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Un treno sulla Jonica

IL RACCONTO / Antonio Errigo: In treno nel cuore della Calabria

di ANTONIO ERRIGO – «Le stazioni – diceva il mio scrittore preferito, Tiziano Terzani – sono una mia vecchia passione. Potrei passarci giornate intere, seduto in un angolo, a guardare quel che succede. Quale altro posto, meglio di una stazione, riflette lo spirito di un paese, lo stato d’animo della gente, i suoi problemi?»

Qualche giorno fa, per scelta e per necessità, dalla stazione di Reggio Calabria Centrale sono salito a bordo di un vecchio Intercity che mi ha faticosamente portato a Taranto. Uno di quei treni che andrebbero dismessi perché ad un primissimo impatto sembrava proprio fare il paio con termini come disagio e scomodità. Un treno usurato e scrostato dagli anni e dai chilometri macinati.

Per me un viaggio di sette ore, ventidue fermate, qualche finestrino rotto impossibile da tirar su, rumori molesti, i freni striduli sulle rotaie, le tendine svolazzanti e un’atmosfera vintage che mi ha fatto fare un vero salto nel tempo.
Eppure è stato uno di quei viaggi che rimaranno scolpiti nella mia memoria e che, in definitiva, mi sentirei persino di consigliare a chi deve smaltire overdosi di stress.

Salire su quel treno, composto da soli tre miseri vagoni, è stato salutare. È stato un toccasana. E, vedete, non è stato bello solo perché ho potuto ammirare luoghi di inestimabile bellezza naturalistica. Non è stato bello solo perché per la maggior parte del tempo ho accarezzato con lo sguardo la costa ionica ed il mare verde e azzurro della Calabria. Non è stato bello solo perché ad ogni fermata ho potuto aprire cassetti della memoria chiusi da troppo tempo. Non è stato bello perché ho scattato decine di foto meravigliose.

È stato bello perché in quel viaggio ho ritrovato l’Italia più bella, tipo quelle pubblicità emozionanti che di tanto in tanto girano in TV per promuovere le unicità del nostro Paese. Dentro e fuori da quel treno c’era l’analisi cruda dei romanzi veristi, c’erano i racconti di Pasolini, c’era il Novecento raccontato nel cinema di Monicelli, c’era il crollo della medio borghesia e l’esaltazione delle atmosfere normali, c’era la narrativa delle frazioni, dei piccoli comuni, dei borghi e della loro gente.

Nel vagone semivuoto, c’era una giovanissima professoressa di matematica con la spiccata cadenza calabra che addentava un panino con la frittata fatto in casa, c’erano un paio di ragazzi stranieri, c’era il Capotreno con la sua camicia a mezze maniche d’un celeste sbiadito con l’immancabile logo delle Ferrovie dello Stato ricamato sul taschino, la pelle bruciata dal sole torrido tipico di quella fetta di Calabria. E poi c’era Paolo, un ragazzetto in carne di quattordici anni che, una volta sistemato sul treno da nonni amorevoli, si è trovato solo, diretto a Taranto come me.

Paolo è stato la svolta di questo viaggio, perché Paolo la vita la ama e ce lo ha fatto capire subito a tutti…
Paffuto studente dell’alberghiero, sorridente, pantaloncini, canottiera, un piede da adulto ed i primi peli sulle gambe tipici di chi sta affrontando i cambi della pubertà.

Lui voleva parlare, lui voleva interagire e sti gran cazzi dello smartphone che squillava… Paolo domandava, Paolo chiedeva, Paolo era curioso, Paolo voleva confrontarsi.

A dargli spago il Capotreno che, con uno sguardo penetrante da fare invidia a Clint Eastwood nei film Western di Sergio Leone, lo ha scrutato e poi, con un sorriso beffardo, lo ha interrogato. “Dove vai? Perché sei solo? E tua madre che lavoro fa? E perché tuo padre sta a Taranto?”. E Paolo ha risposto punto per punto, aggiungendo sempre qualche commento ficcante, tenendoci a precisare che lui era stato cresciuto dai suoi nonni.

Il controllore, conscio del lungo viaggio, gli si è seduto vicino e ha intavolato con Paolo qualche discorso superficiale che però il ragazzino impreziosiva via-via con delle disquisizioni bel lontane da quelle tipiche dei suoi coetanei. E allora giù via, Paolo si lanciava in frasi tipo: “L’abilità si ottiene, lì dove c’è necessità.” È ancora: “Tu devi fare come i politici: alle persone devi dire ciò che vogliono sentirsi ma in un modo sofisticato”. Oppure: “il reddito di cittadinanza, 700€… senza fare nulla e stanno sul divano e io devo studiare”. Per finire con: “a scuola i professori ti accusano che non sai le cose ma neanche loro se le ricordando. L’Italia è così. Non va bene”.

In pochi minuti la professoressa di matematica, i ragazzi stranieri ed io, eravamo lì, in piedi attorno alla sua poltrona, a pendere dalle labbra di Paolo che ci raccontava che la sua generazione si dovrà “sobbarcare il debito pubblico prodotto da politici incapaci”. Ed il Capotreno a controbattere con argomentazioni serie… e siamo arrivati a Mussolini, Stalin, Hitler, il nazional-socialismo, l’ideologia comunista, la democrazia cristiana… e Paolo teneva testa a tutti. Quattordici anni, giuro. Non esagero. Non ne avrei motivo.

Quel ragazzino mi ha iniettato fiducia nel prossimo, nelle tanto vituperate giovani generazioni. Lui ci ha riportati alla realtà, alla bellezza del parlarsi, di non chiudersi.

Di non infastidirsi quando un altro uomo si siede accanto a noi sul treno.  Paolo ha tratteggiato con un evidenziatore colorato la straordinarietà di non diffidare sempre di chicchessia. Paolo in quel momento era tutta la mia Calabria e quel che di buono idealizzo nella mia mente.

Quando la voce metallica dagli altoparlanti ci ha annunciato l’imminente arrivo a Taranto il Capotreno si è alzato in piedi e con voce imperativa ha chiuso la conversazione con il brillante quattordicenne. “Paolo… mi sei piaciuto… sarei arrivato fino a Milano con te su questo treno. Ma una cosa te la voglio dire: tu non devi pensare a queste cose. Tu devi pensare a mangiare, dormire e divertirti… che poi va a finire che diventi scienziato… ma un giorno ti svegli e non ti piace più la fica”.

In barba al “politicamente corretto” che ogni giorno imbavaglia anche le sane e autentiche battute, ci siamo fatti tutti una grassa risata. Paolo compreso.

Sono sceso dal treno, stanco e felice. Non mi capita spesso. Ogni stazione, ogni fermata, è stata per me una panacea rispetto alle mia corse quotidiane. E mi sono ricordato di un libro meraviglioso: nel 1935 Ernest Hemingway in “Verdi colline dell’Africa” scriveva  che la necessità di compiere qualcosa in un tempo minore di quanto in realtà ne occorrerebbe è una perversione della vita.
Ed in effetti, questo viaggio ha imbullonato i miei piedi a terra e mi ha riportato lentamente alla realtà.
Alle volte, alla velocità della luce serve preferire il piacevole ritmo della lentezza. Perché affrettarsi, in fondo, non è sempre la soluzione.

Eccomi a Taranto. Paolo è sceso. L’ho osservato in tutta la sua fierezza. Quando Paolo è sparito tra la folla nel sottopassaggio, è sparita anche la poesia di quel viaggio.

Si torna alla frenesia. Ma con più gioia nel cuore. La gioia dei miei viaggi. (ae)