«Donare significa arricchirsi, superare i propri limiti e sacrificarsi per amore di un perfetto sconosciuto». Questo, in sintesi, il messaggio della tavola rotonda “Dare vita ai giorni e non giorni alla vita” che, organizzato dall’Ufficio diocesano di pastorale della salute, diretto da don Francesco Farina, che ha intoroddo i lavori, si è svolto nei giorni scorsi a Lamezia Terme grazie anche all’impegno di un gruppo stabile di professionisti del mondo della sanità.
L’incontro è stato moderato da Maria Teresa Caruso, medico anestesista rianimatore e ha visto l’intervento della dottoressa Giuseppina Berardelli, medico infettivologo, che ha ricordato tutte le sfide affrontate fin dagli inizi della sua professione dalle patologie delle giovani generazioni, passando per i profughi arrivati in Calabria dopo viaggi in condizioni estenuanti, fino all’ultimo evento in ordine temporale: la lotta al Covid.
Il secondo intervento registrato è stata la testimonianza umana di Valentina Michela Falvo, avvocato, che in pieno periodo di pandemia, dopo aver effettuato la tipizzazione del midollo osseo, riceve la “chiamata” alla donazione, che risulterà tutt’altro che semplice e sarà portata a termine solo grazie all’amore pieno della donatrice oltre che alle competenze del personale addetto alla donazione.
L’intervento successivo è stato quello offerto in videoconferenza da Carmen Filice, giovane infermiera che si occupa di soccorso in mare la quale ha raccontato con dovizia di particolari quanto siano davvero complesse le operazioni di primo soccorso e accoglienza di queste persone davvero poco fortunate.
Subito dopo è stato il momento di Fanny Galeno, medico anestesista rianimatore, che da diversi anni si occupa dei pazienti che hanno necessità di essere ricoverati presso la terapia intensiva. Grazie al suo intervento è emersa la prossimità ma anche la solitudine che vive chi opera in questo ambito, in cui vita e morte si affrontano quotidianamente.
L’ultimo intervento della tavola rotonda è stato offerto da Christian Trapuzzano, medico oncologo, che, raccontando le sfide legate alla sua disciplina e alla fragilità dei suoi pazienti, che richiede vicinanza e capacità comunicativa, ha richiamato l’attenzione su un indumento, il pallio: un saio di lana grezza, stretto in vita e lungo fino al ginocchio, che per una persona ben abbigliata potrebbe risultare un di più, mentre per una persona all’addiaccio, abbandonata alle intemperie, ovvero il malato, risulta essere invece vitale. (rcz)