclusione del processo di unità nazionale restava un Paese disunito. Anzi, scriveva: «Sono sempre più forti quelle spinte che in forme storiche sempre diverse puntano a una dissoluzione dello stato unitario».

E avvertiva del rischio «di una decomposizione del tessuto nazionale al Nord con forme politiche provocatorie e al Sud con una forma ambigua di secessione criminale delle mafie che sottraggono sovranità allo Stato».

Erano ancora i tempi in cui la Lega Nord inseguiva il progetto di secessione ed  emergeva dalla riflessione del saggista e storico esponente del PSI di origini calabresi, che, a un progressivo indebolimento dell’ideale di nazione, potesse corrispondere una deriva mafiosa a Sud, col conseguente pericolo della caduta del Mezzogiorno sotto il controllo territoriale della mafie; un qualcosa che allora stava già accadendo in alcuni paesi dell’area balcanica nati dalla dissoluzione della Repubblica jugoslava. In quella straordinaria analisi di Ruffolo sulla situazione dell’Italia, che bisognerebbe attentamente rileggere oggi, tanto è attuale, si spiegava che, di fronte alle spinte antirisorgimentali, sempre più forti, l’unica speranza, per tenere insieme il nostro “lunghissimo paese”, era recuperare la «forza ideale della nazione».

Quella nazione che oggi con l’Autonomia si vuole definitivamente mettere da parte. Pochi, prestano attenzione a questo ulteriore rischio mafia per Il Sud  ma in uno scenario come quello ipotizzato da Ruffolo non lo si può escludere. Già oggi la situazione è quella che è. Basta sfogliare i giornali degli ultimi tempi: intimidazioni, spari contro negozi, incendi di auto di amministratori comunali, di privati cittadini; parroci  malmenati, vescovi minacciati. violenze diffuse. Non sono tra i più eclatanti fatti di cronaca – siamo tristemente abituai a ben altro – ma sono, tuttavia, storie di ordinaria prepotenza mafiosa: segnali preoccupanti che dimostrano come la strategia mafiosa è sempre più rivolta al controllo del territorio.Segnali inequivocabili che fanno intendere: “Qui comandiamo noi”. 

Ha detto bene monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano e vice presidente della Cei: «La mafia ci schiavizza. Noi dobbiamo recuperare la libertà, l’esercizio della libertà». Clima grave, dunque, insopportabile e che con meno Stato in futuro potrebbe diventare ancora più incandescente.

Occorrerebbe, perciò – prima di pensare all’Autonomia – ricostruire il tessuto connettivo di una presenza dello Stato nei territori, particolarmente in determinate aree, dove la pervasività del fenomeno mafioso si spiega anche col radicamento debole dello Stato che, nel tempo, ha perso sempre più sovranità.

L’indebolimento della funzione centrale statuale che comporterà il progetto dell’Autonomia, aggraverà la situazione: ci troveremmo in una situazione in cui l’autorità statale, venuta meno al compito di ridurre le disuguaglianze, non riuscirà più a far fronte pienamente ai suoi compiti e la mafia avrebbe campo libero. Riusciranno i nostri eroi deputati del Sud a votare secondo coscienza e non a comando? (mnu)

 

Quella volta che Scalfari giunse a Vibo per la cittadinanza onoraria e tuonare contro la mafia

di GREGORIO CORIGLIANO – Il 10 ottobre del 1990 Eugenio Scalfari venne in Calabria, esattamente nella città dei suoi nonni e di suo padre, Vibo Valentia. Guardando tra i miei taccuini, ho trovato la copia dattiloscritta del servizio che avevo realizzato per tg3/Calabria. Non avrei potuto ricordare la data, evidentemente. Rileggendolo, mi è venuta in mente la serata al Valentianum, alla presenza di centinaia e centinaia di persone, compresi politici ed amministratori locali e lo stesso on. Giacomo Mancini che era amico di Scalfari, ma soprattutto compagno di partito, quella volta che l’allora direttore di Repubblica fece l’esperienza di parlamentare. Scalfari parlò dell’attualità politica da par suo ma soprattutto si volle concedere alle domande di cittadini e soprattutto di studenti, oltre che di giornalisti. Vi ripropongo il servizio per il telegiornale di allora, escluso l’intervista che è ben custodita nelle teche della sede Rai calabrese.

