IL PROVVEDIMENTO DEL GOVERNO PER IL CREDITO E LA LIQUIDITÀ È UN MOSTRO DI COMMI E RIMANDI DI LEGGE;
Hitachi Rail Italia a Reggio Calabria

La grande beffa del decreto salva-imprese
Vincono i burocrati, i soldi non arriveranno

di SANTO STRATI – Sarebbero bastate una o due paginette al massimo per stabilire le modalità di concessione del credito che serve a ridare liquidità alle aziende. No, il Governo, per mano dei suoi burocrati, è riuscito a partorire un mostro di 44 articoli, quasi ventimila battute (2714 parole, per essere precisi) che di fatto negherà aiuti immediati alle imprese, soprattutto alle più piccole, a quelle dei giovani, a quelle gestite da donne. Le più deboli, quelle che risentono di più della mancanza di incassi e di liquidità.

Neanche il più folle contabile amministrativo avrebbe saputo fare di meglio, a dimostrazione – ove ce ne fosse stato bisogno – che siamo governati da incompetenti che sono lontani mille miglia dal Paese reale. Un Governo che si basa sugli annunci, grandi annunci con cui accendere speranze dei poveri cristi che che da un mese non battono un centesimo nel registratore di cassa e si sono dimenticati persino come si fa una fattura elettronica. Una marea di imprenditori, soprattutto piccoli e medi, che ricevono una bombola di azoto liquido al posto dell’ossigeno.

Se si voleva accelerare il disastro Italia, lo strumento è stato trovato, è un decreto soffoca-imprese (e certo non le salva) che un qualsiasi neodiplomato in ragioneria avrebbe scritto meglio. Con un particolare di non poco conto: soffoca le imprese e avvantaggia le banche, che non solo non rischiano nulla ma sono persino legittimate ad applicare commissioni sull’istruttoria del prestito  però “limitate al recupero dei costi” (punto H dell’art. 1).

C’è solo da augurarsi che la Regione Calabria che per prima in Italia ha accantonato e promesso 150 milioni (di soldi veri) per aiutare le imprese, non si faccia dominare dall’eventuale delirio di onnipotenza dei burocrati di Germaneto e provveda in tempi rapidissimi a rimettere in moto l’economia del territorio.

Già perché i tempi sono la cosa più insopportabile del decreto del Governo: solo a studiarsi il testo pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale i funzionari di banca addetti al credito avranno bisogno di qualche settimana, per poi costruire un’ipotesi di credito per l’azienda morente. Sempre che ne abbia diritto e il titolare non abbia mandato (giustamente) a quel paese il direttore dell’istituto di credito e i suoi zelanti addetti che gli hanno sempre negato qualsiasi aiuto (e nel Mezzogiorno questa è storia di tutti i giorni).

Per capire quanta astrusità e cecità abbia potuto guidare il Governo nell’emanazione del decreto saranno utili un paio di esempi.

In Svizzera – riferisce sul Corriere della Sera Gian Antonio Stella – basta una paginetta all’imprenditore che vuole avere un prestito pari a un decimo del suo fatturato dello scorso anno fino a 500mila euro. Non basta, tenetevi stretti sulla sedia per non cadere: i soldi dopo un paio d’ore sono già sul conto corrente dell’impresa. In Germania sono in po’ più lenti, si prendono una mezza giornata. Da noi se tutto dovesse andar bene serviranno dalle tre alle cinque settimane per istruire la pratica. E le banche hanno già avviato il piagnisteo, per voce del presidente dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana, Antonio Patuelli,  che due terzi del personale è in smart-working, cioè lavora da casa, e quindi bisogna pensare che ci sarà inevitabilmente qualche ritardo aggiuntivo… Ma perché li contano a mano i pochi spicci che – ammesso e non concesso – la banca “graziosamente” (tanto non rischia nulla) avrà in mente di erogare?

Ci vogliamo prendere in giro?

Qui sono in ballo milioni di posti di lavoro, centinaia di migliaia di aziende che non riusciranno a riaprire né tantomeno a ripartire e si pensa di dare i soldi quando farà comodo agli “esecutori bancari” delle complesse norme del decreto? Patuelli, peraltro, ha detto a Milano Finanza che la liquidità non è immediata: «sarà prima necessario ottenere il via libera Ue allo schema. E poi perché, per le coperture sotto il 100%, le procedure non potranno che essere quelle ordinarie. Non si potrà fare diversamente perché non sembrano previste deroghe al testo unico bancario né alle norme di vigilanza per semplificare le pratiche di fido con garanzie».

Con un altro particolare di non poco conto: se l’azienda fallisce, non solo le famiglie dei lavoratori vanno sul lastrico, ma lo Stato non incassa un centesimo di tasse. Ma che bisogna essere laureati alla Bocconi per capire questa semplicissima regola dell’economia reale?

E veniamo all’improbabilità di concessione del credito. Intanto i sei anni di rimborso (pur con la prima rata posticipata fino a 24 mesi) sono ingestibili con una situazione di crisi che non ha alcun riferimento con il passato e di cui nessuno è in grado di prevederne la durata. Ce la fa un’azienda a riprendersi e ripagare il debito in sei anni? Poi le condizioni di ottenibilità sono fatte apposta per stroncare le aziende più deboli, quelle più colpite dalla crisi dei consumi che ormai pesa da almeno due anni.

