di MIMMO NUNNARI – Torna in libreria Saverio Strati con Noi lazzaroni (Rubbettino editore, pagine 235, euro 16) romanzo pubblicato la prima volta nel 1972, con cui lo scrittore di Sant’Agata del Bianco, scomparso a Scandicci in Toscana, il 6 aprile 2014, raccontò in parallelo l’emigrante, la sua terra d’origine, la Calabria dei baroni, e il Paese dov’era emigrato, la Svizzera, terra ricca e senz’anima.
È lo Strati migliore, indignato, appassionato, che spunta da questo romanzo, con una scrittura potente, a volte dura, ma rivelatrice di condizioni umane, nel microcosmo calabrese, ai più sconosciute: povertà insopportabili, angherie dei padroni, sottomissioni umilianti, rapporti umani e familiari lacerati, vita in case “piene di sospiri e lamenti”, quando l’uomo parte.
Mastro Turi, protagonista del romanzo, racconta: “Ero uomo. Ma che uomo sei se ti manca il lavoro e il mondo si rifiuta di darti una mano?”.
Noi lazzaroni, come tanti altri racconti di Strati, è romanzo sociale. Descrive la vita e la mentalità delle classe meno abbienti e svolge anche un ruolo di denuncia.
La particolarità, di queste narrazioni di Strati, rispetto al filone letterario del “sociale”, che in Italia ha padri come Giovanni Verga – che con il verismo il sociale lo ha anticipato – o Francesco Jovine (Le terre del sacramento), Ignazio Silone (Fontamara) e all’estero Charles Dickens (Oliver Twist) in Inghilterra e Emile Zola in Francia ( “Germinal”) è che generalmente l’autore è esterno al racconto, non si identifica con nessun personaggio, mentre lo scrittore di Sant’Agata è in presa diretta, un tutt’uno tra la storia, il protagonista, il contesto degli emarginati, degli sconfitti, che sognano di migliorarsi e vanno incontro a un destino oscuro. Anche quando scrive del lavoro dei muratori, di regoli, livella, squadra cazzuole, punteruoli, mazzuoli e martelli Strati parla della sua esperienza diretta, della vita che precede quella del futuro romanziere, dell’ex lazzarone che faticava a stare col berretto in mano davanti al padrone.
I lazzaroni erano i sudditi nel paese di mastro Turi: “Siete degli stramaledetti lazzaroni che mi andate contro appena potete… ma state attenti che vi taglio i viveri”.
C’è molto di letteratura meridionale naturalmente in “Noi lazzaroni”, ma c’è quello che Giacomo De Benedetti (maestro di Strati) diceva che era la caratteristica dello scrittore: quell’obiettivo di informare, denunciare, fare emergere situazioni umane nascoste, dimenticate, contrastate per l’avidità dei “padroni”.
Strati è il migliore interprete di questo tipo di letteratura, che gli appartiene, e non è imitabile, anche perché nel frattempo le condizioni sociali sono cambiate.
In un certo senso i suoi romanzi assumono una valore storico rilevante. Il mastro Costanzo della “Teda” risorge in mastro Turi, emigrato in Svizzera, che torna al paese vent’anni dopo e riaccende il filo della memoria, ma senza molto sforzo, perché tutto sembra essere rimasto come prima. Attraversa l’epoca fascista e la seconda guerra mondiale il racconto: “S’invocava il cielo perché la guerra finisse presto”.
I vecchi, gli indomiti, gli idealisti, che si riunivano in casa di Turi, al paese, esclamavano: “Maledetta Italia pidocchiosa! Guerra, quanto ci impieghi a chiudere la partita!”, e sognavano l’arrivo degli Americani. Strati è uno e due in “Noi lazzaroni”. Dà vita al mondo contadino, che conosce per esperienza personale, e racconta il dopo della vita di emigrato (“la valigia è a portata di mano”) in terre che non accolgono, ma vogliono solo le braccia del meridionale, dell’emigrato, considerato un semplice “strumento” per la crescita e lo sviluppo e nient’altro. Quest’edizione di Noi lazzaroni che ritorna per merito dell’editore Rubbettino che, sta, con una grande operazione editoriale e culturale ripubblicando tutto Strati, ha la prefazione di Carmine Abate.
NOI LAZZARONI
di Saverio Strati
Rubbettino Editore, ISBN 9788849870510