di SANTO STRATI
8 ottobre – È possibile fare impresa in Calabria, senza clientele e senza assistenzialismo? La risposta, concreta, viene da un imprenditore, Antonino De Masi, originario di Rizziconi, che da anni combatte senza esitazioni e convintamente la sua personale guerra contro la mafia e le consorterie mafiose che infestano il suo territorio, quello di Rosarno-Gioia Tauro e non solo. Davanti alla sua azienda, accanto al porto di Gioia Tauro sempre più intristito da un’attività che sembra ormai destinata a morire, stazionano perennemente i militari della scorta. Soldati in assetto di guerra, gli stessi che presidiano il suo ufficio. De Masi è un uomo sul cui capo la ‘ndrangheta ha emesso una sentenza di morte, tanti anni fa, peggio di una fatwa integralista. Colpire l’uomo per distruggere o almeno fermare le sue idee che rischiano di “turbare” i giovani e i meno giovani, troppo spesso tentati da sapide lusinghe della criminalità organizzata, eppure allo stesso modo certamente in grado di cogliere un messaggio che può colpire al cuore, e quindi, a mente fredda, ragionarci su, riflettere, reagire.
Così, nonostante le minacce, i colpi di kalashnikov contro i suoi capannoni, i continui “suggerimenti” alla cautela, De Masi è sempre al suo posto. Dirige un’azienda sana e continua a sfornare idee e progetti per riscattare il territorio, la Calabria, per offrire occasioni e opportunità di occupazione, di formazione, di specializzazione. Una missione da “eroi” – ma io non sono un eroe si schermisce De Masi – o da visionari di olivettiana memoria: De Masi è l’esempio migliore di imprenditore “illuminato”, di cui tanto ha bisogno questa terra. Non accetta però il termine: «non sono un imprenditore illuminato, sono un uomo che ama il lavoro e ama questa terra. Tutti mi suggeriscono di mollare questa non-vita e andare via. Una scelta che non mi può appartenere». Per lui parlano le sue battaglie contro le ‘ndrine, contro le banche, contro il malaffare. Ha vinto, a prezzo di rinunciare a una vita tranquilla, ma la Calabria ha estremo bisogno di personaggi come De Masi per cercare il suo riscatto. Deve essergli grata, anche se la storia calabrese è ricca di indifferenza e solitudine verso i suoi figli migliori. I calabresi, però, devono conoscere ed essere orgogliosi di questo imprenditore che è diventato un esempio da imitare. Un modello contro il malaffare e l’omertà, ma anche contro la rassegnazione. E contro tutti coloro – politici, affaristi, rapaci imprenditori – che ignorano cosa voglia dire bene comune e impediscono, per proprio tornaconto, benessere e sviluppo.
La conversazione con Antonino De Masi rivela, dunque, una figura di imprenditore che potrebbe davvero tracciare il solco su cui innestare i germogli di una crescita sempre vagheggiata ma non impossibile. Certo, prevalgono, allo stato attuale, l’insofferenza e l’amarezza che vengono dalla constatazione che la Calabria ha più problemi “spirituali” che materiali, provocati da una classe politica inetta e da un territorio sempre più scollato dalla realtà.
«Se si va ad analizzare – dice De Masi a Calabria.Live – l’evoluzione culturale o l’involuzione ci si rende conto che il tessuto calabrese ci è scappato dalle mani. Abbiamo perso l’orgoglio di essere calabresi. Questa cosa io la vedo guardandomi intorno e vedo l’assuefarsi alla normalità: normalmente siamo contenti come siamo. Siamo contenti di vedere la spazzatura in mezzo alla strada, siamo contenti di andare all’ospedale e non avere sanità, siamo contenti di avere le strade sgarrupate. Perché questi decenni passati ci hanno normalizzato, il brutto ormai ci appartiene. Non è un brutto solo oggettivo ma un brutto culturale. Questa cosa io non la sopporto. Non sopporto che una minoranza di calabresi abbiano ridotto questa terra a quello che è: una regione puzzolente, la chiamo io. Una terra bella, magnifica, fatta di persone magnifiche».