Per le piccole e medie imprese si fa riferimento al fatturato e ai costi del personale per il finanziamento che «deve essere destinato a sostenere i costi del personale, investimenti o capitale circolante». E si specifica che l’importo del prestito non è superiore al 25% del fatturato 2019 o al doppio dei costi del personale come si deduce dal bilancio (che nessuna azienda ha ancora approntato né approvato). Facciamo un esempio che magari può accendere qualche lampadina a chi ha vergato il decreto: Pasquale ha una piccola azienda familiare con annesso negozio per la produzione di bigiotteria. Da due anni, complice la contrazione dei consumi dei prodotti di non prima necessità, ha fatturato lo scorso anno malappena 10mila euro.

Bene, il Governo lo aiuta garantendo in pieno il suo prestito che la banca gli darà (quando sarà pronta a farlo) di ben 2.500 euro! Con questa cifra il povero Pasquale dovrebbe pagare i contributi previdenziali, le tasse e l’affitto del negozio, dimenticandosi delle perdite subìte in due (?) mesi di chiusura. Ah, e, naturalmente, dal 2022 deve ricordarsi di mettere da parte 35 euro al mese per rimborsare l’aiuto ricevuto. Ma stiamo scherzando?

Altro esempio: l’industriale Lello lo scorso anno ha fatturato – bontà sua – 10 milioni di euro. Se vuole potrà avere un milione e mezzo di euro, garantiti al 90% dallo Stato), per far ripartire (?) la fabbrica, i cui dipendenti sono stati in cassa integrazione (quindi a carico dei poveri contribuenti italiani) per tutto il periodo della forzata chiusura dello stabilimento.

Questo si chiama equità finanziaria che corrisponde al suicidio economico di uno Stato che soffoca la piccola impresa e protegge la grande industria. E quando verranno a mancare le tasse, i contributi, l’iva delle piccole aziende dove troverà i soldi questo Stato? Bella domanda, peccato che né il presidente Conte né il ministro dell’Economia Gualtieri forse si sono posti, vantandosi solamente di aver dato “400 miliardi per le imprese!”. Non sono soldi reali – ricordiamocelo – sono solo garanzie. Lo Stato non caccia una lira per le aziende, questo risulta chiaro.

E, come se non bastasse, c’è un codicillo in questo decreto-monstre che specifica che l’efficacia dei provvedimenti di aiuto alle imprese è ovviamente «subordinata  all’approvazione della Commissione Europea ai sensi dell’articolo 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea».

Ma non finisce mica qui. Torniamo un attimo indietro nella procedura di assegnazione degli aiuti (ma quali aiuti? ribadiamo che sono garanzie sui prestiti che abitualmente le banche negano agli imprenditori che provano a lavorare e creare occupazione). C’è un bel rimpallo tra la Sace (la società a capitale pubblico che si occupa di garantire le aziende che vengono all’estero) e il Ministero, tra chi dovrà valutare, gestire, assegnare le garanzie sui prestiti.

Insomma, l’invito ad abbassare le serrande è più che esplicito. L’unica consolazione (si fa per dire) è che prima che venga convertito in legge ci sono 60 giorni per le opportune modifiche da parte di Camera e Senato. Sperando che qualche parlamentare coscienzioso sia disposto a sacrificare una buona giornata del suo tempo soltanto per leggere i 44 articoli del decreto. Perché in questo caso ci sarebbe solo un solo emendamento da proporre: questo decreto fa schifo e va immediatamente corretto e modificato.

Prevedendo, in una nuova formulazione, provvidenze a fondo perduto per le aziende, le piccole imprese, i lavoratori autonomi, le partite iva, che hanno perduto due mesi di incasso, pur restando inalterati i famosi costi fissi: affitti, utenze, contributi, imposte locali e tasse nazionali. E prevedere soldi veri, immediatamente, nei conti correnti delle aziende.

Il sottosegretario grillino alle Finanze Alessio Villarosa, aveva preparato una bozza di intervento che prevedeva subito 10mila euro alle famiglie e 100mila alle aziende da rimborsare rispettivamente in 10 e 30 anni. Questa sarebbe stata liquidità vera: per riaccendere i consumi delle famiglie e dare ossigeno alle imprese. No, non se ne parla nemmeno. Come se i grillini non fossero al Governo. Non abbiamo mai patteggiato per alcuna parte politica, ma la nostra simpatia a Villarosa non possiamo questa volta fare a meno di esprimerla. Gli suggeriremmo di formare un nuovo gruppo parlamentare, quello dei “sognatori”, ovviamente a lui andrebbe di diritto la presidenza…

Adesso che sono chiare le intenzioni del Governo sull’affondamento-Italia (ma quale ripartenza?) la palla passa alla regione. L’assessore al lavoro Fausto Orsomarso aveva espresso qualche giorno fa a calabria.live il suo ottimismo sulla tempistica della Fincalabra per distribuire liquidità alle imprese, ma doveva aspettare il decreto governativo per presentare un progetto più definito. Il decreto c’è e provocherà disastri, come se non bastassero l’angoscia sanitaria del virus e l’assurda quantità delle sue vittime. Tocca dunque alla Regione far ripartire la Calabria, aiutare gli imprenditori calabresi e dispensarli dalla carta straccia del decreto  8 aprile 2020 n. 23. Ci hanno impiegato due giorni per farlo uscire sulla Gazzetta Ufficiale. Sarebbe bastata una paginetta: nome dell’azienda e codice fiscale, importo richiesto (25mila euro senza la minima applicazione di formalità burocratiche) o importi superiori (da valutare in mezza giornata dalle Camere di commercio) e allora sì, “riparti Italia”.

Forse gli imprenditori calabresi che hanno avuto subito in dono dalla Giunta il provvedimento Riparti Calabria, una volta tanto, saranno i più fortunati tra gli italiani. Fosse vero. (s)

Il testo completo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale