di MIMMO NUNNARI – Una questione rimasta nell’ombra nell’Italia repubblicana riguarda il rapporto tra Pci – a lungo maggior partito d’opposizione – e il Mezzogiorno. Questione non da poco, in considerazione che il movimento comunista ha storicamente rappresentato classe operaia e ceti deboli e il Meridione non c’è dubbio che, in quanto parte di territorio italiano penalizzato dalle disuguaglianze e dalle trascuratezze dei Governi di prima e di dopo la liberazione dal fascismo, sarebbe dovuto rientrare nel perimetro di lotta del Pci. Ma il meridionalismo, è stato un tema presente, in maniera costante e concreta nell’agenda comunista?
La storia di questo rapporto Pci Mezzogiorno – è controversa. Più di cinquant’anni fa Sidney Tarrow, allora professore di Scienze Politiche alla Cornell University e noto studioso di fenomeni dei movimenti sociali, affrontò la questione nel libro: “Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno (Einaudi, 1972) spiegando come, il partito divenuto dopo le elezioni del 1948 il maggiore partito di opposizione, avesse in pratica voltato le spalle al Mezzogiorno.
«Il problema di fondo del Pci, nel Mezzogiorno – secondo Sidney Tarrow – non era solo l’estrema difficoltà delle condizioni oggettive, ma la mancanza di una convergenza tra i presupposti empirici della sua strategia generale e tali condizioni oggettive. Qualsiasi azione intraprendesse il Pci, si veniva a scontrare con un dilemma: se fossero state previste due strategie fondamentalmente diverse, per il Nord e per il Sud, il partito avrebbe messo a repentaglio la sua stessa integrità in quanto partito leninista; e d’altro canto, se la strategia prevista per la Valle Padana e per le città industriali del Nord, fosse stata applicata meccanicamente al Sud, ne sarebbero conseguite certe sconfitte politiche. I dirigenti del partito furono restii ad operare una scelta, anche se sembrarono essere stati continuamente consci del loro dilemma».
Nel cuore della via italiana al socialismo è insita, concludeva Tarrow, “una contraddizione di fondo”. L’aver in sostanza tenuto separate le aree del non sviluppo dalle aree dello sviluppo, ha finito, perciò, stando al ragionamento dello studioso americano, col coinvolgere anche il Pci. Mezzo secolo dopo, sul rapporto tra Pci e Mezzogiorno, arriva un’altra analisi, approfondita e ampia, meritevole di attenzione, considerato il periodo di osservazione, che parte dalla nascita dello stesso movimento comunista, negli anni Venti, per arrivare al dopoguerra. Lo studio riprende le relazioni del convegno nazionale dell’Icsaic (Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea) Il Pci dalle origini al partito nuovo in Calabria e nel Mezzogiorno 1921 – 1953 svoltosi all’Università della Calabria nel novembre 2021.
Nel volume dal titolo Il Pci, la Calabria e il Mezzogiorno (1921 – 1953), a cura di Lorenzo Coscarella e Paolo Palma, edito da Pellegrini (pagine 519, euro 25) la traccia seguita riguarda il “partito meridionalista e le sue contraddizioni”, quasi a spiegare perché, il più forte partito europeo dei lavoratori, abbia avuto una posizione mai chiara e decisa, nei confronti del Meridione. L’ambiguità è già in origine. Come spiegano Coscarella e Palma, nella presentazione del volume, il Pci, nato a Livorno nel 1921, fu una forza spiccatamente meridionalista solo da quando Gramsci ebbe il sopravvento su Bordiga, il segretario generale, nel 1924. Nella concezione bordighiana, non c’era infatti posto per una “questione meridionale”, come questione avulsa dall’unica – da Nord a Sud – “questione capitalistica”.
Fu Gramsci, dunque, a dare importanza alla questione meridionale, prima mai citata, nei programmi del partito a guida bordighiana. Naturalmente il meridionalismo del Pci rimase, per ovvi motivi, stante il lungo periodo di dittatura fascista, soltanto una componente culturale e ideologica e poi quando dopo la caduta del regime e l’avvento della Repubblica, i partiti cominciarono a disegnare le strategie per la rinascita del Paese, Togliatti, nuovo leader del Pci, prese le distanze dall’impostazione gramsciana. La sua idea di lotta è infatti ecumenica, nel senso che guarda alla “solidarietà nazionale” ante litteram, di tipo sociale, che però comporta l’indebolimento della lotta, teorizzata da Gramsci, del partito della classe operaia a favore dei braccianti e dei contadini poveri. Sono sedici i saggi scritti da intellettuali, studiosi e politici, raccolti nel volume, che analizzato aspetti dell’attività del Pci al Sud in un trentennio e in particolare in Calabria. Alcuni contributi documentano in particolare le difficoltà e le contraddizioni del Pci negli anni del “ribellismo contadino, culminato nell’eccidio di Melissa, nel 1949.
In particolare è Franco Ambrogio a mettere in risalto quella che può essere considerata una “mentalità insurrezionalista” del movimento comunista calabrese, aspramente criticata da Togliatti, soprattutto dopo i fatti di Roccaforte del Greco e Caulonia. Fu in quel periodo, che alcuni leader calabresi, come Gullo e Musolino, al contrario di Togliatti, avrebbero preferito una lotta più incisiva e determinata, del mondo rurale meridionale. La sintesi della vicenda calabrese e meridionale dell’occupazione delle terre potrebbe essere racchiusa nelle parole di Mario Alicata, “amendoliano”, che in quegli anni scrisse che si era sviluppato al Sud uno dei più vasti movimenti di contadini poveri nella vita del Paese, ma non si era riusciti a trarne una spinta e un respiro democratico per un’azione politica più vasta. Il libro, che approfondisce le relazioni presentate a quel convegno all’Unical, rappresenta, oltre a una esplorazione documentata della vita del Pci nell’area del Mezzogiorno, in particolare in Calabria, un contributo importante alla narrazione meridionalistica che nonostante le numerose qualificate e fondamentali cose già scritte ha sempre bisogno di nuovi contributi che diano conto di come le politiche dei partiti, dei Governi, delle istituzioni tutte, abbiano inciso nel bene e nel male sulla società meridionale. (mnu)