Il racconto di Franco Cimino: Ma’, quando vena Natala?

di FRANCO CIMINO – È arrivato!» È arrivato chi? «È arrivato Natale». Ma come, non c’è già stato ieri-un anno fa? «No, non c’è stato ieri-un anno fa e forse neppure l’altro ieri-due anni fa. Ovvero, se è arrivato o lui non si è fatto vedere o noi non l’abbiamo visto. Perché se Natale, il Natale, da qualche parte fosse venuto noi non saremmo così. Dolenti, tristi, arrabbiati, guerreggianti e bellicosi, solitari e divisi. Quando Natale veniva, mille anni fa, durava più di un mese, quelli dei giorni della sua attesa. E poi anche dopo, per tanti altri giorni ancora, fino a sentire il Capodanno come un’appendice, un riflesso, una mera proiezione del Natale. Era quella un’attesa, che pure passava presto, che ci trovava tutti bambini e agli uomini di qualsiasi età infondeva quello spirito fanciullo che durava per molti mesi. Quella fanciullezza di fatto trasformava il dolore e la morte in una nuova attesa. L’attesa di un tempo nuovo, ancor prima che i credenti sentissero il mistero della Nascita e in esso credessero fino in fondo. Quella fanciullezza del Natale permeava i cuori di tutti, credenti e non credenti, tanto bello e pieno di sentimenti e significati Natale era. Utilizzo volutamente il nome di persona perché Natale è persona, è amore, è spirito divino che diviene. È bellezza che di sé tutto informa e di se stessa lascia la forma. È ragione che si arrende alla sua bontà e alla sua natura ottimistica del cammino umano. Siamo tutti diventati migliori col Natale. 

Con quello spirito abbiamo lottato contro l’odio, l’inimicizia, la prepotenza, l’egoismo, l’intolleranza, l’arroganza. L’invidia. E anche contro la violenza che si fa potere e il potere che si fa violenza. Abbiamo lottato contro le guerre e le ingiustizie e contro la sopraffazione della libertà e in essa delle libertà e dei diritti umani. È vero che non ci siamo riusciti fino in fondo se in giro per il mondo, per l’Europa, per l’Italia, per le nostre piccole comunità, tracce di tutti quei disvalori ve ne sono state e ve ne sono ancora, ma piccoli passi in avanti verso quella civiltà cristiana(vogliamo chiamarla ancora così a dispetto di una certa Europa falsamente laica e falsamente democratica)li abbiamo fatti. E li abbiamo fatti con quella coscienza tesa che ha sempre comportato una sorta di dovere di riflessione sulle cose umane. E anche addirittura sul dovere che gli uomini devono compiere per realizzare il bene e sulla responsabilità che essi hanno dinanzi al male che si muove nella società. 

Una riflessione, quella passata, che magari si è mossa come il gambero – un po’ avanti, un po’ indietro – che si è coperta talvolta di ipocrisia. E, però, ci si interrogava. In qualche modo un poco ci cambiava. E c’era anche chi pregava, in quel Natale lì. E c’era anche chi pensava. Tanta gente si incontrava perché Natale era l’incontro. Delle famiglie, degli amici, tra persone, tra comunità. Natale era avere uno sguardo per l’altro. L’interesse per l’altro. Un gesto per gli altri. Per chi stesse male. Per chi stesse peggio di noi. Per gli sfortunati, gli abbandonati. Gli affamati di tutto. Gli assetati dell’acqua e del sapere. Assetati e affamati della parola. Ipocrisia o no, tanta o poca falsità, che fosse la ciclica recitazione sul palcoscenico dell’autopurificazione o no, della cancellazione dei sensi di colpa o no, della facile autoassoluzione o no, che durasse, pietismo d’accatto o egoismo caritatevole compresi, poco più che quel tempo del Natale, poco importa. Davvero assai poco importa. Qualcosa di noi c’era. Quella fanciullezza c’era. Quei gesti c’erano.  

E di più quell’interrogarsi che un poco ci inquietava. E c’era più che Babbo Natale, che portava i doni, Gesù Bambino che ci sorrideva. E il padre. C’era questa figura bella e completa, autorità che formava, forza che rassicurava, cattedra che trasmetteva regole e valori. Compreso il valore indissolubile del rispetto delle istituzioni. A partire da quelle politiche e della scuola. Per la fede, la sua cura, che però si era liberi di accettare o di praticare, per i sentimenti e la delicatezza quasi fragile dinnanzi a essi, vi era la madre, che di quel Natale era protagonista. La più importante, forse, come la Madonna nella mangiatoia. 

