di PINO APRILE – La questione del Terzo mandato ai presidenti di Regione (la possibilità di candidarsi dopo essere stati già eletti due volte) potrebbe dare l’incrinatura che fa franare il castello-Italia; ed è comunque un fenomeno della stessa natura dell’Autonomia differenziata, della Questione meridionale.
Se il sistema di potere nazionale, ferocemente nord-centrico, non riuscisse a disinnescare questa mina a tempo (ci sono sei mesi per farlo), il processo di frammentazione del Paese avrebbe una accelerazione forse decisiva, irreversibile.
E in tale scenario, diventerebbe più fattibile, probabile, la secessione del Sud (ove non fosse resa impossibile da una disgregazione in pezzi sempre più piccoli e “mangiabili”).
Ovvio che sarebbe meglio avere un Paese più grande e solido, per reggere le sfide enormi della globalizzazione e di oligarchie planetarie che ne sono al tempo stesso madri e figlie. Ma un Paese è tale solo se equo, una casa in cui conviene stare per tutti quelli che ci abitano; se figli e figliastri, Nord e Sud, chi tutto e chi niente, allora meglio soli.
Lo scontro fra le segreterie nazionali dei partiti e i potentati regionali ripropone, a livello molto più alto, quanto una trentina di anni fa si ebbe con quello che fu chiamato “Il partito dei sindaci”. La legge del 1993 rese diretta l’elezione del primo cittadino, prima dominata dai dirigenti di partito. Sorsero, così, e acquisirono dimensione politica che debordò dagli stessi confini locali, figure di sindaci che (pur se proposti dagli stessi partiti) conquistarono consensi e visibilità personali: Massimo Cacciari a Venezia, Enzo Bianco a Catania, Riccardo Illy a Trieste, Antonio Bassolino a Napoli, Leoluca Orlando a Palermo…
Finirono per contare più loro, e non solo nella propria città, che i partiti o le coalizioni di origine, al punto che potevano candidarsi contro quelli e sconfiggerli, in caso di contrasti. E si vide il rischio reale di una rete-alleanza fra quei potentissimi sindaci, per dare indicazioni alle segreterie nazionali e non ricevere; e magari saltarne la mediazione per proporsi ai governi quali interlocutori diretti.
La mina fu disinnescata ostacolando politicamente in loco i sindaci che si allargavano troppo, blandendone altri e lasciandoli poi sospesi, rimuovendone altri ancora (con uso di promozione: chi al parlamento, al governo)… Tangentopoli fece il resto.
Questa volta, la faccenda è persino più seria, perché la dimensione territoriale e politica non è quella cittadina, ma regionale. E i potentati locali sono tali da poter reggere da soli e da ridurre i partiti nazionali a poca cosa: provate a immaginare cosa resterebbe della Lega se il Veneto virasse su una creatura politica di Luca Zaia e la sua rete di potere, costruita nel corso di tre mandati da presidente (la legge che li limita a due fu emessa dopo la sua prima presidenza). Tanto che ha già pronto un suo movimento.
E le cose non andrebbero diversamente in Campania, per il Pd: la rete di potere di Vincenzo De Luca non è del partito, ma sua. E anche lui ha pronto un movimento per concorrere alla rielezione “in proprio”.
Il problema, quindi, ce l’hanno sia la destra che la sinistra. Né va dimenticato che la sciagurata legge elettorale che rende i parlamentari tutti dei “nominati” dalle segreterie nazionali, fu varata di concerto fra i partiti, al di là di quanto viene poi dichiarato o di chi l’abbia materialmente firmata.
Se, dalla Meloni alla Schlein (Salvini si nasconde dietro Giorgia, dovendo fingere di essere dalla parte di Zaia), le dirigenze nazionali dei partiti tengono il punto e non rimuovono il vincolo del terzo mandato, alle prossime elezioni potrebbe esserci il terremoto.
Né il tentativo di “promuovere e rimuovere” Zaia e De Luca può avere serie possibilità di andare a segno: i due non sono dei Nello Musumeci cui basta dare la patacca di ministro all’Acqua salata, per fargli svendere la Sicilia già disastrata dalla sua presidenza. Zaia era ministro all’Agricoltura e lasciò la scena nazionale, per fare il presidente della sua Regione. Lui e De Luca sanno benissimo che il loro potentato locale vale molto di più di un ministero.
La differenza fra essere sindaco e ministro si vedeva e seduceva; con le Regioni, il vantaggio è al contrario. In più, ed è la cosa più importante, il presidente di Regione viene “nominato” dal popolo che lo vota e del cui consenso sa di poter disporre persino contro il suo partito; mentre il ministro è tenuto per le… spalle dal capo del governo e dal gioco di correnti del partito, che capitalizza il consenso territoriale, sottraendolo al singolo ministro. Insomma: non c’è lotta.
In Veneto, la Lega è scesa dal 49,9 per cento al 13 circa; mentre Fratelli d’Italia è salito al 33 e vuole, giustamente, un suo candidato. Se Zaia, scartato, si presentasse con il suo movimento, la più probabile ipotesi sarebbe la sconfitta di una destra scomposta in troppi pezzetti (della Lega non rimarrebbe quasi nulla) e il Veneto potrebbe passare al centrosinistra (se non si frantumasse ancora più della destra). Una perdita di posizione clamorosa per la maggioranza di governo.
In Campania, a ruoli invertiti, se il movimento di De Luca spezzasse ulteriormente il centrosinistra, la presidenza potrebbe tornare alla destra.
Ma gli scenari sono talmente incerti, confusi, mutevoli, che può accadere di tutto. Di sicuro, il potere delle segreterie nazionali dei partiti ne risulterebbe irrimediabilmente indebolito.
Ancora di più, però, lo sarebbe se cedessero alle richieste degli ingombranti esponenti locali candidati presidenti a vita, perché questo ne consoliderebbe il potere e segnerebbe un vero e proprio passaggio del testimone dal centro alla periferia.
Esattamente quello che si cerca di fare con l’Autonomia differenziata.
In tal modo, si rafforzano le identità e gli interessi locali contro quelli nazionali, si alimentano gli egoismi di campanile e si coinvolgono non soltanto le élite, ma le popolazioni al seguito e a servizio di quelle. E basterà poco, poi, per recidere l’ultimo filo.
Non ci si dovrebbe sorprendere se la linea delle fratture riproponesse quelle dei confini fra gli stati preunitari, che vennero messi insieme con la forza e referendum farlocchi che fecero gridare allo scandalo, persino gli osservatori della superpotenza imperiale (all’epoca: la Gran Bretagna) che pianificò e condusse l’unificazione dell’Italia.
Erano sette, con il Lombardo-Veneto occupato dagli austriaci. Il più antico e grande, nei suoi confini, era il Regno delle Due Sicilie, con l’isola che tendeva (e tende) a essere unica, solitaria.
In un’Italia che andasse in pezzi, quello stato (ovviamente non rimettendo le dinastie sui loro troni) potrebbe rinascere, perché stufi di essere trattati da colonia e cittadini di serie B, i meridionali hanno tutto il diritto e l’interesse di dire: «Se non possiamo stare alla pari, allora meglio soli».
Hanno finto di unificare l’Italia; l’hanno disegnata con una colonia interna da cui estrarre risorse, anche umane, per alimentare il benessere di poche regioni. Ma dalle e dalle, arriva il momento in cui si vuole sempre di più da una parte e si capisce sempre di più dall’altra. E la corda si spezza.
Obiezione: eh, ma ‘sto po’-po’ di disastro, solo perché Zaia e De Luca vogliono il terzo mandato? Il fatto è che tutte queste tensioni, gli strappi, vanno nella stessa direzione: la periferia si emancipa dal centro, perché il centro non ha saputo (“voluto”, sarebbe il termine giusto; e più corretto ancora: “potuto”, pur se avesse voluto) unificare davvero il Paese. Era diviso, è stato mantenuto diviso negli stessi confini, e può facilmente tornare diviso, magari per saziare gli appetiti dei caimani di poteri finanziari e politici internazionali che vogliono “un po’ di Italia”: è così bella, a me niente?
Uno strappo dopo l’altro, fra un po’ si strappa. Poi daranno la colpa all’ultimo che tira. (pa)