Direttore cosa fare per vincere la battaglia contro la mafia, come spezzare il rapporto perverso mafia-politica, a cosa affidare la speranza di riscatto dei calabresi onesti, quale futuro attende questa Regione devastata dal cancro mafioso, l’attuale sistema politico ci consente di superare questa fase di gravi difficoltà? Queste alcune delle domande che, soprattutto giovani del comprensorio, hanno posto ieri sera al direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, intervenuto al Valentianum per ricevere la cittadinanza onoraria del Comune di Vibo Valentia ma anche per relazionare sul tema “Mafia e società calabrese”. Ed a lui gli studenti in particolare si sono rivolti come se fosse il ministro dell’Interno se non il capo del Governo, attendendo risposte pressocchè risolutive, impegni concreti addirittura. E Scalfari, da cittadino onorario – suo nonno ed i suoi genitori erano di Vibo- ha risposto pacatamente ma con fermezza a tutte le domande, anche a quelle che sembravano più dure, più provocatorie, da grande giornalista, da intellettuale che vive intensamente e criticamente le vicende politiche, economiche sociali del Paese.

Condividendo lo spirito del convegno ha invitato i giovani, ma anche i numerosissimi convegnisti, politici, amministratori, uomini cultura, gente di cultura, gente comune a non fare della denuncia della mafia un rituale- tanto non costa nulla, ha detto- ma un impegno concreto nella vita di ogni giorno, per sconfiggere essenzialmente la cultura mafiosa, il vero grande ostacolo per lo sviluppo della Regione. In una Calabria nella quale non è cambiato nulla dalla mia ultima visita, ha aggiunto Scalfari, o se è cambiato è cambiato in peggio, la cultura mafiosa che trova alimento nella degenerazione dei partiti, tutti omologati, si combatte senza contattare i potenti, contestano di fatto il loro operato. Ed in un paese sempre più devastato dalla cultura mafiosa, ecco che sono nate le Leghe che Scalfari vede come forte forme di protesta all’attuale sistema dei partiti ed in Calabria la soluzione potrebbe essere la concentrazione elettorale – uniti contro la mafia- come segnale disperato contro le organizzazioni criminali che hanno ormai confiscato il potere legale. E la Stampa cosa può fare?

Null’altro che la denuncia, anche forte, perché si abbia consapevolezza piena di cosa accade specialmente al Sud. Per quanto mi riguarda, ha concluso Eugenio Scalfari, per la Calabria farò qualcosa di più, accanto alla denuncia forte, troverò il sistema per parlare anche di quanto di positivo c’è- e ne sono convinto- in questa regione.
Prima di Scalfari, erano intervenuti i promotori dell’iniziativa, amministratori comunali di Vibo, vecchi e nuovi, il professor di Bella dell’Università di Messina, allievi del padre del direttore di Repubblica. Infine il conferimento della cittadinanza onoraria a Scalfari da parte del sindaco di Vibo, Giuseppe de Giovanni. E qui l’illustre giornalista ha invitato i promotori a continuare con queste iniziative, non limitandole, però, solo alle denunce verbali. La prossima volta, ed io tornerò, fate denunce concrete, fate, per esempio –dati alla mano-i nomi di chi devasta le coste, di chi è proprietario di ville sul mare, di chi non osserva la legge.

Questo il testo integrale del servizio del 1990, trentatrè anni fa. Anni che non sembrano essere passati, sol che si pensi a quanto è accaduto e accade ancora. Ancora oggi si parla di denunce che non ci sono a sufficienza, di devastazione delle coste, di abusivismo edilizio. Repubblica le denunce le ha fatte, anche con l’allora inviato Pantaleone Sergi. La cosa che Scalfari non ha mantenuto: il suo ritorno a Vibo. (gc)

L’OPINIONE / Giacomo Saccomanno: Mafia, arresti a ripetizione. Il nuovo Governo fa sul serio

di GIACOMO SACCOMANNOE sono 42! In poco tempo le Forze dell’Ordine, la Magistratura e le Istituzioni tutte hanno inferto pesanti colpi alle mafie. Specialmente, negli ultimi mesi vi sono stati arresti ponderosi a cominciare da Matteo Denaro Messina a finire ad Antonio Strangi. Colpi duri che comprovano la volontà di questo Governo di fare sul serio e di proseguire nel percorso di bonifica e di taglio effettivo della parte malata della nostra società.