E adesso? Che Natale è adesso? È un Natale di fragilità e di paura. Di insicurezza. 

È un Natale di ogni fede sospesa. Anche quella laica verso la Ragione e la Politica. È un Natale di sfiducia. Verso l’uomo e quindi verso se stessi. Sfiducia verso le istituzioni e gli uomini in generale e verso quelli che le istituzioni rappresentano. Sfiducia e paura che scarichiamo non più solo sullo “straniero”, il nemico, che ci ruba pane e donne, le cose e il lavoro, ma verso i prossimi a noi, le persone che appartengono alla nostra società. Gli Stati nazionali contro gli altri Stati, in ragione di un nazionalismo che viene difeso chiudendo la braccia della solidarietà e i confini su cui elevare muri altissimi e pareti di filo spinato ancora più invalicabili. Le singole persone contro altre persone. Si dice, all’incontrario di quel che si diceva quando chiusi nelle case ci affacciavano alla vita solo dai balconi, che non siamo diventati migliori con la pandemia. 

Che siamo diventati insensibili difronte al dolore altrui, addirittura indifferenti dinanzi alla morte. Quelle immagini delle sale di rianimazione in cui esseri umani per settimane stanno intubati e addormentati con la pancia in giù, non ci procurano più neppure un’emozione, che fosse anche la paura di trovarci noi in quel posto. 

Il virus maledetto non ci fa paura, addormentati come siamo nelle verbosa disputa che riempie i palinsesti di tutte le reti televisive tra no vax e sì vax, tra i no pass e i sì pass. È andato smarrito quello spirito di solidarietà che animava i popoli della cultura cristiana. 

La cultura del rispetto verso gli anziani si è dissolta in quella preoccupazione, ritenuta eccessivamente costosa, di proteggere socialmente e sanitariamente i nostri vecchi dall’assalto del virus. L’economia prima della vita, il consenso elettorale prima del sentimento. La prepotenza dei più forti prima della ragione. L’istinto prima della politica. I governi stessi, non solo quello italiano, tergiversano nel prendere provvedimenti che più rigorosi saranno assunti a giorni, per non sottrarre al Natale odierno la spinta ai consumi, perché questa aiuta l’economia e salva le aziende e l’occupazione, dicono. Il ricatto del pane sul valore della vita, costringe i cittadini consumatori a scindersi per mantenersi solo consumatori. 

E così nel timore di nuove rovine ci siamo tutti catapultati nelle strade per affollar negozi e luoghi della ristorazione. Un vaccino in più e tre mascherine al giorno, per sentire addosso il profumo di una libertà, che oggi è fittizia e insincera. Illusoria di un diritto ormai sfumato. Sfocato se visto da lontano con gli occhi malati. Si dice che è tutta colpa del Covid, che una volta sconfitto ci riporterà allo stato di bontà pura, come se in questi ultimi vent’anni siamo stati e buoni e belli e giusti. 

No, eravamo così già da prima. Da quando abbiamo perso il senso del Natale. Il Covid, la cui lezione non abbiamo appreso affatto, ha solo tolto il velo a una società che ha smarrito i valori di fondo su cui si è costituita. La nostra, nata dalla fusione del pensiero risorgimentale con le idealità antifasciste, ha trovato come collante sicuro, unitamente alla visione laica dello Stato e all’umanesimo socialista, quella cultura cristiana, che ha cambiato il mondo, rinnovando l’uomo. 

Che Natale, allora, può essere questo? Come il tempo umano, anch’esso si trova davanti a un bivio. Sempre quello, tra l’altro, davanti al quale si trova l’uomo. Specialmente, oggi. Questo Natale può essere l’ultimo. Quello del Natale che uccide Natale. Ovvero, il primo. Quello che dalla sua anima antica rinasce tale e quale come l’ha voluto Francesco d’Assisi nel lontano 1223 quando ha “ inventato” il presepe. È il Natale della Vita. E della povertà condivisa, contrastata, abbattuta, attraverso l’affermazione dell’eguaglianza e della giustizia, questa intesa come guardiana della Libertà. 

