di SANTO STRATI – Prende il via oggi la diciannovesima legislatura, si aprono Camera e Senato col primo, fondamentale, adempimento, quello di eleggere i presidenti dei due rami del Parlamento. Si tratta delle più rilevanti cariche dello Stato, dopo il Presidente della Repubblica, e ci si aspettava che il centro-destra, vincente nella coalizione che si è presentata alle urne il 25 settembre, avesse già da tempo individuato le figure (di prestigio) cui far convergere i voti delle due assemblee. A tarda sera, secondo voci abitualmente bene informate, c’era ancora maretta e nessuna intesa sui nomi e già questo la dice lunga sul tipo di governo che gli italiani dovranno aspettarsi.
Giorgia Meloni ha vinto le elezioni e con la vagonata di voti popolari presi è legittimata a ricevere l’incarico di formare il nuovo esecutivo. Il problema non è la Meloni, ma sono gli alleati, rissosi e amareggiati (soprattutto Salvini) che non sembrano disposti a fare sconti ai Fratelli di Giorgia nella spartizione delle caselle del potere. Mentre Berlusconi si mostra tutto sommato aperto e disponibile per sostenere senza preclusioni di sorta un esecutivo guidato dalla Meloni, Salvini, in queste ore, si sta giocando la sua stessa sopravvivenza alla guida della Lega. Il suo braccio di ferro (già svantaggiato) con la Meloni riguarda la messa in discussione della sua leadership tra i padani e i nuovi elettori del Sud. I primi guardano con molto scetticismo alle aperture e ai sorrisi elargiti da Salvini al Mezzogiorno e agli “incauti” elettori meridionali che si sono lasciati incantare; gli altri, dal Sud, cominciano a subodorare che le lusinghe meridionaliste del segretario della Lega in realtà nascondevano un grande inganno. La parola magica si chiama autonomia differenziata, ovvero il federalismo fiscale basato sulla spesa storia delle regioni: chi più ha speso più prende, i “poveracci” del Sud poveri erano e poveri resteranno, con una feroce discriminazione negli investimenti e nella perequazione dei diritti dei bambini e delle donne, dei giovani e dei lavoratori che subiranno ancora di più i perversi risultati del divario nord-sud, destinato ad diventare sempre più ampio.
Il fatto è che il futuro governo a presumibile guida Meloni (il presidente Mattarella non può ignorare l’evidente indicazione popolare) pare entrato in crisi prim’ancora di aver ricevuto l’incarico. La Meloni si è resa immediatamente conto in che guaio s’è cacciata (vista la drammatica condizione economica e sociale del Paese) ma ha fatto prevalere la voglia di rivalsa, l’ambizione di essere incoronata prima donna premier in Italia, sulla considerazione che se ha avuto problemi Draghi a contenere il disagio sociale, non sarà una passeggiata per il futuro governo mettere mano contemporaneamente al caro bollette, alla guerra, all’inflazione, al lavoro che non c’è e a un debito pubblico ormai senza più freni. La prima verifica riguarda la composizione del nuovo governo: prevarrà il criterio delle competenza, della capacità e dell’esperienza o, disgraziatamente, prevarranno – come al solito – le ragioni dell’opportunismo politico, per “pagare” le solite “cambialette” della campagna elettorale? Se la Meloni vuole governare adeguatamente non faccia l’errore di assegnare ministeri secondo il criterio di appartenenza, ma si imponga subito con scelte che potranno dare spessore all’esecutivo. La formula magica esiste ed è un composto di rigore morale misto a competenza e capacità: gli italiani non ci credono, ma ci sperano.
Certamente sarà un esecutivo da togliere il sonno al futuro premier: se ci fossero risorse finanziarie a sufficienza, beh, i problemi si potrebbero anche affrontare, ma la prima domanda che dovrà farsi il futuro presidente incaricato sarà: “dove troviamo il denaro necessario?”.
