di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se come Cristo la Calabria ha avuto anche un solo apostolo, a parte la corona di spine che tutt’ora ha posata sopra il capo, allora vuol dire che è Maestra. Che lo è stata, lo è e lo sarà per sempre.
Forse ogni terra insegna ai propri uomini, almeno le basi strategiche della sopravvivenza in mezzo ai luoghi che la contemplano, siano essi impervi o anche semplicemente piani, ma in essa, come avesse uno statuto speciale, nella sua pubblica audacia, quale terra del Sud e Sud della terra, se ne riconosce, a vista, la matrice. La sua storia è una grande storia, ed è nei fatti che tramanda, incluse le gesta dei suoi uomini, che la Calabria si è sempre fortificata, e quotidianamente ancora si rafforza. Non si è piegata quando ha amaramente pianto, partecipando a lutti che spesso ha anche officiato; quando, obbligata, ha versato tutto il sangue che aveva, né quando priva delle sue cose più care, ha sofferto come una bestia solinga. E non si spezza a tutt’oggi, afflitta dalle evoluzioni indotte, per le quali viene ancora una volta crocifissa finanche nella modernità, appesa come giacca vecchia alle zappe abbandonate ai piedi degli ulivi, mandata al confino sullo Ionio. È la sua matrice umana che la salva, che le rimpolpa l’anima, rendendola potente e ostinata. Donna e terra madre, Madre Patria.
I maestri, si sa, insegnano, tal volte abili come sono, creano modelli. Invertono rotte, e correggono possibili deviazioni. Non salvano l’umanità, ma molti uomini sì. E allora alla Calabria tocca salvare sé stessa e dalla fragilità dei suoi uomini e delle sue donne.
Nella storia di cui è protagonista da millenni, sono custodite le indicazioni preziose per raggiungere la sua salvezza. Ma serve saperle cercare, trovarle, metterle in pratica, garantendole un proseguo degno della sua grande bellezza. Eppure la società civile appare tragicamente rassegnata, forse anche e soprattutto terribilmente assuefatta; quella politica invece, falsifica gli intenti e millantando le proprie prodezze. E nessuno si accorge più di quanto stanca sia la città del sole!
In cammino per la Calabria e verso la Calabria, non ci si mette mai per caso, per ragioni di vana gloria, o semplicemente per trovarvi in essa allettanti occasioni. Si rischierebbe di perdere quelle che indubbiamente si sarebbero potute trovare altrove. E sprecare energie in ciò che non si crede è davvero un peccato, preclude opportunità sincere, e favorisce ulteriori fallimenti.
Essere in cammino per la Calabria e verso la Calabria, con precise date di scadenza (3/4 ottobre 2021, elezioni regionali), non è che un ennesimo colpo di coda a questa terra, in cui in molti camminiamo ogni giorno della nostra vita. Con sacrificio, lealtà, ostinazione e senso altissimo dell’onore.
Quello verso la Calabria, lungi dalle villeggiature estive, è un viaggio decisamente forte che chi sceglie di fare è necessario adoperi coraggio e coscienza.
La Calabria non è una cittadella di bella veduta e neppure una cattedrale nel deserto africano. Essa, e Iddio la benedica, è una terra preziosa e robusta, con le sue casettine e i tetti aguzzi. Un forno per il pane. E ha un’anima, non solo giorni di cronaca.
Molti si sono avvicendati, nel tempo, in questo pellegrinaggio, che nella sua epocale definizione, ha sempre condotto alla ricerca di miti e di leggende, con stesure di racconti carichi di anni e di generazioni. Tanti sono arrivati forestieri e sono andati via amici, lasciando incisi, nelle giunture sacre di questa terra, i loro nomi, i passi che ne ricordano il passaggio. E non sono stati solo dominatori privi della mite pietas, ma valorosi viaggiatori che nel volto della gente incontrata hanno scoperto e ritrovato il senso dei luoghi, quelli che, nonostante la perduta gente, hanno conservato immutati il sogno e il tempo della Magna Grecia. Da qui, diceva Saverio Strati, prima o poi qualcosa di buono dovrà pure uscire, e aveva ragione. Ma è necessaria la redenzione della razza, e senza altro tempo da perdere. O la politica che se ne occupa, si sincera totalmente al suo popolo, o il futuro della terra di Calabria, sarà sempre e solo di spolpo e di spopolo. E il pianto non racconterà d’altro se non di un pentimento illusorio, mai sentimentale.