Un Natale che trasforma la povertà in ricchezza per tutti, e i doni al divin Bambino in beni per tutti. Beni in cui il pane, di farina e di spiritualità, sia alimento per l’uomo integrale, e la scienza sia strumento anche della coscienza individuale e collettiva, affinché inondi la Politica di luce nuova e il cammino dell’umanità di un passo al contempo veloce e lento. Veloce per camminare al passo coi tempi e con la tecnica. Lento, per non lasciare indietro chi non può correre e i valori di un tempo in cui Natale era davvero il Natale. La scelta davanti a quel bivio è facile. Io ci credo. Arriverà presto. E sarà bellissimo, Natale. (fci)

Il racconto di Franco Cimino: «Ma quando vena Natala?»

di FRANCO CIMINO – “È arrivato!” È arrivato chi? “È arrivato Natale”. Ma come, non c’è già stato ieri -un anno fa? “No, non c’è stato ieri-un anno fa e forse neppure l’altro ieri-due anni fa. Ovvero, se è arrivato o lui non si è fatto vedere o noi non l’abbiamo visto. Perché se Natale, il Natale, da qualche parte fosse venuto noi non saremmo così. Dolenti, tristi, arrabbiati, guerreggianti e bellicosi, solitari e divisi.

Quando Natale veniva, mille anni fa, durava più di un mese, quelli dei giorni della sua attesa. E poi anche dopo, per tanti altri giorni ancora, fino a sentire il Capodanno come un’appendice, un riflesso, una mera proiezione del Natale. Era quella un’attesa, che pure passava presto, che ci trovava tutti bambini e agli uomini di qualsiasi età infondeva quello spirito fanciullo che durava per molti mesi. Quella fanciullezza di fatto trasformava il dolore e la morte in una nuova attesa. L’attesa di un tempo nuovo, ancor prima che i credenti sentissero il mistero della Nascita e in esso credessero fino in fondo. Quella fanciullezza del Natale permeava i cuori di tutti, credenti e non credenti, tanto bello e pieno di sentimenti e significati Natale era.

Utilizzo volutamente il nome di persona perché Natale è persona, è amore, è spirito divino che diviene. È bellezza che di sé tutto informa e di se stessa lascia la forma. È ragione che si arrende alla sua bontà e alla sua natura ottimistica del cammino umano. Siamo tutti diventati migliori col Natale. Con quello spirito abbiamo lottato contro l’odio, l’inimicizia, la prepotenza, l’egoismo, l’intolleranza, l’arroganza. L’invidia. E anche contro la violenza che si fa potere e il potere che si fa violenza. Abbiamo lottato contro le guerre e le ingiustizie e contro la sopraffazione della libertà e in essa delle libertà e dei diritti umani. È vero che non ci siamo riusciti fino in fondo se in giro per il mondo, per l’Europa, per l’Italia, per le nostre piccole comunità, tracce di tutti quei disvalori ve ne sono state e ve ne sono ancora, ma piccoli passi in avanti verso quella civiltà cristiana(vogliamo chiamarla ancora così a dispetto di una certa Europa falsamente laica e falsamente democratica)li abbiamo fatti. E li abbiamo fatti con quella coscienza tesa che ha sempre comportato una sorta di dovere di riflessione sulle cose umane. E anche addirittura sul dovere che gli uomini devono compiere per realizzare il bene e sulla responsabilità che essi hanno dinanzi al male che si muove nella società.

