di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Per recuperare l’identità morale, sulle basi della sua storia e della più intima tradizione, la Calabria ha bisogno necessariamente di uscire dal limbo della “strafottusissima” rassegnazione. Quello stato immateriale in cui si decompone miseramente ogni forma vita. È necessario, alla resistenza della specie, ch’essa si scolli nell’immediato dalla parte estrema del suo contorno grigio, e ritorni a vivere al centro dei colori. Distante dallo stato, che è luogo, onde stridono, dopo la vita, i morti col debito del peccato originale. È con la fine della condizione incerta e sospesa, che comincia l’assolutezza della determinazione. Diventare una regione credibile e affidabile. Un marchio di garanzia e un bollo di qualità, in grado di misurare la propria forza oltre il Pollino.
La grandezza di un Paese, infatti, non si quota sul suo stesso livello (regionale), ma su uno avanzato (nazionale e internazionale). Le capacità, le forze, le idee hanno bisogno di essere dimostrate. I valori, hanno necessità di essere praticati. E il coraggio di porsi a confronto, va censito. Alla presenza di nuove occasioni, queste non vanno mai ritornate al mittente, esse vanno colte e sfruttate. Rifiutata categoricamente, invece, va l’assistenza. È assistito, infatti, chi ha bisogno di cure, prestazioni, aiuto, soccorso. Un povero, quando non mistifica la sua povertà, non chiede mai l’elemosina. Ecco, la dignità di un popolo è frutto del suo lavoro. Della sua resistenza. Lavorare con dignità è un atto rivoluzionario, che non devono affermare le guerre, o i regimi totalitari, ma lo stato assoluto della democrazia. La Calabria, dunque, è una terra che va difesa, ma non compatita. E o si rialza la testa tutti quanti siamo, tutti insieme, adesso, o in questa terra, cara e amara, giunta è l’ora di chiudere le case, abbandonare le terre, mettere i lucchetti alle porte dei palazzi, ammainare le bandiere, scendere i lenzuoli bianchi dalle pareti dei comuni, imbavagliarle la storia, e partire. Al passo de Il canto dei nuovi migranti. In massa. Lasciandoci alle spalle il Pollino, i due mari, e anche la nostalgia.
Ma cos’è che passa davvero nella testa dei calabresi? Qual è la rotta che segue la nostra ragione? E perché a un certo punto del nostro cammino insieme, chi devia e chi abbandona?
Nonostante montano in noi, più vive e vivaci che mai, le fantasie degli dei, milioni di macchine targate Magna Grecia, lasciano il nostro paese. E chi esce, lo si sa, non torna più. Vi sono sirene ammalianti ovunque oramai, e il canto che stilla dalle loro bocche, è talmente lieto e grato da confondere ogni genere di gratitudine nei confronti delle patrie natali, con la più perfida e irrazionale sconoscenza.
Noi del Sud, ci siamo sempre lodati e imbrodati da soli, come gli infanti, cullandoci a modo nostro sulla classicità delle nostre radici. Che però non abbiamo mai convintamente mantenuto né gratificato.
Se dunque i panni sporchi si lavano in famiglia, io è che con noi (calabresi) che vorrei, non certamente sciacquarmi la coscienza, ma moderare, se possibile, quella collettiva che, o la si prende in carico tutti, o la si manda al macello.
Il giorno della Calabria, che è ogni giorno della sua storia, apre scenari su scorci romantici e straordinari, è vero, ma il danno che diventa beffa, e di cui noi calabresi è necessario ci riconosciamo primi responsabili, è che dagli stessi panorami romantici e straordinari essa si dissocia inesorabilmente. E non è che abdica, ripudia. E piuttosto che riconoscersi nella bellezza che per bontà del Creatore possiede, si dimena nelle annose diavolerie che sempre più l’hanno crocifissa, rilegandola al confino. Che Mentre Pavese, per esempio, in Calabria, al confino, in quel di Brancaleone, ci venne sì punito, ma con la bontà di riflettere su di sé e su di noi e sul resto dell’umano, allestendo pagine poetiche indimenticabili, essa si sconfessa inimicandosi persino la sua stessa storia, e sciupando, tra le altre cose, come fosse un capriccio da bambinetta, ogni bella stagione del suo tempo. Persino la sua maternità sacramentata. Il conto, infatti, in quest’attuale primavera, è proprio ai suoi due principali “patriarchi greci” che lo presenta. E quello che si ritrovano a pagare i Bronzi di Riace, per i cinquant’anni dal loro ritrovamento in mare, è davvero caro e amaro. Altro che festa! Niente versamenti in moneta, ma di sangue. Un massacro, se quantificato sulla base del loro splendore, o anche solo una tantum sulle tariffe del loro storico e artistico valore che, forse, meno male gli avrebbe fatto vedersi ributtare in mare.
Il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, che ospita i due storici guerrieri, manca di personale nella sua gestione. Accogliere i visitatori diventa un’impresa titanica. Tanto da dover sospendere la programmazione prevista per il mese di aprile. L’ouverture alla grande festa. Una questione quasi onirica, e che non saprei se raccontare più come dolore o come vergogna.
La solitudine inflitta alla storia è deplorevole, di più se indotta da una seria mancanza di presa di coscienza e di responsabilità.
Davvero bisognava arrivare fino a qui, a che il calendario segnasse cinquant’anni di scoperta, per essere colti impreparati? Ricordo, con molta onestà di patria, all’intero paese, che i Bronzi di Riace rappresentano una delle più grandi e valorose fortune del nostro patrimonio artistico culturale. Dunque, per una questione di giustizia storica e sociale, sarebbe bene capire a chi è che possa infastidire il dare adeguata riconoscenza alle due statue di bronzo. All’Italia, forse? Ai grandi musei nazionali, sui quali l’attenzione potrebbe venire meno? Alla ‘ndrangheta? A chi? A chi?
Le risposte potrebbero essere svariate, delle più varie, ma tutte, in egual misura, andrebbero a confluire nell’insieme comune. E dunque c’è una verità che emerge su tutte le altre: “dei guerrieri non importa niente a nessuno”. Nè all’appartenenza né all’identità né alla morale. Neppure ai calabresi stessi che, come i minchioni accozzano, e col basto carico di fottuta ignoranza, vanno avanti a testa bassa. E più il nervo frusta, più vanno. “To’, bestie! Bestie siete!”
Per l’ennesima volta, e duole forte il cuore, ci macchiamo di colpe grandi nei confronti della nostra stessa storia. E credetemi, un mazzetto di “soldanella” non sarà mai abbastanza per ricordarci chi siamo stati, chi siamo e chi “forse”, un dì, saremo. (gsc)