Cari calabresi che il prossimo 3 e 4 ottobre, vi recherete alle urne, perché lo farete, e lo farete per onorare la vostra terra e dare un senso alla vostra vita, se proprio a lezione da Corrado Alvaro vi rifiutate di venire, perché ritenete nullo e inutile, quanto mai superfluo il suo pensiero, e alla scuola di Saverio Strati non siete disposti a frequentare corsi di identità e appartenenza, se vi va, come ultima e nuova occasione, vorrei condurvi con me a lezione dai forestieri. Non dagli sciamani certo, ma da quei militanti calabri che hanno riconosciuto in questa nostra terra natia, la Patria terra.
Perché è accaduto davvero, altri l’hanno amata e l’ameranno più di noi stessi, la Calabria. Mentre noi ce ne stavamo a chiacchierarle le figlie e poi anche le madri, e via via le terre, altri sono rimasti ad ascoltarla parlare. Il calabrese va parlato, ricordava con insistenza Corrado Alvaro, ma forse, e lo ricordo io a noi tutti, oggi i calabresi dovrebbero cominciare a parlarsi tra di loro. Nelle piazze, nelle vie, sui posti di lavoro, in mezzo ai banchi della frutta, e anche in quelli delle chiese. Dirsi le cose come stanno, quelle che vanno e quelle che no, proporsi le soluzioni, presentarsi i nuovi modelli e le idee.
A parlarci vennero in tanti, ma non con tutti ci scoprimmo in grado di ascoltare, anche se alcune voci sembravano essere mandate da Dio. Come gli apostoli di Cristo infatti, furono mandati in missione per il mondo, altri vennero in missione in Calabria.
Umberto Zanotti Bianco fu l’apostolo laico del Sud!
Si potrebbe pensare di dedicargli le prossime regionali, qualora i candidati avessero dentro il proprio animo, il senso della Calabria quale non luogo ma stato d’animo.
Più che un atto dovuto, si tratterebbe di un segno di riconoscenza e non al “signurinu”, “all’angelo senza ali”, o semplicemente “al piemontese”, ma a quella Calabria di sui si è umanamente occupato e fatto carico. E non come politico venuto in terra straniera a fare razzie di roba e contenuti, cercando poltrone nei palazzi della Bassitalia, ma come collaboratore e continuatore di un’opera chiamata “Meridione d’Italia” .
All’ età di vent’anni, venendo a conoscenza della realtà “tragica” del Sud del paese, decide di dedicare la sua vita ai derelitti del Mezzogiorno d’Italia.
In Calabria, Africo e Casalinuovo, cuore pulsante dell’Aspromonte, li raggiungeva a dorso di mulo o a piedi. Lassù la gente sembrava tutta perduta, abbandonata al proprio destino. Non v’era speranza, anzi vigeva l’abitudine al tragico andamento delle cose. Che non mortificava nemmeno più.
Dalla vita, gli aspromontani, non avevano avuto nulla se non il dono della montagna, della sua gigantesca ombra che, impervia e alta com’era, li rendeva sconosciuti al resto del mondo.
Zanotti Bianco, era rimasto affascinato dalla Terrarossa di Saverio Strati. Dalla devozione che quegli uomini e quelle donne avevano per la propria terra, pur non ricevendo da essa nulla in cambio, se non carestia e fame.
Lassù gli uomini, le donne e i bambini vivevano unitamente ai maiali, e mancava la farina, mancava la luce che, se non fosse per le tede che i pini fornivano gratuitamente, i volti di notte, non se li sarebbero mai potuti vedere.
Era la povertà dei luoghi accoppiata alla forza e alla bontà dell’animo della gente che aveva colpito e fortemente attratto, u signurinu.
Zanotti Bianco fu tra i più grandi testimoni della miseria in cui la gente di Calabria e del resto del Sud, viveva. Non era nato in Calabria, ma in Grecia, da padre piemontese e madre inglese. Del Sud non aveva sentito mai gli odori e neppure le puzze, prima del suo grande viaggio. Gli era bastato immaginarle però, tanto da voler risolvere il confino a cui veniva mandata la dignità umana dei calabresi.