Una riflessione, quella passata, che magari si è mossa come il gambero- un po’ avanti, un po’ indietro- che si è coperta talvolta di ipocrisia. E, pero, ci si interrogava. In qualche modo un poco ci cambiava. E c’era anche chi pregava, in quel Natale lì. E c’era anche chi pensava. Tanta gente si incontrava perché Natale era l’incontro. Delle famiglie, degli amici, tra persone, tra comunità. Natale era avere uno sguardo per l’altro. L’interesse per l’altro. Un gesto per gli altri. Per chi stesse male. Per chi stesse peggio di noi. Per gli sfortunati, gli abbandonati. Gli affamati di tutto. Gli assetati dell’acqua e del sapere. Assetati e affamati della parola. Ipocrisia o no, tanta o poca falsità, che fosse la ciclica recitazione sul palcoscenico dell’autopurificazione o no, della cancellazione dei sensi di colpa o no, della facile autoassoluzione o no, che durasse, pietismo d’accatto o egoismo caritatevole compresi, poco più che quel tempo rel Natale, poco importa. Davvero assai poco importa. Qualcosa di noi c’era. Quella fanciullezza c’era. Quei gesti c’erano. E di più quell’interrogarsi che un poco ci inquietava. E c’era più che Babbo Natale, che portava i doni, Gesù Bambino che ci sorrideva. E il padre. C’era questa figura bella e completa, autorità che formava, forza che rassicurava, cattedra che trasmetteva regole e valori. Compreso il valore indissolubile del rispetto delle istituzioni. A partire da quelle politiche e della scuola. Per la fede, la sua cura, che però si era liberi di accettare o di praticare, per i sentimenti e la delicatezza quasi fragile dinnanzi a essi, vi era la madre, che di quel Natale era protagonista. La più importante, forse, come la Madonna nella mangiatoia.

E adesso? Che Natale è adesso? È un Natale di fragilità e di paura. Di insicurezza . È un Natale di ogni fede sospesa. Anche quella laica verso la Ragione e la Politica. È un Natale di sfiducia. Verso l’uomo e quindi verso se stessi. Sfiducia verso le istituzioni e gli uomini in generale e verso quelli che le istituzioni rappresentano. Sfiducia e paura che scarichiamo non più solo sullo “straniero”, il nemico, che ci ruba pane e donne, le cose e il lavoro, ma verso i prossimi a noi, le persone che appartengono alla nostra società. Gli stati nazionali contro gli altri stati, in ragione di un nazionalismo che viene difeso chiudendo la braccia della solidarietà e i confini su cui elevare muri altissimi e pareti di filo spinato ancora più invalicabili. Le singole persone contro altre persone. Si dice, all’incontrario di quel che si diceva quando chiusi nelle case ci affacciavano alla vita solo dai balconi, che non siamo diventati migliori con la pandemia. Che siamo diventati insensibili difronte al dolore altrui, addirittura indifferenti dinanzi alla morte.

Quelle immagini delle sale di rianimazione in cui esseri umani per settimane stanno intubati e addormentati con la pancia in giù, non ci procurano più neppure un’emozione, che fosse anche la paura di trovarci noi in quel posto. Il virus maledetto non ci fa paura, addormentati come siamo nelle verbosa disputa che riempie i palinsesti di tutte le reti televisive tra no vax e sì vax, tra i no pass e i sì pass. È andato smarrito quello spirito di solidarietà che animava i popoli della cultura cristiana. La cultura del rispetto verso gli anziani si è dissolta in quella preoccupazione, ritenuta eccessivamente costosa, di proteggere socialmente e sanitariamente i nostri vecchi dall’assalto del virus. L’economia prima della vita, il consenso elettorale prima del sentimento. La prepotenza dei più forti prima della ragione. L’istinto prima della politica. I governi stessi, non solo quello italiano, tergiversano nel prendere provvedimenti che più rigorosi saranno assunti a giorni, per non sottrarre al Natale odierno la spinta ai consumi, perché questa aiuta l’economia e salva le aziende e l’occupazione, dicono.

Il ricatto del pane sul valore della vita, costringe i cittadini consumatori a scindersi per mantenersi solo consumatori. È così nel timore di nuove rovine ci siamo tutti catapultati nelle strade per affollar negozi e luoghi della ristorazione. Un vaccino in più e tre mascherine al giorno, per sentire addosso il profumo di una libertà, che oggi è fittizia e insincera. Illusoria di un diritto ormai sfumato. Sfocato se visto da lontano con gli occhi malati. Si dice che è tutta colpa del Covid, che una volta sconfitto ci riporterà allo stato di bontà pura, come se in questi ultimi vent’anni siamo stati e buoni e belli e giusti. No, eravamo così già da prima. Da quando abbiamo perso il senso del Natale. Il Covid, la cui lezione non abbiamo appreso affatto, ha solo tolto il velo a una società che ha smarrito i valori di fondo su cui si è costituita. La nostra, nata dalla fusione del pensiero risorgimentale con le idealità antifasciste, ha trovato come collante sicuro, unitamente alla visione laica dello Stato e all’umanesimo socialista, quella cultura cristiana, che ha cambiato il mondo, rinnovando l’uomo. Che Natale, allora, può essere questo? Come il tempo umano, anch’esso si trova davanti a un bivio. Sempre quello, tra l’altro, davanti al quale si trova l’uomo.

