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Fake News ai tempi del Covid-19

Covid19 / Come difendersi anche dal contagio delle notizie false

di ALDO MANTINEO – Fare sempre di più spazio a una nuova concezione “ecologica” del “fare” comunicazione, cioè prestare attenzione ai risultati che una corretta informazione contribuirà a produrre nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Analizzando quelli che potrebbero essere i possibili scenari di lunga durata del post emergenza coronavirus (che, sia ben chiaro, andrà ben oltre la contingenza delle decisioni che verranno prese per regolamentare le tanto sollecitate fasi due e tre) Nicola Bruno, giornalista e digital producer, fact checker della prima ora e co-founder di effecinque.org, sito specializzato in formati innovativi di informazione digitale (che ha anche messo a punto il decalogo dell’esploratore di notizie digitali), prova a tracciare una possibile rotta da seguire già in questi momenti così complicati. Non a caso assieme a un gruppo di comunicatori, giornalisti e altri professionisti provenienti dal mondo dell’educazione sta mettendo a punto un programma, rivolto in special modo ai giovani, proprio per diffondere in maniera quanto più capillare possibile – anche con l’ausilio di ambassador sul territorio – questa nuova visione di un’informazione che sempre di più corre anche sui social.

  • Questa pandemia ha gettato definitivamente a gambe per aria un po’ tutto e nemmeno l’informazione ha fatto eccezione…

«Non c’è dubbio. Adesso non siamo più nel mondo in cui un messaggio di informazione partiva da realtà ben identificate come giornali e televisione per raggiungere una platea, indistinta nelle sue individualità ma ben definita, rappresentata da lettori e telespettatori.  Ora siamo tutti attivamente coinvolti nella grande rete dell’informazione, siamo parte di un sistema complesso nel quale la vera materia importante non è più l’informazione in sé stessa, le fonti dalle quali promana. La vera materia importante è l’attenzione, quella che gli americani chiamano engagement, cioè quanto le persone siano attive, quanti like metti, quanti “condividi” fai, con quanti “inoltra” alimenti questo flusso incessante di informazioni. Per non dire poi che oggi si fanno i conti anche con gli algoritmi capaci non solo di creare interfacce diversificate per ciascuno di noi ma anche di alimentare autentiche bolle informative per cui siamo sempre più in relazione con chi la pensa come noi. Con il risultato che tendiamo a essere meno aperti al pensiero “altro”. Ecco, tutte queste attività sono la vera benzina per far funzionare la grande macchina dell’informazione digitale e ciò riguarda sia i social network sia alcune testate più avanzate dal punto di vista tecnologico».

Nicola Bruno

  • Detta così sembrerebbe che l’uomo abbia ben poco spazio…

«E invece no. Anzi, proprio in uno scenario simile  ognuno di noi ha  una responsabilità ben precisa. Non sono per nulla un catastrofista, anzi sono un ottimista sul mondo dell’informazione digitale perché penso che adesso abbiamo molte più opportunità di sapere, molte più opportunità di indagare, molta più facoltà anche di scoprire se qualcosa sia autentico o meno rispetto a prima quando, invece, ci si doveva fermare davanti ai cancelli o ai muri invalicabili dell’informazione ufficiale. È chiaro però che con questa opportunità arrivano anche delle responsabilità che ci obbligano a non guardare più a questi temi come ad una questione personale – “mi informo bene, mi informo male” – ma con la consapevolezza di essere anelli di un’unica catena così che il mio agire avrà delle conseguenze anche sugli altri».

  • È questa la visione ecologica del “nuovo” modo di fare informazione?

«Ci sono alcuni studiosi che hanno fatto un bellissimo paragone tra ciò che si sta verificando nel sistema dell’informazione e la crisi ambientale e climatica determinata da una molteplicità di fattori, legati anche ai nostri singoli comportamenti quotidiani. Oggi la questione climatica è una rete che riguarda tutti i Paesi, riguarda i grandi centri così come le più piccole realtà che si trovano nella provincia sperduta: oggi una catastrofe locale in un piccolissimo paese potrebbe avere delle ripercussioni molto più grandi anche su scala internazionale. Basti guardare proprio a quanto accaduto con il coronavirus: l’iniziale crisi locale in un’area della Cina è diventata in poche settimane un evento globale.  Ecco, lo stesso dobbiamo pensarlo anche a livello di informazione:una piccola notizia falsa che condividiamo tutti pian piano cresce sino a creare un’onda. Poi quell’onda viene letta da un algoritmo e, a sua volta, viene diffusa da altre persone. Rendiamoci bene conto che un semplice “inoltra” che facciamo dà ad un algoritmo degli indizi e ciò avrà come conseguenza che quel contenuto inizierà a girare sempre di più… Ecco perché prima di condividere o “rimbalzare” un contenuto dobbiamo sempre chiederci: dove ci informiamo? E’ sostenibile andare su di un sito che, ad esempio, non ci dice chi c’è dietro, chi lo finanzia? Al tempo stesso dobbiamo anche cambiare un po’ i nostri consumi di informazione e le nostre stesse abitudini di condivisione compulsiva».