De Masi si lascia andare ai ricordi per spiegare il senso della sua “mission”. «Quando con mio papà giravamo per le campagne a vendere macchine agricole, andavamo nelle case della gente quando ancora non c’era l’energia elettrica, c’erano i lumi a illuminare le case nelle campagne. Si andava in quelle case dove c’era povertà, dove c’era disperazione, ma in quelle case appena qualcuno bussava a quelle porte trovava la gente che diceva una parola – in dialetto – “favuriti” – fa-vu-ri-ti -, favorite, venite con noi a dividere quello che abbiamo e quello che non abbiamo. Quindi un concetto di accoglienza spinto ai massimi livelli. Dov’è quella accoglienza? Dov’è quel sorriso? Dov’è quella gioia che i nostri concittadini, i nostri antenati, avevano? Ora c’è un “chi t’indi futti”, in maniera indecente e incredibile. Questa cosa a me non va bene, non va bene perché mi domando cosa posso fare io. Posso continuare a lamentarmi con me stesso di come ci siamo ridotti o chiedermi se ho un ruolo in una società civile. In questi anni io vengo descritto come un eroe, una cosa che mi dà fastidio più di tutti, questa cosa mi disturba molto… Non è creando dei miti, non è creando delle figure eccelse che si risolve il problema, il problema va risolto spiegando a tutti che abbiamo un dovere di essere cittadini. Il concetto dell’io, quello che “io” posso fare».
Già cosa possiamo fare, ognuno col proprio piccolo “io”, per cambiare la situazione, trasformare il territorio che “pensa”? «Io come imprenditore – dice De Masi – cosa posso fare? Posso “normalizzarmi” come mi dicono i miei colleghi “ma chi te la fa fare a vivere in queste condizioni, a vivere una vita non-vita”. “Ti conviene? Con quattro soldi risolvi il problema…”. Adeguarmi? Oppure… oppure girarmi le maniche e combattere. Quindi essere da sprone con quello che dico e quello che faccio, certo essere anche da esempio. Per dire “guardate, con tutto ciò che io vivo in queste condizioni, sono ancora qui”. L’importanza di dire “svegliatevi”, svegliamoci. Noi ci siamo assuefatti a una “normalità”, non lo so se è rassegnazione, ma è una brutta cosa».
De Masi imprenditore ha studiato una soluzione da public company con l’idea di coinvolgere e far partecipare i dipendenti. Un’idea di impresa che è un bene comune sul territorio: in questo modo la criminalità non può colpire un’azienda che appartiene anche al popolo. Un’idea che potrebbe essere vincente, soprattutto se abbinata al percorso di formazione che De Masi intende offrire ai giovani. Uno dei suoi brevetti più interessanti l’ha sviluppato un giovane ingegnere catanzarese (un forno industriale per pizza che non produce fumi tossici), tanti altri progetti industriali allo studio provengono da giovani calabresi. È un modo di guardare ai giovani e offrire opportunità, quelle che mancano in questa terra.
«Ho letto un dato recente: 26mila giovani sono andati via dalla Calabria. Quei 26mila ragazzi che hanno lasciato la Calabria io dico che li abbiamo messi noi cittadini come genitori su quei treni, su quegli aerei e spinti ad andar via. Io credo che attorno a quei ragazzi abbiamo fatto terra bruciata per non consentire loro di restare qui. Oggi questo deserto, queste condizioni di non vivibilità su questa terra non ce li ha dati il Padreterno. Questo intorno a noi non era un deserto né materiale né immateriale, eppure noi abbiamo reso arido questo sistema costringendo quei ragazzi ad andar via. Questa terra noi l’abbiamo ammazzata, ammazzata col nostro silenzio, la nostra apatia, io la chiamo omertà. L’ha ammazzata la nostra non-dignità, abbiamo perso la dignità di essere oggi persone libere».