Specialmente, oggi. Questo Natale può essere l’ultimo. Quello del Natale che uccide Natale. Ovvero, il primo. Quello che dalla sua anima antica rinasce tale e quale come l’ha voluto Francesco d’Assisi nel lontano 1223 quando ha “ inventato” il presepe. È il Natale della Vita. E della povertà condivisa, contrastata, abbattuta, attraverso l’affermazione dell’eguaglianza e della giustizia, questa intesa come guardiana della Libertà. Un Natale che trasforma la povertà in ricchezza per tutti, e i doni al divin Bambino in beni per tutti. Beni in cui il pane, di farina e di spiritualità, sia alimento per l’uomo integrale, e la scienza sia strumento anche della coscienza individuale e collettiva, affinché inondi la Politica di luce nuova e il cammino dell’umanità di un passo al contempo veloce e lento. Veloce per camminare al passo coi tempi e con la tecnica. Lento, per non lasciare indietro chi non può correre e i valori di un tempo in cui Natale era davvero il Natale. La scelta davanti a quel bivio è facile. Io ci credo. Arriverà presto. E sarà bellissimo, Natale. (fc)

Il racconto di Natale / Pasquale Amato, storico di Reggio

di PASQUALE AMATO – È la notte di Natale del terribile 2020 dominato dalla pandemia del CoronaVirus. Per la prima volta nella mia vita ho passato in solitudine, per autonoma scelta, la vigilia del 24 dicembre. Sono solo nella casa della mia amata Reggio. Si trova in quella Via Lia che conosco dagli anni dell’infanzia e della gioventù, quando nei mesi autunnali e invernali era la Fiumarella Lia che dalla cima della Collina di Pentimele confluiva nella Fiumara Annunziata, confine Nord del centro cittadino; e nei caldi mesi estivi si tramutava in una mulattiera che noi ragazzi scalavamo sino in cima, nel Fortino,  raccogliendo tante more selvatiche dai cespugli che delimitavano i Bergamotteti e gli Agrumeti ai loro fianchi. Immersi nei profumi che emanavano dai Fiori di Zagara, ci fermavamo finalmente, stanchi ma felici, in cima a consumare il panino preparato da nonne e madri (il mio preferito era quello con la frittata di patate che ancora oggi gradisco enormemente quando mia sorella Cettina me la porta ancora calda di buon mattino. Me la preparava la mia nonna paterna Concetta, cuoca provetta che trovò in mia madre Gioconda una bravissima allieva ed oggi in mia sorella una valida erede). Da lassù ci godevamo lo straordinario panorama della città che degradava lentamente verso il mare con la catena dei Monti Peloritani e il mastodontico e fumante vulcano Etna sullo sfondo. Aspettavamo, per iniziare la discesa, i primi colori stupendi che il sole forma mentre comincia a calare dietro quello scenario da favola. Oggi i Bergamotteti non ci sono più, sostituiti da palazzi e palazzine e dall’ex-Fiumarella-mulattiera trasformata in una delle Vie più frequentate di Reggio. Quando piove forte, però, la natura si prende la sua rivincita trasformando la Via Lia nella Fiumarella che storicamente è sempre stata.

In quegli Anni Cinquanta e Sessanta il Natale era un periodo magico. Era atteso tutto l’anno da tutti, giovani e adulti. Per noi più giovani era il periodo in cui i sogni coltivati per un anno si addensavano in momenti di vita collettiva vissuti con l’intera parentela. Aveva le sue anteprime nella Pasqua e Pasquetta e nel Ferragosto. Ma le Feste di Natale erano tutt’altra cosa. Erano il culmine dei sentimenti, delle emozioni attese e sognate per un anno. C’erano anche allora il Cenone della Vigilia e il Pranzo di Natale. E poi – nel breve giro di una settimana – la ripetizione di entrambi nella vigilia di fine anno e nel Capodanno. C’erano anche le crispelle, i petrali e i torroni, ancora oggi protagonisti delle tavole natalizie dei reggini, testimonianze di riti millenari che resistono ai segni del tempo. Fanno parte delle “Onde di lunga durata” della Storia che sono state l’intuizione geniale di Fernand Braudel nell’ambito della rivoluzione storiografica delle Annales di Parigi. Esse resistono per millenni, permanendo oltre qualsiasi evento o epoca.  Ma era il clima che era differente. Nella mia famiglia acquistava poi un sapore speciale.

