Sabato 3 settembre, alle 21.30, al Parco Archeologico dei Tauriani di Palmi, in scena lo spettacolo Antigone di Sofocle.
Lo spettacolo è il terzo appuntamento con le tragedie organizzato dal Centro Teatrale Meridionale per la direzione artistica di Domenico Pantano, promosso e finanziato dalla Città Metropolitana di Reggio Calabria, nell’ambito del cartellone dedicato alle celebrazioni del cinquantenario del ritrovamento dei Bronzi di Riace.
Lo spettacolo è prodotto dall’Associazione culturale Semivolanti e Dokana Teatro, per la traduzione, adattamento e regia di Giovanni Greco, e interpretato dagli attori: Nika Perrone (Antigone), Gianluca Riggi (Tiresia, Messaggero, Coro), lo stesso Giovanni Greco (Creonte), Riccardo Cananiello (Emone, Guardia e Coro), Maria Cristina Zerbino (Ismene, Euridice e Coro). Musiche e Coro di Daniela Troilo.
Simbolo di lotta e determinazione, Antigone è una giovane donna vittima e allo stesso tempo eroina, l’unica capace di sfidare il tiranno Creonte e le leggi della polis pur di dare sepoltura al suo amato fratello Polinice. Nel corso dei secoli, e in particolare nel Novecento, la sua figura è divenuta sinonimo di resistenza e rivendicazione.
Nella trasposizione a firma di Giovanni Greco, l’idea di fondo di tutto il lavoro è stata quella di intendere Antigone come tragedia dell’identità e non come conflitto irriducibile tra leggi scritte e non scritte, tra ragione di stato e vincolo di sangue, tra destino ineluttabile e libero arbitrio dell’eroe.
Antigone come tragedia del fratricidio, del suicidio o dei suicidi (di Antigone stessa, di Emone, figlio di Creonte, promesso sposo di Antigone, di Euridice, sua madre), degli omicidi mancati o realizzati che seguono all’incesto originario di Edipo e Giocasta, ci parla ancora oggi di identità incompiute o doppie, di figli-fratelli, di madri-nonne, di padri-fratelli, di qualcuno che non può essere solo se stesso perché condannato a essere sempre almeno duplice, se non molteplice nel rapporto con il mondo.
La rivolta di Antigone al decreto di Creonte che vuole impedirle di seppellire Polinice, il fratello “traditore”, non è rivolta femminista, non è disobbedienza civile, non è il trionfo dell’anarchia contro l’oppressione e la tirannide. O almeno non è solo questo.
Il vero conflitto, profondo, è quello che la stirpe di Edipo vive con la propria eccezionalità, la propria inadeguatezza di fronte alla normalità. Con la propria condanna a essere un conflitto in sé e per sé, divisi e incompiuti in sé prima che conflittuali con la realtà e con gli altri.
Così la messa in scena parte dalla fine, dalla catastrofe, dalla celebrazione paradossale, più volte annunciata, del matrimonio di Antigone con la Morte, dal ricongiungimento della famiglia di Edipo in un oscuro Aldilà e dalla riconsiderazione a posteriori di tutta la vicenda inscenata e in buona parte inventata da Sofocle, come il compimento inevitabile di una ricerca che ritrova il suo senso solo nella foga dell’annientamento. La sepoltura di Polinice fa di Antigone una madre e una sposa morta e/o mancata, ma una sposa e una madre.
Il mondo che sopravvive, quello di Creonte (e di Ismene), è il mondo di una truce normalità riconquistata, di una cupa pace che si fa sul capro espiatorio, il mondo del potere che si nutre del sangue dei giovani, delle donne, dei deboli, talora suo malgrado. Il nostro mondo. (rrc)