Il decalogo di Effecinque

  • Ma chi ci guadagna dalla disinformazione?

«Il sistema della disinformazione è qualcosa che trascende soltanto dall’estemporaneità. Chi ci guadagna da una cattiva informazione ? Certamente non l’utente… L’utente è quello che non ci guadagna proprio nulla. La produzione di disinformazione ha diverse motivazioni: quella più banale è economica, vale sui siti web ma vale anche su YouTube, dove appunto si viene pagati in base al numero di utenti che si riesce ad attirare. Poi c’è un altro livello dove la motivazione non è economica ma legata alla volontà di influenzare e orientare l’opinione pubblica. In questa arena ci sono dentro persone di diverso tipo: c’è il profilo del complottista ma c’è anche chi non crede alle cose per sua propria struttura mentale e quindi produce tanta disinformazione magari perché intimamente convinto che non bisogna mai fidarsi delle fonti ufficiali … Ma dentro questa sfera, però, soffiano sempre di più anche altri personaggi, altri attori come, ad esempio, i politici che lo fanno proprio per influenzare il dibattito. E poi c’è un ulteriore livello, ancora più su grande scala, di cui abbiamo oramai le prove con l’affaire Cambridge Analytica…»

  • Ma come possiamo regolarci se poi quella che viene etichettata come bufala buona solo ad uso di qualche chat, e cioè la “fabbricazione” in laboratorio in Cina del covid-19, viene invece “ripresa” e rilanciata anche dal sistema dell’informazione più strutturata, così come ha fatto nei giorni scorsi la Cnn?

«Non è roba da poco. Il caso specifico non ho ancora avuto modo di approfondirlo ma la prima cosa che mi vien da pensare è che non abbiamo più nemmeno le fonti mainstream – come appunto possiamo considerare la stessa CNN – delle quali poterci fidare. Questo però è un meccanismo che, purtroppo, negli ultimi anni abbiamo visto proporre sempre di più. È sufficiente che un politico dica qualsiasi cosa e i giornali, senza più nemmeno porsi il tema se quella dichiarazione sia attendibile o meno,  la riportino…. Oggi sui giornali, nei tg, si parla a volte di cose che non esistono ma se ne parla semplicemente perché c’è un esponente politico che sta soffiando su quel tema lì… ».

  • Non è comunque ipotizzabile nemmeno che tutti ci trasformiamo in fact checkers…

«Questo no, ma ciò non ci esime dal farci carico di  riflettere su come noi singoli utenti possiamo essere strumentalizzati con queste nuove forme di disinformazione. Ricordiamoci sempre che non siamo più in un mondo dove c’è chi manda la notizia e chi la riceve, viviamo in un mondo circolare dove c’è qualcuno che produce la notizia, qualcun altro che la riceve e un altro ancora che la diffonde sui propri canali personali… Ecco perché il nostro ruolo lo dobbiamo svolgere con responsabilità per evitare di diventare microfoni e amplificatori di chi vuol fare disinformazione utilizzando le nostre reti personali. È chiaro che un messaggio che inoltro io a una cerchia di miei conoscenti ha per loro un carico di fiducia considerevolmente più alto di altri analoghi contenuti. Ecco perché quando ci troviamo a diffondere notizie che fanno leva sulle nostre emozioni, sulle nostre paure, pensiamo sempre che potremmo fare disinformazione, facendo un torto a chi ci sta vicino e si fida di noi ma anche di essere strumento di campagne orchestrate in grande stile».

  • E comunque qualche strumento per difenderci e riconoscere le fake news lo abbiamo…

«Intanto impariamo a non condividere informazioni che non siano state adeguatamente verificate. E poi ci sono un paio di semplici accorgimenti.Ad esempio, quando ci imbattiamo sul web in titoloni tutti maiuscoli e con i puntini di sospensione molto spesso si tratta di click baiting. È come un amo al quale ci vogliono fare abboccare perché quando clicchiamo e andiamo su quella pagina quel sito con la pubblicità fa qualche centesimo in più… Occorre fare molta attenzione perché c’è sì chi, semplicemente, ci guadagna ma anche chi utilizza questi sistemi per attività più pericolose. Altri piccoli accorgimenti: su whatsapp c’è la spunta che ci avvisa se un messaggio sia stato inoltrato o meno e se la spunta è doppia vuol dire che si tratta di un contenuto del quale non si conosce la fonte originaria. O ancora sui social network, quando siamo ad esempio sulla pagina di un personaggio, assicuriamoci che ci sia l’ormai famosa “spunta blu” che in qualche misura garantisce che ci si trovi effettivamente sulla pagina di quel tale personaggio e non su una falsa pagina personale… Altra cosa, quando si va su un sito web, ad esempio di una testata giornalistica, verifichiamo sempre l’autenticità del dominio nella barra dell’indirizzo leggendo per bene quel che c’è scritto: non fidiamoci, insomma, della riproduzione, anche fedele, della grafica ufficiale di quella testata». (am)

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