Dai primi giorni di dicembre cominciavano i preparativi nel laboratorio della Pasticceria di mio padre Lorenzo per la lavorazione dei torroni. Allora erano soprattutto di tre tipi: il torrone bianco all’ostia – il più antico -, il torrone Gelato e il torrone “a spoglia” ricoperto di glassa di vari gusti. Sto risentendo – nell’immaginario della mia mente – la sensazione olfattiva piacevolissima del torrone che usciva dal forno e inondava col suo profumo non solo il negozio ma anche l’aria attorno alla Pasticceria. Seguiva poi per noi più giovani la fase quasi avventurosa della confezione dei torroni “a spoglia” (“l’impogliamento”). Si realizzava una vera e propria mobilitazione di massa della famiglia, allargata ai parenti, con cugine e cugini, zie e zii. Era già l’anticipazione dei giorni centrali in cui davamo tutti una mano (a partire da noi tre gli: Sandro in laboratorio, Cettina alla cassa ed io nelle relazioni umane e vendite assieme a mia madre). Poi ci  ritrovavamo in tanti a tavola in alcune case che furono i luoghi d’incontro più ampi dopo le cene e i pranzi e negli altri giorni sino al 6 gennaio. Era il Giorno della Befana atteso con particolare ansia da noi più giovani, perché si ricevevano doni che ci avrebbero accompagnati per un anno. I giocattoli, i giochi, i libri illustrati venivano donati soprattutto in quel giorno, che segnava altresì l’ultimo delle vacanze natalizie con il ritorno a scuola il 7 gennaio.

I luoghi collettivi furono soprattutto due: la casa di mio nonno Alessandro Mastronardi sino a quando fu possibile. Poi la crescita delle famiglie rese impossibile che ci ritrovassimo tutti nella stessa casa del Rione Tremulini, i cui cortili brulicavano allora delle voci di tantissimi bambini mentre oggi sono vuoti e silenziosi. Così ci dividemmo in case diverse ma con una dove ci radunavamo tutti al di fuori dei cenoni e dei pranzi: la casa della famiglia La Bozzetta in viale Amendola, sempre a Tremulini. In essa dominava, con il piglio e l’autorità di una vera  leader, la maggiore delle cinque sorelle Mastronardi: la Zia Maria. Nei momenti conviviali ci ritrovavamo nel salone le famiglie La Bozzetta e Amato, con lo zio Giovanni grande esecutore di tutte le operazioni, dato che la mia famiglia era totalmente ingoiata dall’attività in Pasticceria. Nelle due Cene e Pranzi si ergeva nel ruolo principale la figura di mio padre Lorenzo. Giunto il tempo dei dolci “suoi” e dei “liquori fatti in casa” (tra cui predominavano lo “Strega” e in particolare il “Caffé”, specialità della padrona di casa), si esibiva nella sua seconda passione: le arie delle più popolari opere liriche. Il repertorio era vario e cangiante ma due pezzi erano fissi: quello di apertura ( la “Donna è mobile” dal Rigoletto) e quello di chiusura (il Brindisi dalla “Traviata”). A latere dei pranzi di Natale e Capodanno si verificò per alcuni anni un problema logistico. Al momento di iniziare si constatavano due assenze: la mia in Casa La Bozzetta e quella di mio zio Ninì Mastronardi, soprannominato “il Filosofo” per la sua passione culturale e politica e la sua indifferenza allo scorrere del tempo. Ci davamo appuntamento, per darci gli Auguri,  alla chiusura della sua officina in Viale Amendola, di fronte a Piazza del Popolo. Ma la passione per la storia, la cultura e la dialettica prendeva il sopravvento. Mentre il tempo scorreva inesorabile e le due famiglie incaricavano della ricerca dei “dispersi” due dei tanti cugini di nome Alessandro (il figlio di Ninì e Sandro La Bozzetta), noi ci accompagnavamo a vicenda più volte tra Piazza del Popolo e Piazza De Nava, rinviando costantemente il momento di salutarci, immersi in un dialogo intenso che annullava il tempo. Sino a quando accadde che sballammo tutti i tempi arrivando ad accumulare un’ora e mezza di ritardo rispetto all’ora dell’una. Da allora fummo accompagnati entrambi alla chiusura dell’Officina dai rispettivi angeli custodi. Chiudo il mio Amarcord con la parte più legata all’antica tradizione che si tramanda dai tempi di San Francesco d’Assisi: il Presepe. Specialista nella sua costruzione, nella vecchia casa di via Cardinale Portanova, fu la mia nonna paterna Concetta,  originaria  di Benevento. Fu molto presente nei miei primi dieci anni consentendo a mia madre di impegnarsi nel banco di vendita della Pasticceria. Mia madre riuscì comunque ad imparare da lei sia l’arte della cucina che quella del Presepe. Così, quando nonna Concetta si ammalò e non fu più in grado di raggiungere a piedi casa mia, il Presepe lo continuò a costruire mia madre nello stesso angolo della prima stanza, dove dormivo io. Il Presepe mi fece quindi compagnia nelle notti che fin da bambino erano accompagnate da assidue letture, ogni anno dall’8 dicembre (Festa dell’Immacolata) al 6 gennaio. E forse alimentò la mia vocazione a ricostruire la storia immaginando gli scenari degli eventi e rivedendoli nella mia mente come in un film.

