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Cavalleria rusticana a CatonaTeatro

CatonaTeatro: L’azzardo (riuscito) della Cavalleria rusticana di Walter Manfrè

Era decisamente un azzardo la chiave drammaturgica che il regista e autore Walter Manfrè, a CatonaTeatro, ha proposto con la sua rilettura (ligia all’originale verghiano) della Cavalleria rusticana: la drammatizzazione, in chiave psicanalitica, di Santuzza a chiusura dell’arcinota “cronaca di una morte annunciata” risulta avvincente e straordinaria. Verga avrebbe sicuramente approvato, pur essendo ancora lontane le esperienze della psicanalisi e impensabili gli studi sugli effetti – incancellabili – di una tragedia che colpisce nel profondo della psiche una donna innamorata eppure consapevolmente colpevole della sua disgrazia.

Il pubblico è stato preavvisato dal regista stesso, prima dello spettacolo, di questo insert finale, in modo da poter capire meglio il senso di questa personalissima integrazione che, obiettivamente, ha dato un vigore essenziale e una carica rinnovata a una novella che Mascagni ha saputo trasformare in un’opera apprezzatissima, pur se di breve durata rispetto al melodramma tradizionale. E la rappresentazione a CatonaTeatro, se ha deluso chi si aspettava un’altra edizione del melodramma di Mascagni e ha trovato una versione teatrale, pur sottolineata da innesti musicali operistici a cura di Matteo Musumeci, ha invece fatto scoprire un pubblico assorto e sorpreso da un’emozione nuova. Un “modesto” fatto di cronaca (sottolineato a chiusura dalla trovata registica di un fuoriscena radiofonico) diventa pretesto per un racconto, nel rispetto totale della prosa verghiana, che attraversa diversi sentimenti: amore, gelosia, morte, coinvolgendo lo spettatore in un’originale messa in scena, che guarda caso, altro non è che quella originaria del grande scrittore siciliano.

Cavalleria rusticana nella messa in scena di Walter Manfrè

Loredana Cannata
Loredana Cannata, una sensualissima Lola

Amore, gelosia, morte, in una gerarchia che rispetta lo status dei suoi personaggi, inquadrati in una Vizzini, simbolo di una Sicilia antica, dove il delitto d’onore è il minimo richiesto per l’affrancamento dalla vergogna e dal disonore agli occhi dei conoscenti e dei vicini. Il dramma si consuma sulle scene, seguendo le pagine di Verga, poi, dopo la frase conclusiva “Hanno ammazzato cumpare Turiddu“, subentra l’analisi introspettiva della psiche dell’istigatrice della violenza, a sua volta vittima due volte della stessa violenza. La gelosia vince sull’amore, la vendetta rivince sull’amore, e il dolore vince su tutto. La protagonista rivive il prologo e l’epilogo da lei stessa provocati, da un letto di manicomio, e il suo inconscio ribalta sullo spettatore il senso di inutilità della violenza a giustificazione della presunta o reale perdita d’onore.
Bravo Walter Manfré, che ha coinvolto Lillo Chilà e la Polis cultura in una produzione con molte incognite e che, invece, ha rivelato non solo il talento suo e del cast artistico, ma ha saputo coinvolgere maestranze locali e soprattutto i giovani dell’Accademia di Belle Arti di Reggio coordinati dal prof. Perrella che hanno curato le decorazioni delle maestose scene di Antonio Cereto (realizzate da M.G. Company).

Brava Loredana Cannata, sensualissima e focosa Lola, bravi gli altri protagonisti Arianna Di Stefano (Santuzza), Barbara Gallo (la madre di Turiddu), Orazio Alba (Alfio) e Livio Remuzzi (Turiddu). Solo un’osservazione: siamo in un paesino siciliano tra campagnoli e bottegai: la parlata forbita, perfetta (che manco nelle commedie scespiriane) a nostro avviso stona nel contesto. Forse andrebbe appena accentuata la sicilianità dell’opera, ma potrebbe essere anche questa una scelta della regia (sempre dello stesso Manfrè). Un peccatuccio perdonabile, considerando il risultato nel suo complesso. Che, peraltro, ha dimostrato che si possono (si devono) realizzare produzioni locali, con risorse intellettuali, culturali e tecniche locali. È la grande magia che da 34 anni riesce a produrre Lillo Chilà, instacabile e indomito patron di CatonaTeatro, a cui la Calabria non finirà mai di continuare a dire grazie. (mcg)