Zanotti Bianco potrebbe liberamente essere il grande ispiratore del riscatto post moderno di una regione che dalla povertà di allora non è mai completamente uscita. Egli vide ciò che ancora il calabrese non riesce a concepire, e pere questo arretra. Di passi avanti uno, e indietro mille.
Le strade che non esistevano allora, mancano ancora oggi, e le intelligenze si formano altrove allora e qui non restano e non tornano neppure oggi.
La cultura salverà il mondo, recita qualche voce lontana, la letteratura salverà la Calabria, insisto io.
Pensieri che Zanotti Bianco avrebbe condiviso entrambi.
Egli vide nell’ istruzione e nella cultura, i supremi codici di riscatto della vita umana.
Non v’è altro per la rinascita dei popoli e delle comunità, se non la conoscenza. Essa porta idee, e le idee prospettano progetti, e i progetti se attuati, indicano sviluppo e progresso. Rinascimento.
Per il recupero della memoria storica, e una riacquisizione di consapevolezza e dignità del popolo del Sud, Zanotti Bianco, fondò “L’archivio storico per la Calabria e la Lucania”, avviò una “Collezione di Studi Meridionali”, nonché la società “ Magna Grecia”, volta al finanziamento di scavi archeologici. A Sibari, nel 1932, operò insieme al grande Paolo Orsi.
Egli non era certo figlio della rassegnazione, anzi usava la sua vita a favore di quella degli altri. A conferma che v’è più piacere nel dare che nel ricevere.
Firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce nel 1924, ma poi il regime lo avversò, proibendogli di continuare a risiedere in Calabria. E confinato fu poi arrestato.
Il suo nobile impegno per il paese però non cessò mai, anzi continuò fino alla morte.
Nel 1952, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, lo nominò senatore a vita.
Zanotti Bianco aveva un codice etico che in pochi uomini si è poi ritrovato o rivisto. Ma dal quale è sempre possibile ricavare novella vita. La storia insegna, si tramanda, e da essa si attinge come da una fonte d’acqua. La Calabria ha sempre offerto modelli eccellenti di uomini, ma è la capacità di trarre profitto dalle loro forze che le manca. E poi l’unità, è questa la virtù che le manca davvero. L’essere una e una cosa sola. Una società assoluta in tutte le sue parti.
Siete davvero certi, mi domando e vi domando, che il vostro progetto politico, cari signori della corte, siate voi uomini di mare o di scoglio, sia la giusta occasione di crescita sociale e culturale a cui i calabresi del popolo si debbano affidare, per una nuova Calabria possibile?
Non date a me un’attendibile risposta ora, ma riferite prima alla vostra coscienza. In essa mi auguro che il pensiero, l’idea, il progetto e soprattutto l’opera di Zanotti Bianco si insinui come un tarlo. Egli, i fuochi dell’Aspromonte di questa estate appena trascorsa, li avrebbe fermati anche con le mani, con noialtri a guardare non ci sarebbe stato.
Dunque gioco d’azzardo, e penso che se nel 1959, Zanotti Bianco, pubblicò Tra la perduta gente, pensando ad Africo e all’Aspromonte, oggi avrebbe semplicemente scritto e pubblicato “Tra la coscienza perduta”, pensando al resto della Calabria.
Un paese va vissuto sempre. Non soltanto in certi periodi come quello elettorale, in cui volti ignoti circolano per le vie cittadine puntando esclusivamente la preda, fingendosi innamorati dei luoghi , per una becera caccia al voto, quasi con lo stesso piglio di Ulisse (seppure quella è un’altra storia seria)ma ogni giorno della propria vita, nella quotidianità. Sempre. Se è estate, e se è inverno. Nei vichi, nelle piazze, nelle retrovie, sulla strada del mare, e in aperta campagna. Ovunque, in ogni angolo sacro di paese. Per esigenza, senso di responsabilità. Con coerenza, ma soprattutto con la bellezza della spontaneità. E ispirarsi all’apostolato di Zanotti Bianco, vuol dire dare ai calabresi una nuova spontanea occasione in questa terra. Ora. ′