Pessimismo, amarezza? «No – risponde De Masi – se il mio è un ragionamento pessimistico vuol dire che non ci sono 26mila giovani che sono andati via, vuol dire che le strade che ha trovato venendo qui sono belle… Io non sono uno che si piange addosso, io analizzo il fatto per cercare una soluzione. Il fatto è che 26mila ragazzi sono dovuti andare via. Chi li ha mandati via? Il mio comportamento, il nostro comportamento di calabresi. Se dovessimo fare un elenco degli alibi che noi abbiamo ne troviamo duemila per dire che siamo in queste condizioni. Abbiamo l’alibi che non abbiamo strade, non abbiamo infrastrutture, non abbiamo nulla… Ma l’alibi ci giustifica? Ci dà da mangiare? L’alibi dà lavoro ai nostri figli? La storia del nostro Paese si è fatta partendo dalle macerie di una guerra che ha azzerato tutto e da quelle condizioni qualcuno s’è girato le maniche e ha ricostruito il Paese. Io non posso accettare, quando sento le interviste che vengono fatte ai miei concittadini, che lo Stato ci ha abbandonato, che è ora che lo Stato faccia qualcosa per noi. Sto leggendo un libro su don Sturzo che affermava che “i meridionali devono salvare il Meridione”: i calabresi devono salvare la Calabria, altrimenti non c’è storia. Il mio non è pessimismo, è una chiamata alle armi: giratevi le maniche perché i vostri figli siete voi che li avete mandati via, tutti noi siamo responsabili».
Qual è la formula di De Masi per l’occupazione? «Io sto lanciando due cose che sono apparentemente folli… io parlo di un’equa distribuzione della ricchezza. Mi ha chiamato il sindaco di Polistena, Michelangelo Tripodi che è di Rifondazione per dirmi che è attratto dalle mie proposte. Per parlare di equa distribuzione della ricchezza bisogna essere comunisti? Bisogna essere idealisti nel dire che non si può creare ricchezza puntando allo sfruttamento, alla schiavitù? Due passaggi, due estremi che non possono stare insieme. La ricchezza non può essere figlia di una prevaricazione perché, altrimenti, che ricchezza è? Allora, io parto da un altro tipo di ragionamento, che io posso fare ricchezza puntando a un’equa distribuzione e puntando sulla condivisione di un percorso: E allora io sono un comunista, sono un socialista? Sì, se socialismo significa che non c’è lo schiavo e non c’è il padrone. Io non sono illuminato, sono una persona normale che cerca di analizzare con gli occhi di chi ha studiato un poco di economia che il futuro dell’azienda non passa da quel “film”, da quella storia».
C’è qualche rimedio? «Il nostro Paese ha bisogno di un nuovo rinascimento, un rinascimento di dignità, della dignità dei valori… Tempo addietro un professore di Milano, illustre cattedratico, mi suggerì “lasci tutto, venga al Nord”. Gli ho scritto una lettera “La ringrazio, ma sono testardo. Rimango giù”. Il professore non mi ha dato un consiglio sbagliato, mi ha dato un consiglio razionale “vada a fare impresa altrove”. Se io dovessi puntare ai soldi, al business, alla ricchezza materiale, io qui non dovrei starci un minuto di più. Ma io credo nella legalità, un elemento essenziale, senza la quale non si può costruire un futuro, perché si diventa barbari. Allora il cittadino deve cominciare a dire “io devo rispettare le regole”. Il calabrese non deve fare il civile quando va al Nord e fare la raccolta differenziata, che la faccia qui la raccolta differenziata. Che non dia calci alle porte, alle cose e che rispetti le regole del gioco sapendo che rispetta se stesso».
De Masi è il calabrese che sarebbe piaciuto a Corrado Alvaro: usa la testa, il cervello ma non dimentica di ascoltare il cuore, un cuore che batte, orgogliosamente per una terra che può cambiare. A chi manda provocazioni su presunte mire politiche, immaginandolo – per sminuirne l’impegno personale – prossimo governatore della Calabria, De Masi non esita a rispondere: «Non sono interessato al gioco dei partiti. Ho una sola finalità, che purtroppo la gente ancora non capisce. Io sono uno di quelli, cresciuto illuso che ci siano dei valori per i quali durante la guerra c’è stato chi è andato sulle montagne per preparare la liberazione: io vorrei liberare questo territorio da coloro i quali lo hanno massacrato». (s)