Nella nuova casa del Rione San Brunello mia madre continuò la tradizione del Presepe, con la soddisfazione di aver trovato in mio fratello Sandro dapprima un appassionato allievo, poi il collaboratore e dopo la sua partenza dalla vita terrena il continuatore. sino a farlo diventare un vero e proprio esperto. E quando i suoi problemi di salute si aggravarono si accrebbe la ricerca di soluzioni meccaniche avanzate e di “pastori” sempre più connessi alla tradizione storica. Ne parlava sempre con entusiasmo assieme all’altra passione del modellismo navale. Passione di cui, soprattutto negli ultimi anni, divenni il committente esclusivo. Tentai più volte di convincerlo a ufficializzare e promuovere i suoi Presepi. Ma era di facile vincere la sua tradizionale riservatezza. Non amava stare in prima fila. Quando se n’è andato il 14 giugno del 2018 ho evidenziato che per decenni è stato il mio più assiduo e concreto collaboratore in Eventi sportivi e culturali. Ma quando si arrivava davanti al pubblico aveva sempre preferito stare seduto in fondo alla sala o comunque non in prima fila. Salvo poi, alla fine di ogni Evento, mentre tanti collaboratori si dileguavano, ad essere il primo a raggiungere il tavolo della presidenza o il palco per la parte meno visibile: quella dello sgombero e del ritiro di tutto ciò che era servito per l’Evento. Si comprende così perché Sandro non volle mai saperne di accettare una proiezione esterna del suo Presepe. Preferiva che la visione di esso fosse riservata ai familiari e alla ristretta cerchia degli amici più vicini. Due di essi, i due più cari per una vita – Luigi Calabrò e Luciano Costarella – riuscirono a organizzare nell’ottobre del 2017 il viaggio che sognava da anni: la visita a Napoli della famosa via degli artisti del Presepe: “San Gregorio Armeno”. Entusiasta per gli acquisti di alcune statue animate che gli mancavano, si concentrò moltissimo sul Presepe del dicembre 2017. Fu il suo canto del cigno. Il Presepe di Sandro è finito con lui. Anche questo è mancato in questo Natale 2020 e Capodanno 2021. Per fortuna nella mia casa ho la compagnia di tre modelli navali che costruì per me: la nave Ammiraglia della flotta del Re Sole Luigi XIV dell’inizio del ‘700; la  “USS Constitution” della fine del ‘700; e una Nave da Guerra Romana. Aveva in corso la costruzione dell’Amerigo Vespucci” e del vascello svedese Vasa. Sono rimasti incompiuti. Tuttavia quei tre modelli, realizzati per soddisfare la mia passione infinita per la Storia globale, mi fanno compagnia e mi fanno sentire meno solo. Mentre lui, Sandro, non ha smesso mai un momento di essere con me, col suo spirito, con i suoi consigli, con la sua vena di ironia. Anche in questi giorni che, tutto sommato, hanno avuto il merito di dare vita a questo Amarcord. (amp)

[courtesy www.profpasqualeamato.it]