Senza aggiungere le ultime operazioni avvenute in Calabria che hanno dimostrato, ancora una volta, la collusione tra la ‘ndrangheta, l’impresa e la politica. Un connubio deleterio per la società che, però, esiste ed ha portato la regione ad avere sempre più un controllo quasi diretto da parte delle lobby trasversali di potere. Indagini certosine che hanno comprovato questo sistema corruttivo tendente, quasi esclusivamente, ad acquisire illegalmente risorse pubbliche per il bene di pochi. Una tale azione, però, ha un vulnus: quello di arrivare sempre e spesso molto tardi, consentendo alla criminalità organizzata e alle lobby di gestire la cosa pubblica per molti anni, radicandosi sempre più nei gangli delle Istituzioni.

Ecco che soggetti insospettabili diventano il chiavistello per scardinare e derubare il bene pubblico. Ebbene, per tali condotte illecite bisogna creare un processo che abbia priorità e che, in caso di condanna, allontani definitivamente questi dal sistema istituzionale. Molto importanti sono stati e sono, ancora, i testimoni ed i collaboratori di giustizia, che, però, devono essere maggiormente tutelati: loro mettono a repentaglio la propria incolumità, oltre quella dei familiari, per fornire un contributo, quasi sempre rilevante, per l’accertamento della verità. Meritano una maggiore attenzione e tutela.

Non possono essere dimenticati dopo aver consentito il raggiungimento del risultato. Su questi punti vi è necessità di maggiore attenzione ed impegno da parte di tutti i soggetti che possono fornire un forte contributo, a cominciare dalla politica sana. E per il centrodestra tale obiettivo è, certamente, prioritario. (gs)

L’OPINIONE / Nicola Fiorita: Ora serve strategia concreta contro la mafia

di NICOLA FIORITAHo sempre detto che avrei avuto un atteggiamento collaborativo e slegato da ogni logica ideologica con il nuovo Governo del Paese e, pertanto, ritengo che la visita istituzionale del ministro della difesa Crosetto sia da giudicare positivamente. Ho apprezzato le sue parole di netta condanna della ‘ndrangheta e di ogni forma di criminalità. 

Ora, però, mi attendo, come primo cittadino del Capoluogo di Regione, una strategia concreta di contrasto alla mafia che non può che passare da un potenziamento degli organici della magistratura e delle forze dell’ordine. 

Il ministro Crosetto è stato preceduto qualche settimana fa dal Guardasigilli Nordio, mentre è superfluo ricordare il forte legame con la Città del sottosegretario agli interni Wanda Ferro.

Ecco, allora, i tre ministeri che direttamente possono determinare una svolta nel potenziamento di magistratura, carabinieri e polizia di Stato mettano in campo le azioni più opportune per segnare una sempre più forte presenza dello Stato in Calabria. 

A Catanzaro, dove registriamo una presenza molto inquietante nei quartieri a sud, c’è bisogno di più magistrati, di più carabinieri, di più agenti di Polizia di Stato. Se, come credo, la presenza di autorevoli esponenti del Governo Meloni non è stata solo una passerella- conclude Fiorita- ci attendiamo fatti concreti. (nf)

Caro Times, la Calabria non è il cuore della mafia

di GIUSY STAROPOLI CALAFATIDite, dite, cos’è esattamente il cuore della mafia?

È forse la clonazione forzata e abusiva del vitale muscolo umano, con effetto del medesimo formidabile battito? È un progetto ‘mpacchiuso di asini mezzi pazzi che si impappinano nel naturale verso del raglio? È una irreversibile febbre da parrasìa che slenta e sclera il cervello umano? È forse il piglio feroce dei diavoli contro il sentimento dei resistenti? Cos’è?

“Il cuore della mafia” è l’accusa più infamante e schifosa che si insiste nel far pesare sulla storia della Calabria, e su tutto il suo popolo. La mafia è un dramma universale che, forse, anzi certamente attecchisce con maggiore forza nelle terre più depresse, disagiate e sole, ma non per questo è necessario geolocalizzarla a Sud, tra i fuochi del Mezzogiorno, le diaspore del Meridione, facendo rapporto a una banale e assai stereotipata leggenda antica (Osso Mastrosso e Carcagnosso) in grado di umiliare la dignità di una terra gloriosa come la Calabria, e quella dei suoi uomini.