Per questo un’elezione (concordata) a primo colpo per i due presidenti di Camera e Senato sarebbe stato un buon segnale per il Paese, per rassicurare gli animi su un’intesa (di centro-destra) che potrebbe (e dovrebbe) garantire stabilità, soprattutto per superare la crisi. Invece, come già detto, ieri sera si parlava di un’auspicabile elezione entro la giornata di oggi del Presidente del Senato (La Russa?) mentre per la Camera ci sarà un po’ di maretta prima di trovare un accordo. Non è una buona partenza, pur con un’opposizione rassegnata già prima delle elezioni a contare sempre meno e obbligata a raccogliere i cocci di una fallimentare strategia di consenso.
Ricordiamoci che l’ex premier Conte ha vinto (perdendo per strada buona metà dei voti conquistati nel 2018) solamente facendo un uso spregiudicato del populismo più vieto: messa da parte la pochette da taschino e levata la giacca s’è improvvisato (con successo, bisogna dire) novello Masaniello tutto teso e proteso a difendere il reddito di Cittadinanza. “O votate noi o perdete la prebenda di fine mese”: più o meno questo è stato il leit-motiv della campagna di un Movimento 5 Stelle che tutti davano pronto a scomparire. È stato abile Conte, ma il suo gioco – opposizione intransigente, promette – alla lunga si scontrerà non solo col malcontento popolare ma anche su i tanti ex parlamentari grillini “abbandonati” e illusi.
Chi avrebbe scommesso che i grillini avrebbero preso quattro seggi in Calabria, facendo diventare la regione un formidabile e incredibile serbatoio di voti? Eppure è così.
E allora questa nuova legislatura (XIX) avrà il suo daffare per rasserenare i tumultuosi affanni degli italiani e muoversi tra troppe contraddizioni che rischiano di separare in modo netto il Nord e il Sud. Il riferimento, è evidente, è il provvedimento più volte tentato dalle tre regioni del Nord (Emilia, Lombardia e Veneto) ma regolarmente (per fortuna!) stoppato in Parlamento: questa volta, però, l’autonomia differenziata la vogliono sul serio e Salvini – aizzato da un ritrovato (ripescato?) Umberto Bossi si trova a giocarsi il consenso delle ricche regioni settentrionali, di quelli che votavano la Lega Nord e rivogliono tale parola sul simbolo al posto del nome di Salvini. Ma si giocherà la credibilità del Sud e tutto il Parlamento dovrà fare salti mortali per impedire il varo di una legge-infame che interpreta a uso e consumo del Nord il titolo V della Costituzione.
Del resto la truppa dei parlamentari calabresi di 19 tra deputati e senatori, in realtà è composta da 17 “nativi” (il magistrato Scarpinato è stato paracadutato da Palermo e la Roccella da Bologna), ma è rimpolpata da tre deputati di origine calabrese eletti in altri seggi: Antonino Iaria dei 5 Stelle, architetto eletto in Piemonte, Giusy Versace, ex deputata di Forza Italia, orgogliosamente reggina, eletta in Lombardia, e lady B (Marta Fascina) attuale compagna di Berlusconi, originaria di Melito Porto Salvo, deputata uscente, rieletta a Marsala. In più ci sono Nicola Carè (eletto all’estero) che è di Guardavalle (CZ), e, al Senato l’ex presidente del Senato (che ha sangue calabrese per parte di padre), Mario Borghese (deputato uscente del Maie) e, soprattutto, il prof. Marco Lombardo (di Martone, RC), eletto al Senato con Azione, in Lombardia. Un drappello che, pur avendo la Calabria nel cuore (?) non avrà la forza di fare molto. Ma non è detto…
A seconda di come sarà composto il futuro Governo di Giorgia Meloni, ci sono due caselle di sottogoverno che fanno gola ai calabresi: alla Sanità punta Giuseppe Mangialavori (senatore uscente e aspirante viceministro), ma soprattutto medico senologo che ne capisce di scienza, mentre il posto lasciato vacante da Dalila Nesci (non rieletta) di sottosegretario per il Sud e la coesione territoriale sembra fatto su misura per la vulcanica Wanda Ferro. Sarebbe una bella rivincita per i calabresi. E a suggello servirebbe alle infrastrutture un visionario che pensi a realizzare il Ponte… (s)