di GREGORIO CORIGLIANO – In quello che, in tanti ormai – vedo – chiamiamo il luogo dell’anima, vado spesso. Assai spesso, rispetto a coloro i quali non vanno mai e avrebbero l’ardire di considerarlo un luogo privilegiato, pur senza averne titolo. E non è tanto il poter o dover fare qualcosa di concreto, quanto il sentire di dover andare.
Assai spesso il luogo dell’anima non coincide col luogo di vita o di residenza. Anzi! È tale, quel luogo, perché è vicino, ma è lontano, arrivi e scappi, rimani e vai via, lo pensi e fuggi.
E spesso, quando vai e ti fermi ore, uno o più giorni, stai chiuso in casa e leggi, rifletti, navighi, prendi il sole d’estate o ascolti il rumore del mare, la pioggia sui vetri, la goccia che cade dal tetto che deve andare in manutenzione, di inverno. Qualche altra esci, a piedi o in macchina, in bicicletta spesso. Soprattutto tra primavera o estate. D’inverno, mai. In autunno sicuramente.
L’altro giorno ho fatto un giro in bici, ho comprato i giornali che ho depositato nel cestino, sono andato al cimitero «una visita a quanti ci hanno voluto e non ci sono più è sentita ed è d’obbligo», poi ho girovagato, ripercorrendo strade scolpite nella memoria, ma che non facevo da tempo.
Vie normalissime, alcune curate, altre in totale abbandono ma che con la bici più che con la macchina risaltano. Tant’è! E la vicenda dei comuni, soprattutto calabresi, grandi e piccoli, sempre alle prese con i bilanci asfittici, con la mancata dedizione, col menefreghismo non solo degli amministratori, quanto dei residenti. Pulizia ed erbacce a parte, cosa balza subito agli occhi di chi ha elevato a luogo dell’anima quelle strade, quei luoghi quelle casette?
La chiusura ermetica, proprio ermetica delle porte di casa.
Dico ermetica perché ai portoncini c’è attaccato anche un lucchetto con catenella, oltre alla chiusura normale e che da sotto la porta non è stata fatta la pulizia da molto tempo. Segno evidente di una casa chiusa, non in “quel” senso, ma di una casa non frequentata, non abitata, qualcuna addirittura abbandonata.
Case nuove, recenti e case vecchie appartenente a gente che conoscevo e che mi ritorna in mente.
O case, pur abitate, nelle quali non abita più il vecchio proprietario, qualche volta venduta, qualche altra vissuta dai parenti. Lo capisco da tanti segni. Quella di mia nonna, per esempio, non c’è più. Un tuffo al cuore.
Al posto del “pilazzo” c’è una costruzione moderna che ha rivalutato e non di poco, quella dei miei zii. Mi sposto più avanti e vedo la casa di Amedeo, il portone con catena, mezzo sgangherato, la finestrella semi aperta (lui non c’è più, neanche Isa) in compenso nel cortile crescono –ed in quantità – limoni di pregio, res passantis.
Nei paraggi, la casa di una parente, i cui figli vivono a Roma, mi pare. Andando avanti, se non ricordo male, la casa di “Pilò” figli e figlie al Nord, forse.
Vado in piazza, la gente c’è, non come un tempo, ma c’è. Ercolino fa da attrattore di un gruppetto che parla, ride, sghignazza, taglia e cuce, gente ed amici vicini. «Ma tu ricordi a Giuvanni di coculi?
E a Cola u craparu? Vo ma vidi a fotografia i Fallara?… I figghioli!».
Giro l’angolo e vedo le case dei Palla, quasi tutte in abbandono, tranne la prima e l’ultima, i cui proprietari vivono di quella che Vito Teti chiama restanza.
Altri, invece si sono fatti fregare dalla “scappanza” come la chiamo io. Sono scappati ed i figli vanno in vacanza a Tropea, perché più snob. Tutti colti dal fenomeno della scappanza, assai spesso motivata, intendiamoci.
Quello che non capisco, però, è il mancato ritorno, sia pure una volta all’anno o una volta ogni cinque. Mai, mai. Non si è mai più voluto ascoltare il richiamo delle radici, che, evidentemente, non c’erano o si erano seccate.
E la villa del commendatore del paese? Ristrutturata, ma chiusa. Peccato! In Via Lucca, pur stretta, ormai si parcheggia! In Via Torino, a parte mio fratello e Francesco, Carmelina del pesce, chi è rimasto?
Dove c’era la casa dell’ingegnere La Ficara c’è un b&b. E la casa dell’Arciprete Sgambetterra? I sigilli, non c’è neanche la nipote che prima di fare il caffè diceva allo zio: “aspetta che prima mi lavo le mani e poi lu culu” (colare da macchinetta napoletana!) Pino La Ficara è fuggito a Bari, la casa del Pesco (requiem) è deserta, è tornata Elisabetta, non vedente ma auscultante la figlia dell’avvocato Rombolà, non c’è più la storica casa della DC (migliaia di assemblee), il bar del bacio del Cavallo, saracinesche abbassate. Tutti scappati. I genitori perché pensionati per restare accanto ai figli, i figli perché non c’è lavoro, le mogli per seguire i mariti, i figli dei figli perché hanno scelto l’estero. Anche se a stancare è stata soprattutto la tristezza della scappanza, che non è solo o tanto un fatto materiale, quanto il taglio, per me ingiustificabile, delle radici. Che non ha giustificazione alcuna: nessuno ha mai sentito parlare di Pavese, men che meno ha letto “La luna ed i falò”. Ercolino, aspettami.
Io arrivo. Finchè posso.
San Ferdinando mare! (gc)