La mafia è un viaggio dal precario equilibrio che fa sosta dove più le aggrada. E gira il mondo intero anche in meno di 80 giorni. La Calabria è certamente una meta, ma il relativo non può sempre passare a tutti i costi per assoluto. Costa vite, come nelle guerre di mafia.

La Calabria è malata di questo cancro, è vero, ma non è il solo manicomio in cui la mafia folle sbarella. E se c’è un dolore che fa tremare il cuore dei calabresi, è l’offesa insistente di chi invece di guarirla, aiutarla a stare meglio, darle speranza, la sotterra. La confina al cuore della mafia.

Il vero hub della mafia, non è in Calabria che sta, (non solo) la bussola orienta di precisione, e indica oltre che i punti cardinali, il petto della più varia e svariata antimafia che la Calabria la tiene nel suo principale mirino, e che alla signora (mafia), nei bordelli comunitari di detenzione del titolo, tiene il filo del potere, e favorisce la logica della superbia. Scribi e farisei, maestri del nulla.
Ma che tipo di cuore avete voi che pur di mettere in croce una regione intera, arrivate a definirla il cuore della mafia? E fate gravare sul cuore dei figli l’errore dei padri, il disappunto degli occhi del mondo?

Un cuore di pietra forse, uno schifosissimo cuore di ferro. Un cuore arrugginito di latta. Venite a viverla e a soffrirla, la Calabria, invece di crocifiggerla. Sentirete batterle in petto il cuore di carne che ha. E piuttosto che infliggerle ulteriore dolore, le darete conforto. È questione di umanità.

The Times è crudele, non pensa a nulla se non all’effetto. Nei giorni scorsi, con un titolo assai bastardo e irregolare consegna la Calabria al massacro. Altro che morzello di Catanzaro!

“Mafia hub hires cuban doctors as Italy’s medics shun region”

Nel cuore della Calabria, The Times ‘people’, batte incessante il mio cuore, batte eccitato il cuore dei miei figli, batte forte quello di famiglie intere di gente per bene. Battono i sacrifici di molti, il lavoro di tanti, i lutti e le feste di tutti. E batte anche il cuore di giornali come The Times quando, per osservare la Calabria, anche nel dare appeal a un titolo di giornale, rigettano, con responsabilità e senso di giustizia, stereotipi e pregiudizi. 

Saremo pure nati un lembo di terra un po’ malandato e forse anche un tantino maledetto noi calabresi, ma il cuore di chi vive quaggiù, batte più forte di quello della mafia. La Calabria è il nostro cuore. (gsc)

L’OPINIONE / Giusy Staropoli Calafati: che miseria parlare di cuore della mafia

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – È forse la clonazione forzata e abusiva del vitale muscolo umano, con effetto del medesimo formidabile battito? È un progetto ‘mpacchiuso di asini mezzi pazzi che si impappinano nel naturale verso del raglio? È una irreversibile febbre da parrasìa che slenta e sclera il cervello umano? È forse il piglio feroce dei diavoli contro il sentimento dei resistenti? Cos’è?

“Il cuore della mafia” è l’accusa più infamante e schifosa che si insiste nel far pesare sulla storia della Calabria, e su tutto il suo popolo. La mafia è un dramma universale che, forse, anzi certamente attecchisce con maggiore forza nelle terre più depresse, disagiate e sole, ma non per questo è necessario geolocalizzarla a Sud, tra i fuochi del Mezzogiorno, le diaspore del Meridione, facendo rapporto a una banale leggenda figurativa (Osso Mastrosso e Carcagnosso) in grado di uccidere la dignità di una terra con tutti i suoi uomini a bordo. La mafia è un viaggio di precario equilibrio che fa sosta dove più le aggrada. E gira il mondo intero anche in meno di 80 giorni. La Calabria è certamente una meta, ma il relativo non può sempre passare a tutti i costi per assoluto. Costa vite, come nelle guerre di mafia.

La Calabria è malata di questo cancro, è vero, ma non è il solo manicomio in cui la mafia folle sbarella. E se c’è un dolore che fa tremare il cuore dei calabresi, è l’offesa insistente di chi invece di guarirla, aiutarla a stare meglio, darle speranza, la sotterra. La confina al cuore della mafia. 

Il vero hub della mafia, non è in Calabria che sta, (non solo) la bussola orienta di precisione, e indica oltre che i punti cardinali, il petto della più varia e svariata antimafia che la Calabria la tiene nel principio del suo mirino, e che alla signora (mafia), nei bordelli comunitari di detenzione del titolo, tiene il filo del potere, e favorisce la logica della superbia. Scribi e farisei, maestri del nulla.

Ma che tipo di cuore avete voi che pur di mettere in croce una regione intera, arrivate a definirla il cuore della mafia? E fate gravare sul cuore dei figli l’errore dei padri, il disappunto degli occhi del mondo?
Un cuore di pietra forse, uno schifosissimo cuore di ferro. Un cuore arrugginito di latta.
Venite a viverla e a soffrirla, la Calabria, invece di crocifiggerla. Sentirete batterle in petto il cuore di carne che ha. E Piuttosto che infliggerle ulteriore dolore, le darete conforto. È questione di umanità.
Il Times è crudele, non pensa a nulla se non all’effetto. Nei giorni scorsi, con un titolo assai bastardo e irregolare consegna la Calabria al massacro. Altro che morzello di Catanzaro!

“Mafia hub hires cuban doctors as Italy’s medics shun region”

Nel cuore della Calabria, batte incessante il mio cuore, batte eccitato il cuore dei miei figli, batte forte quello di famiglie intere di gente per bene. Battono i sacrifici di molti, il lavoro di tanti, i lutti e le feste di tutti. E batte anche il cuore di giornali come il Times, quando per osservare la Calabria, responsabilmente, anche solo per dare vita a un titolo di giornale, rigettano stereotipi e pregiudizi. Era solo giugno quando con sana e reale riconoscenza, la Calabria, proprio sul Times, veniva eletta meta ambita dopo le Maldive. 

Saremo pure un lembo di terra un po’ malandato e forse anche un tantino maledetto, ma il cuore di chi vive quaggiù, batte più forte di quello della mafia. Batte da rubare tanti altri cuori. (gsc)

L’allarme del procuratore Gratteri sugli aiuti.
Impedire che i soldi vadano in mano ai mafiosi

È da fine marzo che il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri va ripetendo che le aziende hanno bisogno di liquidità, ma occorre vigilare sulla destinazione dei fondi: il rischio che i soldi finiscano in mano ai mafiosi è molto concreto e occorre prendere le opportune precauzioni per evitare questa ulteriore opportunità per la ‘ndrangheta. In altra parte del giornale riferiamo l’intervento di Gratteri, in teleconferenza, all’Università La Sapienza, ma sta avendo molta eco la lettera-intervento che il magistrato, insieme con il suo coautore di sempre Antonio Nicaso, ha inviato sul tema al Corriere della Sera, dopo le polemiche sorte con l’editoriale dell’autorevole quotidiano tedesco Die Welt. Il giornale aveva invitato l’Europa a limitare gli aiuti di liquidità all’Italia perché c’era il rischio concreto che finisse a finanziare la mafia.

«Le mafie – scrivono Gratteri e Nicaso – sono un fenomeno con cui bisogna fare i conti. Ma non possono diventare un alibi, quando si tratta di intervenire per fronteggiare una crisi che sembra rievocare quella della Grande Depressione, come osserva il Fondo Monetario Internazionale. Oltre 170 Paesi registreranno quasi sicuramente una riduzione del reddito pro-capite e i settori più colpiti dalla sospesnsione dell’attività economica e sociale imposta dagli sforzi per contenere il contagio saranno principalmente il commercio al dettaglio, il settore turistico-alberghiero, i trasporti, ma soprattutto la piccola e media impresa.». Ed è qui che s”insinua la minaccia mafiosa. Il riferimento a precedenti storici è ben preciso: «In questo momento – scrivono Gratteri e Nicaso – servirebbe una riflessione sulla necessità di trattenere nel presente qualcosa di significativo del passato… Dopo il terremoto del 1908, le leggi sulla ricostruzione di Reggio Calabria e Messina hanno finito per incattivire gli scontri “intorno alla distribuzione e all’uso del denaro pubblico” vivacizzata da una nuova presenza: quella degli ‘ndranghetisti che avevano fatto i soldi negli Stati Uniti e che, approfittando dei ritardi e delle incertezze dei provvedimenti governativi, si erano messi a prestare soldi a usura. Il desiderio di scalare la piramide sociale, in quell’occasione, ha infoltito i ranghi di una organizzazione che, come nel caso della mafia in Sicilia e della camorra in Campania, non si è sviluppata nel vuoto delle istituzioni, ma al loro interno, grazie a collusioni, corruzione e sperpero di denaro pubblico».

Gratteri e Nicaso sul Corriere osservano che «c’è molta ipocrisia nell’atteggiamento di Paesi come la Germania o l’Olanda che temono il saccheggio delle risorse comunitarie da parte delle mafie ma non hanno mai fatto abbastanza per frenarne gli investimenti nei loro territori. Dalla caduta del muro di Berlino in poi, le mafie in moltiPaesi d’Europa non sono state viste come minaccia, ma come opportunità. Oggi, più che mai, i soldi del narcotraffico sono diventa ossigeno dell’economia legale. Come è successo al tempo della crisi del subprime in cui molte banche sono riuscite a far fronte ai problemi di liquidità finanziaria grazie ai soldi del narcotraffico, come ha denunciato coraggiosamente l’allora direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite per la lotta contro droga e crimine, Antonio Costa».

«Ci sarà – mettono in guardia Grattesi e Nicaso – chi cercherà di “condizionare” gli elenchi dei cittadini bisognosi che i sindaci sono chiamati a compilare; cercheranno di sfruttare i ritardi della burocrazia che regola il settore bancario, ma anche quello della pubblica amministrazione».

In conclusione, riferiscono i due autori di famosi bestseller su mafia e ‘ndrangheta che «Secondo i vertici della Direzione centrale anticrimine, tale scenario [l’impatto strutturale che deriva dall’attuale emergenza sanitaria, ndr] potrà evidenziare ampi margini di inserimento per la criminalità organizzata nella fase di riavvio di molteplici attività economiche, tenuto conto della circostanza che la crisi attuale si configurerà come portatrice di un deficit di liquidità, di una rimodulazione del mercato del lavoro, del conseguente afflusso di ingenti finanziamenti sia nazionali che comunitari».  Per queste ragioni «Il tempo della parole è finito. È tempo di agire, fare sistema, mettendo assieme tutte quelle forze che hanno a cuore il benessere del Paese. Se continueremo a cedere il passo a quella lunga e pericolosa convivenza tra faccendieri e mafiosi, faremo fatica a riprenderci.

A questo proposito è utile segnalare che il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha inviato ai prefetti una lettera in cui mette in evidenza i pericoli che nascono «nelle realtà caratterizzate da un minor sviluppo e da già elevati livelli di disoccupazione», in cui «un possibile aggravamento della situazione economica rischia di comportare il ricorso a forme di “sostegno” da parte delle organizzazioni criminali, che in tal modo mirano anche ad accrescere il consenso nei loro confronti». Diventa dunque «fondamentale l’azione di prevenzione e contrasto dei tentativi della criminalità organizzata di penetrare il tessuto produttivo… Un focus specifico – sottolinea il ministro – potrà essere dedicato alle dinamiche societarie della filiera agroalimentare, delle infrastrutture sanitarie, della gestione degli approvvigionamenti, specie di materiale medico, del comparto turistico-alberghiero e della ristorazione, nonché dei settori della distribuzione al dettaglio della piccola e media impresa». Non meno importante – secondo la Lamorgese – «l’attivazione di sportelli di ascolto e la promozione di iniziative di solidarietà a vantaggio delle fasce di cittadini con maggiori difficoltà. In tale ambito, una particolare premura dovrà essere prestata, tra gli altri, al tema del disagio abitativo».

Gratteri nella conversazione alla Sapienza (vedi il video) ha anticipato che gli incontri con l’Associazione dei Comuni italiani (Anci) hanno portato a focalizzare la necessità di un tempestivo controllo sul territorio utilizzando polizia e carabinieri cui i sindaci possono passare le richieste di solidarietà e aiuto. (rrm)